Il cronista ha un proprio linguaggio ed è tenuto a riportare determinati fatti, e non altri, considerati, in termini generali, meno importanti. Ma quali sono questi fatti di cui può parlare il cronista? Quelli che rivestono un interesse generale e immediato. Il giornalismo vive di alcune regole: la principale è quella delle cinque dabliù: Who, When, What, Where, Why. Puoi cambiare l’ordine, ma nessuna delle cinque domande può restare senza risposta. E poi c’è quella del “diritto all’oblio”. Significa che non possono essere riportati fatti accaduti in passato, e che non abbiano un riscontro nell’immediato. Perciò il cronista, il bravo cronista, ha la strada obbligata: parlare di fatti immediati e di interesse generale. Fatti che riguardano capi di stato, personaggi di grande notorietà, masse di popolazione, fatti sociali.
Bisogna svestire i panni del cronista, assumere una diversa postura, per parlare di fatti remoti, di accadimenti personali, dei propri stati d’animo, delle tante vite incontrate cercando di capire, per riferire la complessità del mondo. Il cronista riferisce l’immediato, ma le tante notizie dell’immediato, messe assieme, riassemblate, riorganizzate secondo un criterio di intelligenza e sentimento, hanno una diversa funzione: quella di aiutare nella comprensione e nella ricerca della verità sui fatti accaduti in su questa Terra.
La ballata delle frontiere di Flavio Fusi (editore Exorma, Roma 2024) è veramente una ballata. Il sottotitolo recita (è giusto il caso di dirlo) Storie dal secolo belva. Recita perché l’espressione è ripresa da una poesia di Osip Ėmil’evič Mandel’štam, uno dei grandi poeti del XX secolo, vittima della crudeltà del regime di Stalin. «Mio secolo, mia belva, chi potrà / guardarti dentro agli occhi / e saldare col suo sangue / le vertebre di due secoli?»
Flavio Fusi è noto per essere stato uno dei volti storici del TG3, inviato all’estero dal suo direttore. Dopo un primo periodo alla redazione dell’Unità, una missione nel Libano della guerra civile, il 9 novembre del 1989 si trovava a Berlino, e seguì come giornalista la caduta del Muro. Fra i momenti storici, importanti, che hanno contribuito a renderlo famoso, nel 1994 fu lui ad annunciare in diretta, e quasi in lacrime, l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. In seguito fu corrispondente Rai da New York e poi da Buenos Aires, con riferimento per l’intera America Latina.
Dopo la maturità classica ha studiato Politica internazionale e scienza della politica alla Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze. Flavio Fusi, come il fratello Valerio, viene da una famiglia contadina della provincia di Grosseto. Nel dopoguerra il padre Torquato, che aveva preso parte attiva nella Resistenza, è stato sindacalista, ricoprendo l’incarico di segretario di Federmezzadri, segretario di sezione e poi segretario provinciale del PCI, consigliere comunale, fino a essere eletto senatore in Parlamento per due legislature, dal 1968 al 1976.
Smessi i panni del cronista, libero dall’obbligo di descrivere l’immediatezza del presente, Flavio Fusi rievoca le persone incontrate, ripercorre i luoghi visitati, in cui ha vissuto, le storie tragiche taciute, soffocate dai più grandi sconvolgimenti politici. Confronta storie talvolta paradossali, come quella che vede il popolo dei kazaki migrare un tempo in Russia, mentre oggi sono i giovani russi che cercano di varcare la stessa frontiera, in direzione opposta, per sfuggire al reclutamento per la guerra in Ucraina. Individua frontiere mentali, che separano, nello stesso Stato, nelle stesse città, negli stessi quartieri, i ricchi dai poveri, o i bianchi dai neri. Quelle frontiere che nemmeno la rivoluzione a Cuba è riuscita a eliminare.
