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Il pianoro “Le Case” di Marettimo: sacralità, storia, scienza

Complesso monumentale del sito Le Case nell’isola di Marettimo.

Complesso monumentale del sito Le Case nell’isola di Marettimo

di Emilio Milana 

Il contesto archeologico 

Su un pianoro dell’isola di Marettimo, Iera per gli antichi, a circa 200 m di altezza s.l. m, si trovano dei ruderi, datati all’interno di un arco temporale esteso dal periodo ultimo repubblicano romano fino al medievale del XII secolo.

Nel sito, a cui i primi colonizzatori dell’isola di fine settecento avevano dato il nome Le Case, oggi ci si trova di fronte a un materiale documentario vario e disomogeneo: le strutture di una basilica protobizantina e di una chiesetta medievale basiliana; le mura di un fortilizio/cenobio  di “probabile” origine romana;  le due fonti vicine ,‘u Ceusu e ‘a Testa ‘i l’acqua; dei monoliti, grossolanamente sagomati e allineati  a Nord verso il promontorio di Punta Troia, sovrastato sulla cima da una antica guarnigione spagnola, indicata sulle carte medievali come Castello del Marètimo. 

Il sito è stato oggetto di due campagne di scavi, nel 1994-95 e 2007-08, condotte dal Dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo, le cui conclusioni di massima, circoscritte solo alla fase medievale, vedono, in particolare, i monoliti come piedritti di un muro di recinzione costruito secondo la tecnica del “muro a telaio” (opus africanum), testimonianza di una possibile influenza architettonica di origine nord-africana. Gli stessi risultano coevi alla basilica protobizantina a tre navate [1], di cui rimane esistente solo il tracciato dei muri perimetrali e nella cui navata centrale insiste la chiesetta normanna eretta nell’XI secolo [2]. 

 Aerofoto del complesso monumentale del sito Le Case

Aerofoto del complesso monumentale del sito Le Case

Uno sguardo alla ripresa aerea del sito evidenzia i due ruderi (fortilizio e basilica) affiancati a un’area trapezoidale (in rosso), non invasa nel tempo, la cui base maggiore insiste sulla linea direttrice dei monoliti. Si potrebbe pensare che l’uomo, in epoche diverse, abbia voluto mantenere un atteggiamento di rispetto per quest’area, in cui la presenza dei monoliti assume probabilmente un carattere monumentale.  Ma rispetto a che cosa? A un’area sacra? A un evento importante?

Occorrono verifiche accurate, rivolte con attenzione al sito, al territorio, ai toponimi, alle tradizioni, financo alle leggende. Si cercherà, pertanto, una risposta estendendo l’asse temporale degli eventi storici più significativi, variando i punti di vista da cui questi possono essere osservati. 

Blocchetto di ossidiana rinvenuta nel pianoro Le Case dal sig. Mimmo Bertolino: Evidenti i segni della azione umana per ricavarne attrezzi o punte di  frecce

Blocchetto di ossidiana rinvenuta nel pianoro Le Case dal sig. Mimmo Bertolino: Evidenti i segni della azione umana per ricavarne attrezzi o punte di frecce

Le prime presenze umane nell’isola 

È presumibile che l’uomo arcaico sia vissuto nell’isola. Il rinvenimento nel pianoro Le Case di pezzi di ossidiana eoliana lavorata e di un frammento di skyphos fenicio dell’VIII secolo a.C. autorizzano a sostenere l’ipotesi della frequentazione dell’uomo preistorico prima e di quello fenicio dopo.

Frammento di skyphos fenicio trovato nel sito Le Case _____   Le caratteristiche del frammento (ingobbio, colore, fregi ornamentali, lettera “bet”) portano alla ceramica fenicia tinta dell’VIII sec. a.C. caratteristica dell’isola di Mothia. Primo esempio di presenza fenicia a Marettimo. Foto concessa a E. Milana dalla compianta Fabiola Ardizzone durante gli scavi di Le Case eseguiti nel periodo 2007-2008.

Frammento di skyphos fenicio trovato nel sito Le Case. Le caratteristiche del frammento (ingobbio, colore, fregi ornamentali, lettera “bet”) portano alla ceramica fenicia tinta dell’VIII sec. a.C. caratteristica dell’isola di Mothia. Primo esempio di presenza fenicia a Marettimo.
Foto concessa a E. Milana dalla compianta Fabiola Ardizzone durante gli scavi di Le Case eseguiti nel periodo 2007-2008.

L’ipotesi dell’uomo preistorico potrebbe essere rafforzata dalla evidenza di alcune strutture megalitiche [3], ancora visibili oggi sul pianoro, ma significativamente leggibili in alcune rare foto scattate nel 1893 da Samuel Butler, l’estroso professore di Oxford che aveva visto in Marettimo l’isola nativa di Ulisse.

È significativa nella seconda foto di Butler la presenza di una corona circolare (in chiaro), composta di pietre legate forse con malta, che rimanderebbe alla base di un pagghiaro. I pagghiari, sulla montagna di Marettimo, sono capanne a forma tronco-conica realizzate con blocchetti di pietra murati a secco, assimilabili nell’aspetto ai sesi di Pantelleria. È significativa nella seconda foto di Butler la presenza di una corona circolare (in chiaro), composta di pietre legate forse con malta, che rimanderebbe alla base di un pagghiaro. I pagghiari, sulla montagna di Marettimo, sono capanne a forma tronco-conica realizzate con blocchetti di pietra murati a secco, assimilabili nell’aspetto ai sesi di Pantelleria.