Cos’è l’“orlo” del primo capitolo? Un limite? È a Sarajevo, ci è tornato ai venti anni dalla guerra, e scrive ai trenta. Cerca le tracce di una storia che, in assenza di una specifica ricerca, rischi di perdere, di non percepire. Così come succede ai giovani che di quella storia non hanno ricordo. È una storia cancellata, non ricordata nemmeno nei libri che dovrebbero essere, ma non lo sono, di storia, appunto. Ma Flavio Fusi, fra i pochi, la conosce, quella storia, e sa come e dove cercarla: la traccia sbiadita di una granata. E scrive:
«Nel centro assediato dal traffico del mezzogiorno, nello slargo angusto che fu la piazza del mercato nella città assediata, bisogna cercarlo, il segno della granata che si portò via decine di vite, una brigata di povera gente in cerca di verdure, pane, farina per il quotidiano modesto piatto di guerra. Il colore rosso con cui era segnalata la frattura aperta dell’esplosione è già sbiadito, lavato via dalle piogge e dal sole. Quello che resta è un pallido tatuaggio destinato a svanire, sulla pelle della vecchia Sarajevo che si specchia nella silenziosa normalità della pace».
Ora può passeggiare tranquillamente, il cronista, per questa città, come se fosse nei luoghi dove è nato, che per generazioni non hanno visto guerra. E anche lì, a Sarajevo, i giovani nati dopo il conflitto possono uscire di casa, camminare lungo il viale dove giovani come loro furono falciati dalle frustate degli snipers dei cecchini serbi. I cronisti condividono con i cittadini gli stessi rischi: si rifugiano in una bottega. «C’era per noi, questa umile bottega, noi inzaccherati di fango e infreddoliti dal gelo della quotidiana inconfessabile paura, reduci dalle ampie vie scoperte sotto la minaccia del cecchino in agguato, in fuga dalla neve sporca della città assediata». Nel teatro di guerra si vive il rischio, si ha paura. Superare la giornata è una conquista. Superato il tempo della missione c’è un aereo che riporta il cronista a casa.
La ballata delle frontiere è la riorganizzazione per temi della trentennale carriera di Flavio Fusi, che nella narrazione si definisce “cronista”: tutto ruota intorno ai confini, le frontiere, e a ciò che la loro determinazione, percezione, invenzione, spostamento, eliminazione o creazione comporta. I confini, o le frontiere, nella terminologia del libro, sono i luoghi intorno ai quali si svolgono la maggior parte dei conflitti: religiosi, etnici, sociali, economici, esistenziali. Quello di Fusi è il particolare punto di vista di chi quelle condizioni le ha vissute, nei luoghi di conflitto ha incontrato persone, ha stretto relazioni, ha avuto paura per la sua stessa incolumità.
Il cronista incontra persone che difficilmente potrà dimenticare. Incarna forse la figura professionale che rassomiglia di più a quella dell’antropologo: entrambi hanno a che fare direttamente con le persone. Entrambi alle persone fanno domande, le inquadrano con le loro fotocamere, scrivono appunti di ciò che viene loro riferito, o di ciò che vedono, su taccuini, quaderni, diari di campo. È l’incontro ciò che li fa essere diversi da tutti gli altri professionisti. E poi entrambi hanno a che fare con gli oggetti. Gli oggetti utilizzati dalle persone che incontrano, oppure, in alcuni casi “oggetti d’affezione”. E il momento di difficoltà, di tensione, di paura, lo straniamento dovuto all’estraneità del luogo in cui si viene a trovare il cronista, rende più forti i legami. Fusi ricorda l’amico Milosz, che gli ha donato un talismano, un portafortuna che «non è vero ma ci credo», lo avrebbe protetto da ogni accidente. È un portasigarette di latta con l’immagine della Berlino della fine della Seconda guerra mondiale, divisa fra le forze occidentali e la zona sovietica, «sotto la bandiera rossa con la falce e il martello». L’oggetto d’affezione è anche un simbolo di ciò che in esso è rappresentato. Del resto non è facile resistere alla suggestione poetica di un’immagine che è stata il mito di generazioni.