Portale con traversa monolitica e massi megalitici alla base (in chiaro) inglobati nel muro di levante di una struttura realizzata in tempi più recenti, presumibilmente adibita a cisterna. La struttura potrebbe indirizzarsi a un “dolmen” per sepoltura familiare o a un santuario religioso. ____ Foto scattata da Samuel Butler in occasione di un suo viaggio a Marettimo nell’agosto del 1893.

Portale con traversa monolitica e massi megalitici alla base (in chiaro) inglobati nel muro di levante di una struttura realizzata in tempi più recenti, presumibilmente adibita a cisterna. La struttura potrebbe indirizzarsi a un “dolmen” per sepoltura familiare o a un santuario religioso.
Foto scattata da Samuel Butler in occasione di un suo viaggio a Marettimo nell’agosto del 1893.

Vista laterale dell’edificio quadrangolare in località Le Case identificata a-posteriori come fortilizio romano del I secolo a.C. Sono visibili (in chiaro) inseriti nella struttura muraria un portale e blocchi angolari di rinforzo megalitici (?). _________ Foto di Samuel Butler (1893).

Vista laterale dell’edificio quadrangolare in località Le Case identificata a-posteriori come fortilizio romano del I secolo a.C. Sono visibili (in chiaro) inseriti nella struttura muraria un portale e blocchi angolari di rinforzo megalitici (?). Foto di Samuel Butler (1893)

Pagghiaru marettimaru

Pagghiaru marettimaru

I pagghiari sono dimensionalmente più piccoli (3¸4 m di diametro) e venivano utilizzati fino alla fine del ‘600 come rifugio dai pochi residenti dell’isola. Basi circolari analoghe sono state rinvenute in un altro sito, denominato Calvario-Pezza ‘i fave, indirizzabile, sulla base di un’analisi ceramologica, a una postazione militare punica [4]. Già verso la fine dell’Ottocento il grande Paolo Orsi aveva visto nei sesi di Pantelleria dei monumenti megalitici “tanto affini” ai nuraghi di Sardegna [5].

Pagghiari marettimari – Da un censimento sommario sul versante di levante della montagna sono ancora visibili circa cinquanta  esemplari.

Pagghiari marettimari – Da un censimento sommario sul versante di levante della montagna sono ancora visibili circa cinquanta esemplari 

Non è fuori luogo legarli ai Fenici se teniamo conto che nella costruzione di Tharros fu utilizzata una grande manovalanza proveniente dalla vicina comunità nuragica, che probabilmente avrebbe trasferito ai colonizzatori orientali la loro tecnica muraria.

Una primitiva testimonianza letteraria sull’antica Jera ci perviene da Polibio, che riferendosi all’isola più lontana dell’arcipelago la cita come “l’isola cosiddetta sacra”. Non ci dice lo storico della Battaglia delle Egadi a chi e perché fosse sacra. Forse lo sapevano tutti. Almeno quelli che si trovavano a transitare per quel tratto di mare nevralgico del Mediterraneo.

Alla ricerca del “Genius loci”: l’acqua, la pietra, il paesaggio 

L’uomo primitivo è stato sempre attratto da ciò che la fantasia riusciva a proiettargli oltre le immagini del reale, guidandolo in una dimensione sconfinata di alterità indistinte, che lui stesso cercava di distinguere e acquisire attraverso pratiche magiche e spiritualistiche. Aveva individuato nel “sole” il Dio Supremo; nell’“acqua” l’elemento primigenio della vita; nello “spirito”, l’intima essenza di ogni cosa; quello spirito che, poi, i Greci chiameranno Daimon e i Latini Genius loci e che affonda le sue radici nell’idea della sacralità dei luoghi.

Nullus locus sine genio, scriveva il retore latino Servio Mario Onorato, facendo riferimento a uno “spirito”, a una “anima”, che indifferentemente si poteva trovare sia nell’animo di ogni uomo, che in quello dei luoghi. Quei luoghi che sopravvivono all’avvicendarsi delle generazioni, che non sono semplici spazi fisici, ma entità dotati di una identità, modulata dalle linee culturali e storiche con cui l’uomo ne fa uso. I luoghi sono qualcosa che l’uomo ha creato nel segno dell’incontro tra intelligenza e natura; elementi di quel complesso mondo circuitale che riflette l’impianto del nostro cervello. Purtroppo, quel filo invisibile che per millenni ha legato l’uomo al luogo oggi è lacerato dalle astrazioni del razionalismo e della rivoluzione scientifica conferendo al luogo l’idea di uno spazio “vuoto”, uniforme.

Nel luogo/pianoro i monoliti di Marettimo, oggi visti come inanimati piedritti di un muro, sono stati posti da uomini che, attratti anticamente da un richiamo numinoso d’istintiva dedizione alla magia del sito, hanno voluto porre  degli importanti simboli litici per proteggere la sacralità ambientale. Queste pietre, isolate, accuratamente allineate con i solstizi e gli equinozi, prive del noise frenetico cittadino, andrebbero viste attraverso una costruzione storica, culturale, sociologica. Esaminiamone i contenuti: 

Lacqua 

L’acqua è oggetto di ierofania: è il fondamento del mondo intero, la sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme di esistenza; è la linfa della vegetazione con il suo potere germinativo, fecondante; esprime potenza e continuità. Sotto questa luce, la presenza delle due sorgenti conferisce al pianoro un’aura sacrale.

Non è strano pensare che la sacralità sia stata il leit motiv della storia di Marettimo, conferendo ora a quel sito, ora a quell’evento storico connotati particolari. Una sacralità dovuta, sicuramente, alla presenza delle sue fonti naturali di acqua, che fanno dell’isola un unicum nella compagine insulare mediterranea, e alle divinità che dell’acqua nel passato furono simbolo. Come Iside, dea dell’acqua e dei naviganti, che una mano fenicia ha voluto ricordare, invocandola, in un’epigrafe lasciata in località u’ Scrittu, sul lato nord-ovest dell’isola, prossima a una sorgente d’acqua. 

La pietra 

Le pietre diventano sacre nel momento in cui si realizzano in una cosa diversa dal “resto” circostante, abbandonando la loro condizione normale di “pietre” e divenendo sede rappresentativa di una “cosa” che trascende, di un sito dove il “Soprannaturale” ha eletto un domicilio temporaneo. Rivelano all’uomo primitivo – con la loro durezza, la loro resistenza, i loro contorni – la potenza, immagine figurata di una realtà che va al di là della condizione umana. Diventano sacre perché le anime degli antenati si incarnano in esse; perché assurgono a custodi dei luoghi dei morti; perché sono testimoni di un patto solenne; perché sono sede di un fatto onirico-magico; perché sono l’altare di un culto. Gli attuali monoliti del pianoro di epoca bizantina, probabilmente, sono il seguito di pietre primitive deposte nello stesso sito da altre mani. Mani arcaiche di individui che nelle pietre vedevano il mezzo simbolico per rapportarsi in qualche modo con l’Essere Supremo [6]. 

Il paesaggio 

Il paesaggio del pianoro Le Case, percepito dal passante, mostra le peculiarità dominanti del luogo, dei tratti distintivi saldamente legati sia allo spazio tridimensionale circostante, sia all’atmosfera che intorno vi aleggia. Lo vediamo come “paesaggio naturale”, dove regna l’equilibrio, la montagna, la vegetazione, il profumo; dove il cammino del sorgere del sole tra i solstizi scandisce il percorso dell’anno; come “paesaggio cosmico”, dove lo sguardo rivolto all’orizzonte indistinto tra le altre due isole, Levanzo e Favignana, può condurre al senso dell’infinito; come “paesaggio strategico”, da dove il “potente” di turno può esercitare il suo controllo sotto la spinta di un’ ambizione di predominio. Prende così forma e si modella, con il tempo e la storia, il Genius loci del pianoro. 

L’idea del tempo 

È il genius loci a spingere l’uomo arcaico, nella ricerca di un significato da dare al “tempo”, a scegliere un luogo dove sistemare delle pietre per allinearle con il sole. Le pietre così sistemate ad arte, allora, non sono più semplici pietre nel momento in cui la cultura dell’uomo li ha dedicati all’osservazione del tempo, ai concetti di infinità, di misura, di opportunità. Per noi moderni, abituati a concepire il tempo come un’entità immateriale individuata da un solo termine lessicale, queste distinzioni possono apparire solo esercizio linguistico; assumono, invece, importanza nella prospettiva spirituale degli antichi che, sebbene poveri di conoscenze, non erano, però, privi della capacità di teorizzare.

I Greci, già, avevano tre termini per riferirsi al tempo: Aion, per esprimere l’eternità; Krònos per misurare la durata di un evento; e Kairòs per indicare l’opportunità, il momento conveniente, il momento in un periodo imprecisato, in uno spazio indefinito. Come chiarire Kairòs? In mare un buon marinaio sa che, nell’entrare in un porto aggredito dalla furia dei marosi, la buona riuscita dell’operazione non è data solo dalla barca e dalle mani del timoniere, ma dal momento e dallo spazio in cui cavalcare l’onda giusta, propizia, che lo porterà dentro, al sicuro. Questo è Kairos! Sempre altalenante tra tempo e spazio, tra dubbio e certezza, tra conoscenza e ignoto. 

 I monoliti del sito Le Case

I monoliti del sito Le Case

La commensurabilità del tempo: il calendario solare 

La storia, però, modifica, trasfigura le ierofanie, e così dalle pietre, come anche dalle acque e da tutto ciò che in natura può diventare ierofania, vengono generati nuovi significati, simboli, riti, diversi da quelli che l’uomo primitivo ha concepito. I monoliti, come indicatori del tempo, si legano alle varie attività dell’uomo, alle ricorrenze religiose, alle gesta degli eroi, alle leggende, ai miti.

Per i bizantini i monoliti sono concepiti come l’elemento base di un calendario solare, in cui i sei intervalli spaziali scandiscono il susseguirsi dei mesi durante il muoversi del sole, in un ciclo di andata e ritorno, tra le due posizioni estreme dei solstizi. Il “punto di mira”, da cui si effettua il traguardo, lo si ritrova in un grosso blocco di pietra squadrato, sistemato con cura dall’uomo antico, mentre la verifica degli allineamenti è attuata su una mappa generata attraverso una ripresa aerofotogrammetrica, assistita da riferimenti a terra intelligenti (marker) e da un drone [7].