Flavio Fusi con il suo libro, ci pone di fronte a un aspetto importante della complessità del mondo. Racconta le infinite frontiere, visibili e invisibili. Non dà risposte, ma impone domande: molte domande per ogni frontiera. Mostra che l’orrore degli effetti della guerra supera l’orrore della guerra stessa. Parla di incontri, di relazioni che si intrecciano, e che la particolare condizione di conflitto rende più forti, più intense. Ti fa sentire come il dolore della perdita sia un qualcosa che ti mangia dentro, come quando la mamma perde il figlio, la moglie il marito, la ragazza il fidanzato; o come quando il cronista perde il collega. Ma devi andare avanti comunque, compiere il tuo destino. E fare l’unica cosa che il cronista è chiamato a fare: guardare, ascoltare, capire, e poi raccontare. E denunciare.
«Dove eravamo nel 1976, quando Wolf Biermann fu cacciato come nemico dalla nazione? E dove eravamo ancora prima, quando il mite poeta Peter Huchel fu privato del lavoro, confinato in casa per quasi dieci anni sotto stretto controllo della Stasi e infine “graziato” con un esilio da cui non sarebbe mai tornato?».
Sono ricordi, narrazioni di esperienze dirette e indirette, quelle che Flavio Fusi mette sulla carta, il “j’accuse” rivolto a questo distratto, disorganico, sconsiderato “Occidente”, se questa parola “Occidente” significa ancora qualcosa di sensato, di organico.
Ricorda una telefonata da Berlino nel momento fatidico in cui la storia sembra riappropriarsi di se stessa, al suo direttore a Roma, a quel “Yul Brynner” nostrano con la pipa al posto della caramella con lo stecco, quando i telefoni funzionavano ancora coi fili, e le linee, specialmente “certe” linee, erano costantemente disturbate, come attaccate da scariche elettriche vacanti, che provocavano stani rumori e scroscii nella cornetta. «E i comunisti, cosa dicono i comunisti?». «Direttore – urla il giornalista di guerra – i comunisti non ci sono più…!».
Alterna la narrazione dei fatti ai suoi commenti, agli stati d’animo. Ricorda l’infinita schiera di epurati, a tutte le latitudini. Si chiede a un tratto: io dov’ero, quando la storia si stava svolgendo? Ma la domanda interiore di Flavio, è anche la domanda che rivolge al lettore, richiedendo così una partecipazione emotiva da parte di tutti noi. Dove eravamo durante il crollo del muro di Berlino? Dove eravamo durante la guerra di Bagdad?
Non tutte le frontiere, afferma Flavio, sono facilmente spiegabili. Frontiere che separano tutele, libertà, diritti, da sopraffazioni, soprusi, sottomissioni, ingiustizia. Ed è inevitabile che quelli che per destino nascono o comunque si vengono a trovare dalla parte “sbagliata”, cerchino di oltrepassarla, quella frontiera. Come i messicani che quotidianamente cercano di oltrepassare il muro che li separa dagli Stati Uniti, l’America per antonomasia.
Gli eventi della storia, prima raccontati da cronista, nel momento stesso, quasi, in cui di svolgevano, ora non sono più legati da una successione cronologica, e nemmeno sono raggruppati per aree geografiche: è piuttosto il flusso dei pensieri, dei ricordi, sono le pagine di un taccuino riorganizzate per temi, a regolarne il turno. Ogni capitolo del libro corrisponde a un’età della storia personale di Flavio. Le storie che vede e che racconta sono impastate con la sua stessa storia. C’è condivisione di condizione esistenziale, c’è partecipazione emotiva, c’è sofferenza, caldo, freddo, necessità di adattamento alle condizioni di vita di una terra che è diversa da quella in cui è nato, benché sia pur sempre la stessa vecchia Terra. Ma la differenza sta semplicemente in questo: che il cronista, immerso in un fronte di guerra, in una tragedia umana, in una migrazione, può sempre contare nell’aereo che lo riporterà a casa. I giornalisti, anche nei luoghi e nei tempi più tumultuosi, hanno stanze riservate in hotel lontani dal tumulto.
Il sogno dei ragazzi degli anni sessanta e settanta era un mondo senza confini né frontiere, come è la terra vista dallo spazio, come la vide Juri Gagarin. Era il sogno dei ragazzi comunisti, un sogno che è stato tradito. Grande è lo scarto fra ciò cui aspiravamo e ciò che invece abbiamo ottenuto, il mondo fra ciò che poteva essere e ciò che invece è stato ed è tuttora.