Dall’ ortomosaico ottenuto provengono i due più importanti valori angolari: quello di 60° in corrispondenza del sorgere del sole al solstizio d’estate e quello di 119°,5 (vicinissimo a 120°) relativo al solstizio d’inverno, valori perfettamente allineati con quelli rilevati su altri indicatori solari ritrovabili nell’occidente della Sicilia [8].

Mappatura dei marker nel sito Le case ________ I marker (unità S580 della Stonex), punti di geolocalizzazione disposti a terra come ausilio alla aerofotogrammetria, sono ricevitori satellitari GNSS intelligenti, che, assistiti da un software di correzione differenziale in tempo reale (RTK), forniscono valori di posizionamento molto precisi del drone in corrispondenza dell’istante di ripresa dei fotogrammi. Connessi a un software di “surveying” gestito da PC generano immagini 2D e 3D altamente accurate.

Mappatura dei marker nel sito Le case. I marker (unità S580 della Stonex), punti di geolocalizzazione disposti a terra come ausilio alla aerofotogrammetria, sono ricevitori satellitari GNSS intelligenti, che, assistiti da un software di correzione differenziale in tempo reale (RTK), forniscono valori di posizionamento molto precisi del drone in corrispondenza dell’istante di ripresa dei fotogrammi. Connessi a un software di “surveying” gestito da PC generano immagini 2D e 3D altamente accurate 

Ortomosaico del sito archeologico Le Case L’immagime planimetrica rappresenta il risultato dell’elaborazione di 673 fotogrammi del drone, corretti dagli errori di prospettiva e di aberrazione sferica generati dal sistema ottico di ripresa. Il software applicato è l’Agisoft Metashape. I rilievi angolari sono ricavati automaticamente.

Ortomosaico del sito archeologico Le Case
L’immagine planimetrica rappresenta il risultato dell’elaborazione di 673 fotogrammi del drone, corretti dagli errori di prospettiva e di aberrazione sferica generati dal sistema ottico di ripresa. Il software applicato è l’Agisoft Metashape. I rilievi angolari sono ricavati automaticamente

 

Solstizi ed equinozi dal pianoro _____ L’evidente sopraelevazione del monolito centrale chiaramente evidenzia un ruolo di riferimento, di polarizzazione, di centralità associato probabilmente alla ricorrenza del capodanno siciliano considerato, nel passato, il 25 marzo. Ma, sul versante religioso, potrebbe sottolineare altre coincidenze: secondo sant’Agostino e san Cipriano, la stessa data corrispondeva alla prima Pasqua cristiana e inglobava anche l’Annunciazione. Con quest’ultima festa si intendeva cristianizzare quel giorno dedicato ai riti di Attis:come questi erano dedicati alla Madre e al Figlio, similmente l’Annunciazione veniva dedicata alla Vergine e al Cristo. D’altra parte, poiché il 25 marzo distava all’incirca nove mesi dal 25 dicembre, data in cui ricadeva il “Natalis solis invicti” dei Romani, venne favorevole sostituire la festa romana con il “Natale del Signore”, sole della cristianità. L’Annunciazione, ricadente nell’equinozio di primavera, rappresentava pertanto un evento importante, uno spartiacque, uno zero separatore: si chiudeva l’era pagana e si apriva quella cristiana. Anche il monolito centrale, quello dell’equinozio, doveva evidenziare questa importanza.

Solstizi ed equinozi dal pianoro. L’evidente sopraelevazione del monolito centrale chiaramente evidenzia un ruolo di riferimento, di polarizzazione, di centralità associato probabilmente alla ricorrenza del capodanno siciliano considerato, nel passato, il 25 marzo. Ma, sul versante religioso, potrebbe sottolineare altre coincidenze: secondo sant’Agostino e san Cipriano, la stessa data corrispondeva alla prima Pasqua cristiana e inglobava anche l’Annunciazione. Con quest’ultima festa si intendeva cristianizzare quel giorno dedicato ai riti di Attis:come questi erano dedicati alla Madre e al Figlio, similmente l’Annunciazione veniva dedicata alla Vergine e al Cristo. D’altra parte, poiché il 25 marzo distava all’incirca nove mesi dal 25 dicembre, data in cui ricadeva il “Natalis solis invicti” dei Romani, venne favorevole sostituire la festa romana con il “Natale del Signore”, sole della cristianità. L’Annunciazione, ricadente nell’equinozio di primavera, rappresentava pertanto un evento importante, uno spartiacque, uno zero separatore: si chiudeva l’era pagana e si apriva quella cristiana. Anche il monolito centrale, quello dell’equinozio, doveva evidenziare questa importanza.

 Assemblaggio grafico dell’insieme fotilizio/cenobio, basilica protobizantina, chiesetta normanna, calendario solare e punto di mira


Assemblaggio grafico dell’insieme fotilizio/cenobio, basilica protobizantina, chiesetta normanna, calendario solare e punto di mira

Il culto delle acque e il collegamento con Lylibeo 

Se dal periodo arcaico fino alla nascita di Cristo l’acqua rappresenta l’elemento fondante della sacralità che aleggia sull’isola e Iside ne rappresenta un’icona importante, dopo la comparsa del Cristianesimo un’altra figura sacra sembra aggiungere valore all’antica sacralità. È Maria Vergine! Il suo nome lo ritroveremo nei toponimi, nelle persone, nelle barche, nella chiesa, nelle leggende, nelle storie marettimare che nel corso dei secoli si sono avvicendate.

Fonte battesimale interno alla basilica Poiché il sacramento del battesimo non era presumibilmente somministrato è presumibile che nella mente dei monaci albergasse l’intenzione di creare non uno strumento sacramentale, ma un segno sacrale, quello dell’acqua; l’acqua che purifica con l’immersione e che rigenera con l’emersione.(Archivio Università di Palermo)

Fonte battesimale interno alla basilica. Poiché il sacramento del battesimo non era presumibilmente somministrato è presumibile che nella mente dei monaci albergasse l’intenzione di creare non uno strumento sacramentale, ma un segno sacrale, quello dell’acqua; l’acqua che purifica con l’immersione e che rigenera con l’emersione. (Archivio Università di Palermo)

Nell’iconografia, la figura di Maria sembra ispirarsi a quella di Iside attraverso dei tratti essenziali: il viso dolce, il portamento regale, l’amore per il figlio, Horos per Iside e Gesù per Maria [9]. Il culto mariano approda nell’isola [10], che ora prende il nome di Maritima, presumibilmete all’inizio del III secolo, provenendo dai movimenti colliridiani [11], che, sviluppatisi nel Nord Africa (Byzacena), erano giunti ad adorare la madre di Gesù come una divinità.

È ipotizzabile che siano basiliani i primi monaci che, arrivati in Maritima [12], inserendosi nella comunità cristiana presente, realizzino un edificio religioso sul pianoro, annettendo il fortilizio romano come cenobio [13] e inserendo nella basilica un fonte battesimale nel secolo successivo. Elementi quali la devozione per la Madonna, la predilezione di un luogo già sacro per l’edificazione della basilica si prestano a identificare l’edificio basilicale come un santuario dedicato alla Vergine Maria piuttosto che come un impianto monastico o una chiesa clericale. D’altro canto la stessa presenza del fonte battesimale, in netto contrasto “con le ordinative di Pelagio (556-561) e Gregorio Magno (590-604) volte a impedire la somministrazione del battesimo nei monasteri” e il mancato rinvenimento di sepolture [14], interpretabile come assenza di “anime da curare”, rafforzerebbero l’ipotesi santuariale.

La rioccupazione del sito sembra connessa alla propensione dei monaci basiliani a impiantarsi su precedenti strutture cristiane, quasi sempre vicine a sorgenti d’acqua. Fenomeno, questo, attestato in alcune chiese del contesto marsalese, tra cui si annovera per singolarità quella di san Giovanni Battista, nella cui cripta vicino a una fonte veniva praticato il culto greco della Sibilla. Anche a Lampedusa nella grotta attigua al santuario della Madonna di Porto Salvo si trova una sorgente, a cui, secondo documenti d’epoca, erano soliti rifornirsi d’acqua i marinai di passaggio. 

Nella realtà storica del pianoro marettimaro la Grotta della Sibilla gioca un ruolo importante: la sorgente che vi si trova all’interno sia nel tempo primitivo che in quello pagano fu credibilmente utilizzata come luogo di culto delle acque e successivamente in epoca cristiana come fonte battesimale. Sul culto oracolare legato alla Sibilla e all’acqua di quel pozzo non rimane alcuna traccia archeologica, mentre  scarse sono le testimonianze letterarie: Diodoro Siculo nella sua Biblioteca Storica descrivendo lo sbarco di Annibale sul promontorio Lylibeo, in procinto di porre l’assedio su Selinunte nel 409 a.C., così descrive il momento: «…il cartaginese Annibale conduceva i suoi soldati presso il capo che sta di fronte la Libia e poneva il suo accampamento vicino a un pozzo chiamato Lylibeon…» Un’altra testimonianza la troviamo in Solino [15] che, tra il III e IV secolo, scriveva che «… Lilybetano Lilybeum oppidum decus est Sibillae sepulcro …» cioè che presso il capo lilybetano la città di Lilybeo pone un decoro con il sepolcro della Sibilla.

La sorgente d’acqua sembra essere un elemento fondamentale per motivare l’ininterrotta frequentazione del sito, alimentando la tradizione secondo la quale la Grotta fosse luogo di culto delle acque. Studiosi ottocenteschi del rango del francese Mircea Eliade [16] e dell’italiano Raffaele Pettazzoni [17] sostenevano che nella grotta marsalese il culto della Sibilla si era sovrapposto a un primitivo culto locale, praticato attorno alla fonte d’acqua, alla quale i Protosiculi praticavano “ordali” [18] e “incubazioni profetiche” [19].