Che dire? Il muro è crollato. E le speranze che nascevano proprio da quelle macerie “Ora davvero non ci saranno più guerre!”, ben presto si sono dissolte. Spazzata via l’oppressione comunista, abbracciato l’Occidente peccaminoso, forse di meglio c’è solo qualcosa. L’Est si è assorbito, in un batter di ciglia, mentre si scrollava di dosso il comunismo opprimente, anche tutto il male dell’Occidente.
Quando il secolo breve stava per finire, racconta Flavio, le bombe Nato facevano a pezzi il regime di Milosevic cadendo su Novi Sad. I serbi attaccavano i villaggi del Kosovo, facevano fuoco sulle case e sugli abitanti che tentavano la fuga, «separano gli uomini dalle donne, poi fucilano gli uomini». Intanto, mille chilometri più a sud la polizia serba costringeva gli albanesi a lasciare le loro case in pochi minuti. Mezzo secolo prima gli uomini delle bande ebraiche uccidevano, stupravano, gettavano nei pozzi gli abitanti dei villaggi palestinesi intorno a Gerusalemme. Villaggi cancellati nella preparazione del nuovo Stato di Israele. Quattrocentodiciotto, dice Fusi, sono i villaggi scomparsi dal 1948 al 2023.
La guerra, tutte le guerre, sono una grande carneficina che non conosce confini. E proprio i confini sono la ragione della guerra. Quante saranno le fosse riempite di cadaveri dei nemici di cui solo più tardi si scopre l’esistenza? E la guerra non guarda in faccia nessuno: poeti, scrittori, giornalisti, massaie, contadini, boscaioli… vecchi, bambini… Quanti sono i bambini deportati in tenera età? Recentemente il Cremlino ha catturato, rapito, deportato i bambini, rimasti orfani o no, delle province orientali dell’Ucraina. Non ha inventato niente, Putin: già Hitler aveva rapito duecentomila bambini polacchi e deportati in Germania. Aveva perfino fissato delle regole di selezione: dovevano avere un’età inferiore agli otto anni (se no avrebbero ricordato le loro origini), e dovevano essere sani. Inutile dire che dovevano anche avere un aspetto ariano. Sarebbero stati affidati a coppie senza figli, che ne avrebbero fatto dei “veri ariani”. Alcuni sono stati rintracciati dai parenti rimasti in patria, e hanno accettato l’incontro. Altri non ne hanno voluto sentir parlare, ormai inseriti nella “nuova famiglia”.
Uno dei capitoli del libro è dedicato ai bambini sulle frontiere: “L’infanzia di Ivan”. Non sempre si tratta di frontiere fisiche, a volte si tratta di stare da una parte o dall’altra della stessa società. Parlando dei desaparecidos, Fusi cita alcuni casi di coppie rapite e scomparse nel nulla, di bambini nati e bambine nate in una cella dei sotterranei dell’ESMA. Era la scuola per allievi della Marina militare argentina (Escuela Superior de Mecánica de la Armada da cui l’acronimo) divenne centro di detenzione e tortura lo stesso giorno del colpo di stato argentino, il 24 marzo 1976. Era suddiviso in vari settori: oltre alle zone che ospitavano gli ufficiali e dove si decidevano le strategie di sequestro e i rapimenti, altre zone erano adibite alla detenzione, alla tortura, agli interrogatori. Un settore era destinato alle donne rapite incinte. Quei bambini e quelle bambine venivano tenuti con la madre solo alcuni giorni, poi portati via e affidati a famiglie complici del regime. I padri erano già stati uccisi, le madri saranno assassinate solo dopo aver donato la vita, una vita rubata al suo naturale destino. Saranno le abuelas, le nonne e i nonni, che tutti i giovedì scendevano in Plaza de Mayo, richiedendo indietro i propri figli e nipoti, che faranno ogni sorta di indagine e di pressione per rintracciare i propri cari.