Così scriveva Raffaele Pettazzoni in La religione primitiva in Sardegna del 1899: 

«Nell’estremo occidentale dell’isola, a Lilibeo (Marsala), il culto greco della Sibilla, a base d’idromanzia, dovè sovrapporsi a un primitivo culto indigeno avente suo centro in una specie di pozzo o spelonca invasa dalle acque, dove si accorreva per responsi; come poi alla Sibilla successe San Giovanni Battista, il veridico preannunziatore di Cristo, il cui santuario fu eretto nel secolo sull’antico antro, e divenne meta di pellegrinaggi per la virtù delle acque miracolose.
Né va dimenticato che la più antica notizia dell’ordalia sicula ci occorre nell’opera di uno scrittore greco del III secolo a.C. la quale trattava dei fiumi o, più genericamente, dei corsi d’acqua meravigliosi della Sicilia [20] . Anche in questo stesso titolo abbiamo, forse, per la Sicilia un accenno a quella religione delle acque che noi vedemmo già in Sardegna, e che incontreremo in diversi altri punti del Mediterraneo, tramandata dalle età e dalle genti remote della preistoria». 
Grotta Sibilla – Basilica S. Giovanni ____   a) La grotta si trova a 4,80 metri di profondità ed è costituita da un vano centrale circolare scavato nel tufo, coperto da una cupola, il cui lucernaio versa sul pavimento della chiesa soprastante. Al centro dello spazio circolare è una vasca nella quale si convoglia l’acqua proveniente dalla fonte vicina. Davanti è un altare su cui è posto un busto dedicato a San Giovanni. b) Dal pavimento della navata della chiesa si accede alla grotta attraverso due aperture che fanno capo a due rampe di scale. c) La basilica dedicata a San Giovanni Battista è stata eretta nel 1555 dai Gesuiti e pare che in precedenza i Padri Basiliani vi avessero eretto una chiesetta nel XII secolo.

Grotta Sibilla – Basilica S. Giovanni. a) La grotta si trova a 4,80 metri di profondità ed è costituita da un vano centrale circolare scavato nel tufo, coperto da una cupola, il cui lucernaio versa sul pavimento della chiesa soprastante. Al centro dello spazio circolare è una vasca nella quale si convoglia l’acqua proveniente dalla fonte vicina. Davanti è un altare su cui è posto un busto dedicato a San Giovanni.
b) Dal pavimento della navata della chiesa si accede alla grotta attraverso due aperture che fanno capo a due rampe di scale.
c) La basilica dedicata a San Giovanni Battista è stata eretta nel 1555 dai Gesuiti e pare che in precedenza i Padri Basiliani vi avessero eretto una chiesetta nel XII secolo.

La tradizione del culto delle acque nella Grotta sibillina sembrerebbe trovare conferma anche nel recente ritrovamento (gennaio 2005), durante gli scavi nell’area contigua alla chiesa di San Giovanni, di una statua marmorea di Afrodite/Venere che raffigura la dea nell’atto di coprirsi dopo il bagno.

Secondo l’autorevole pensiero di Eliade: 

«la fonte, l’acqua … manifestano la potenza, la vita, la perennità; sono e sono vivi. Nel corso della storia acquistano autonomia, e il loro culto dura malgrado altre epifanie e altre rivelazioni religiose. Rivelano incessantemente la forza religiosa che è loro propria… mostrando un’impressionante continuità. … che si estende talvolta dall’epoca neolitica ai giorni nostri… Nessuna rivoluzione religiosa ha potuto abolirlo; alimentato dalla devozione popolare… [è finito] per essere tollerato persino dal cristianesimo» [21]. 

Oltre alla sorgente d’acqua, esistono altri elementi che accomunano i ruderi del pianoro dell’isola di Marettimo con la Grotta marsalese di Capo Lilibeo:

  • la frequentazione dell’uomo neolitico;
  • la presenza dei monaci basiliani nel XII secolo, artefici della chiesetta sul pianoro e di quella antecedente la basilica di San Giovanni Battista;
  • la funzione battesimale dei due siti religiosi,
  • la funzione di transito nelle rotte commerciali e nelle peregrinazioni religiose del periodo paleocristiano;
  • un interessante collegamento archeoastronomico tra il calendario solare del pianoro marettimaro e la Grotta di Capo Lilibeo durante il solstizio d’inverno.
urante il solstizio d’inverno il primo monolito del pianoro risulta allineato, sotto l’angolo di 119,5°, con Capo Lilibeo e la Grotta della Sibilla, traguardando il sorgere del sole dalla finestrella posizionata sul muro di mezzogiorno del fortilizio romano.

Durante il solstizio d’inverno il primo monolito del pianoro risulta allineato, sotto l’angolo di 119,5°, con Capo Lilibeo e la Grotta della Sibilla, traguardando il sorgere del sole dalla finestrella posizionata sul muro di mezzogiorno del fortilizio romano  

Allineamento del punto ortivo del sole, durante il solstizio d’inverno, sotto l’angolo di 119,5°, con due finestrelle ricavate rispettivamente sul muro di mezzogiorno e su quello di ponente del fortilizio. La finestra di mezzogiorno è aperta, mentre quella di tramontana risulta tappata. Questa finestrella, sotto il valore simbolico, potrebbe collegarsi a una leggenda tramandata da T. Fazello, secondo la quale i “fedeli” nel periodo pagano nel chiedere il vaticinio alla Sibilla lilibetana si servivano di una piccola finestra attraverso la quale calavano all’interno del pozzo le offerte per ottenerne in cambio il responso.  Qualche critico tenderebbe a demolire tale credenza con l’osservazione che soltanto in epoca moderna gli ambienti della Grotta sono ipogeici. La testimonianza di Diodoro Siculo, però, attesta l’esistenza del pozzo già al tempo dei Cartaginesi.

Allineamento del punto ortivo del sole, durante il solstizio d’inverno, sotto l’angolo di 119,5°, con due finestrelle ricavate rispettivamente sul muro di mezzogiorno e su quello di ponente del fortilizio. La finestra di mezzogiorno è aperta, mentre quella di tramontana risulta tappata. Questa finestrella, sotto il valore simbolico, potrebbe collegarsi a una leggenda tramandata da T. Fazello, secondo la quale i “fedeli” nel periodo pagano nel chiedere il vaticinio alla Sibilla lilibetana si servivano di una piccola finestra attraverso la quale calavano all’interno del pozzo le offerte per ottenerne in cambio il responso. Qualche critico tenderebbe a demolire tale credenza con l’osservazione che soltanto in epoca moderna gli ambienti della Grotta sono ipogeici. La testimonianza di Diodoro Siculo, però, attesta l’esistenza del pozzo già al tempo dei Cartaginesi 

 Conclusioni 

Dalla dura lezione di un lockdown covidiano è emersa la necessità dell’uomo moderno di rapportarsi con l’intorno, riferendosi a un più ampio concetto di luogo. Riprendendo l’attenzione per un Genius loci caro alla classicità, percepito come presenza di energia e memoria, è possibile per l’uomo vedere le cose e i luoghi illuminati su quel lato invisibile che il grigiore del pragmatismo moderno ha annullato. Sotto questa luce, i monoliti del pianoro Le Case non sono più i piedritti di un banale muro, ma mostrano qualcosa che va oltre l’inanimato, mostrando la loro valenza legata al sacro, alla storia, all’uomo.

Tuttavia nell’indagine archeologica, etnologica e storica non è possibile escludere l’uso di strumenti moderni quali quelli suggeriti dalle scienze tecnologiche avanzate. La loro applicazione conferisce affidabilità alle ipotesi creando immaginazione e credibilità.  L’ approccio aerofotogrammetrico con drone, descritto nel testo, finalizzato al rilievo topografico del sito ha consentito una verifica accurata della configurazione monoliti/punto di mira, mirata alla congruenza degli angoli di ripresa dei punti ortivi del sole con quelli rilevati in altri siti della Sicilia occidentale, caratterizzati dalla presenza di indicatori solari. Il determinismo di questa configurazione, non lasciando spazio a una disposizione casuale degli elementi monumentali, ha indirizzato a un calendario solare.

Non si è di fronte, quindi, a semplici menhir disposti dall’uomo preistorico, ma a una struttura litica ordinatamente disposta dal più moderno uomo bizantino per soddisfare le sue esigenze religiose, sociali, agricole con una visione del tempo più ampia rispetto al passato. È lecito supporre che la struttura calendariale, tuttora visibile, sia sovrapposta a una realtà litica, magari più semplice e non visibile, realizzata da precedenti abitatori, la cui presenza può correlarsi al rinvenimento di alcuni frammenti di ossidiana preistorici e alla esistenza sul luogo di blocchi megalitici inseriti nella struttura di un edificio cementizio di più recente realizzazione. L’uso della spettroscopia Raman, su un altro lato, ci mostra la grande capacità selettiva della tecnica sui materiali di interesse archeologico garantendo semplicità operativa e affidabilità di risposta.

Le considerazioni di tipo animistico, sostenute dal Genius loci, rilevano l’importanza del ruolo ricoperto dalla presenza nel pianoro delle sorgenti che porterebbero alla ipotesi di un “culto delle acque” praticato nell’isola, già in periodo punico attraverso la presenza di Iside, e forse anche in un tempo preistorico e in tempi più recenti testimoniato dalla stessa chiesetta eretta dai monaci basiliani, la cui propensione a rifondare un luogo di preghiera nei pressi di una fonte è attestata da altri esempi riscontrabili nel marsalese (Basilica di S. Giovanni Battista – Grotta della Sibilla) e a Lampedusa (Santuario della Madonna di Porto Salvo). La presenza dell’acqua conferirebbe un’aurea di sacralità al sito e all’isola, giustificandone probabilmente l’antico nome Jera.

Su una mappa aerea risultano allineati sulla stessa retta, angolata d 119,5° rispetto al Nord geografico, il punto ortivo del sole al solstizio d’inverno, il baricentro dell’area coperta dalla Grotta della Sibilla e il punto centrale di una finestrella ricavata sul muro di mezzogiorno del fortilizio, assunto come traguardo. Nel “culto delle acque”, quindi, potrebbe identificarsi il comune denominatore tra il pianoro Le Case di Marettimo e la Grotta della Sibilla.

Si aggiunga che il Genius loci, espressione dell’identità del luogo, è stato utilizzato come strumento di studio, attivato sul doppio binario della costruzione storica e dell’osservazione etnoantropologica. L’aver visto il luogo come paesaggio ha contribuito, inoltre, a esaltarne la sacralità; a tal riguardo Mircea Eliade scrive che «…il più primitivo dei luoghi sacri era un microcosmo, un paesaggio fatto di pietra, piante, acqua, mare [assimilabile ad] …ambienti oracolari, profetici [che] non venivano mai scelti, ma scoperti dall’uomo». Quel pianoro marettimaro, bagnato dall’acqua e dalla nebbia invernale, profumato dal timo e dall’alencio, si direbbe proprio “numinoso” colmo della presenza di un nume, generatore di un respiro sacrale.