Fusi cita il caso di un poeta, Juan Gelman, che ha speso l’intera esistenza nel rintracciare la propria nipotina, per la quale nutre un sentimento d’amore tanto forte da diventare odio «Questo amore con cui odio – recita una sua poesia – questa speranza che mangia pani disperati» (Gelman, 1956). In una delle sue ultime interviste Juan Gelman ragiona sulla conoscibilità dei fatti. Lo sconosciuto numero dei desaparecidos, la enorme cifra assorbe tutte le storie personali, tutto il dolore, tutta la rabbia. «Al contrario – dice Gelman nell’intervista – quando si sottolinea un caso particolare, allora anche tutti gli altri si illuminano. È il volto che riappare, non il numero».
Dopo aver accolto i criminali di guerra nazisti, dopo la dittatura feroce, dopo le migliaia di desaparecidos, oggi l’Argentina accoglie i rifugiati russi che sfuggono all’arruolamento per la guerra in Ucraina. Se l’Argentina avesse un’anima, forse l’accogliere donne incinte che sfuggono dalla Russia per paura di Putin e della guerra, sarebbe un riscatto per gli anni tremendi della dittatura. Poiché in Argentina vige lo “ius soli”, nascervi è sufficiente per diventare a tutti gli effetti cittadini di quel Paese. Sono quindi i piccoli nati a consentire la permanenza dei genitori, che potranno chiedere a loro volta la cittadinanza. Al contrario, con macabra ironia, come ci racconta Fusi, oggi la Russia “accoglie” i bambini orfani e non orfani ucraini, “prelevandoli” (rapendoli) dagli orfanotrofi e dalle scuole.
Io credo che con Juan Gelman Fusi abbia toccato il punto più alto della riflessione sui fatti che accadono su questa stanca Terra: per quanto i numeri abbiano un significato importante, ciò che esprime una condizione esistenziale, “illuminando” tutte le condizioni esistenziali consimili, è il volto, dice Gelman, è l’incontro, la storia personale. Il giornalismo di Fusi quindi non si ferma alla narrazione dei fatti, alla comprensione dei macro-fenomeni sociali, ma si addentra verso le storie personali, in un percorso impervio, aspro, difficile, coinvolgente. È una umanità, quella che esprime l’autore, che fa tesoro di quarant’anni di professione, in un approfondimento di conoscenza che mette insieme fatti osservati, persone incontrate, storie ascoltate direttamente e narrazioni di altri, di poeti, di scrittori, di comunisti non pentiti. Come Izet, che nel suo ultimo libro (Sarajlic, 2017) scrive: «Persino i nostri sogni del comunismo / valevano più / di tutte le nostre successive delusioni».
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Riferimenti bibliografici
Juan Gelman, “El juego en lo que andamos”, in El violin y otras cuestiones, Ediciònes Gleizer, Buenos Aires, 1956.
Izet Sarajlic, Il libro degli addii, Magma edizioni, 2017
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Paolo Nardini, laureato in filosofia con indirizzo demo-etno-antropologico presso l’Università di Siena, è giornalista dal 2006, scrive per Il Tirreno. Ha pubblicato su Maremma Magazine, il Manifesto e La Nazione. Dal 2015 organizza il Festival e i Laboratori annuali di musica popolare, a Grosseto, in collaborazione con il Circolo ARCI Khorakhanè. Nel 1986 inizia una collaborazione con il Comune di Grosseto per la realizzazione del Museo della Maremma di Alberese, con la guida di Maria Luisa Meoni e il coordinamento di Pietro Clemente. Da allora, e fino a oggi, si occupa dell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma, un centro di ricerca e di riproposizione delle attività tradizionali. Fra le pubblicazioni, tutte edite da Effigi, si segnala: Improvvisar cantando: Atti dell’incontro di studi sulla poesia estemporanea in ottava rima, a cura di, con Corrado Barontini (2009), Monticello Amiata. Una ricerca etnografica intorno alla Casa Museo (2011); Il Cerchio Magico: Atti del convegno sulle figure magiche nelle narrazioni di tradizione orale in Maremma (2011); Don Luigi Rossi e il rifugio Sant’Anna (2013); Il Sessantotto in Maremma: un figlio dei fiori non pensa al domani (a cura di, con Flavio Fusi) (2018); Sant’Antonio Abate. La benedizione degli animali a Castell’Azzara (2019).
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