È opportuno, a questo punto, rilevare che la moderna e affascinante scienza dell’archeoastronomia non può limitarsi alla sola osservazione di pierced stones e di alignements tracciati su territori accattivanti. Deve anche chiedersi cosa questi monumenti rappresentino e perché siano stati concepiti.

Accettando, infine, la sinonimia tra luogo e paesaggio sinteticamente si può concludere con Eugenio Turri che «nell’osservare un paesaggio occorre farsi storici e indagare in senso psico-sociologico attraverso la [disciplina della] semiologia del paesaggio stesso, … unica, capace di coglierne in profondità il senso, unica capace di controbattere le tendenze attuali verso un tipo di cultura che vede nei luoghi solo spazi fisici, geografici, senza alcuna valenza storica e culturale». 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024

APPPENDICE

Analisi delle malte mediante Spettroscopia Raman 

Le malte sono sistemi complessi, costituiti da un “legante” (o una miscela di leganti), da uno o più “inerti “(essi stessi una miscela di diversi componenti inorganici non sempre tutti cristallini), e talvolta, in piccole dosi, da una sorta di additivo di natura quasi sempre organica.

Nel caso delle malte osservate in tre diverse aree dei ruderi del pianoro Le Case (muro basilica protobizantina, muro chiesetta normanna, monolite), una prima osservazione petrografica delle riprese fotografiche metteva in evidenza un impasto fatto prevalentemente di legante calcico, di un inerte litico di litorale (ghiaietta) dimensionalmente ricadente nel range di 50 ¸ 600 micron (trascurando la presenza di pochissimi elementi dimensionalmente fuori campo) e di terra finissima.

Un’analisi strumentale basata sul principio della spettroscopia Raman, condotta in situ in maniera non invasiva e senza asportazione di materiale con un’apparecchiatura portatile, conduceva, invece, con grande margine di affidabilità, alla identificazione della composizione molecolare chimico-fisica dei tre impasti.

Questa tecnica, scoperta quasi un secolo addietro, ha trovato seguito negli ultimi due decenni grazie alla scoperta dei laser e dei dispositivi lineari fotosensibili, conosciuti come array di fotodiodi o dispositivi CCD. La sua utilizzazione in diversi ambiti è stata immediata, dalla Scienza dei materiali al campo dei Beni culturali. Grazie alla elevata selettività chimica e alla grande risoluzione spaziale ha reso possibile l’analisi di un’estesa varietà di materiali organici ed inorganici. È stato immediato l’indirizzamento all’Archeologia, alla Paleontologia, agli studi ambientali. Nel settore delle opere d’arte, poi, ha permesso la caratterizzazione di pigmenti, inchiostri, colori, pietre, gemme, vetri, ceramiche, fossili, resine ed altro ancora. Integrandola alla microscopia ottica, con l’uso di un raggio laser focalizzato, ne ha accresciuto sensibilità e risoluzione.

Sul principio del funzionamento si rimanda alla letteratura specifica che con preciso riferimento alla trattazione quantistica ne descrive esaustivamente l’aspetto scientifico. Nell’intento di agevolare la comprensione di quanto sarà espresso nel seguito, sarà sufficiente ricordare che il principio Raman si basa fondamentalmente sulla diffusione (scattering) di un raggio luminoso monocromatico da una superficie: tale diffusione presenta due componenti, una “elastica” detta di Rayleigh, avente la stessa lunghezza d’onda l di quella incidente; l’altra “anelastica”, detta di Raman caratterizzata da una lunghezza d’onda minore di quella incidente [22]. Tenendo conto che per la meccanica quantistica parlare di lunghezza d’onda equivale a parlare di energia, si dirà che, nel caso Raman, la differenza di energia osservata tra la radiazione diffusa e quella incidente viene assorbita dalla molecola e dipende dalla struttura della molecola stessa. Si suole dire che la spettroscopia molecolare Raman è una tecnica “vibrazionale” in quanto la comprensione della struttura energetica della molecola in esame viene basata sul modello semplice che schematizza le molecole come oscillatori armonici. La molecola, quindi, vibra e può vibrare in un solo modo o in più modi (simultanei) a seconda della natura e della configurazione dei legami elettronici che intercorrono tra gli atomi della molecola. Per esempio, una molecola biatomica simmetrica co quella dell’azoto, N2, ha un solo modo di vibrare, mentre molecole più complesse hanno più modi di vibrare (detti “modi normali vibrazionali”). Ad ogni modo vibrazionale corrisponde nello spettro Raman una componente di scattering di lunghezza d’onda diversa, legata a un particolare livello energetico. La figura d’insieme delle bande associate ai modi di vibrare viene considerata come l’  “impronta digitale” (fingerprint) della molecola, consentendo la completa identificazione della stessa. Va detto che tutti i modi vibrazionali di una molecola non sempre sono rilevabili in uno spettro Raman. Infatti, si parla di modi Raman attivi o inattivi. Si tralascerà in questo contesto di descriverne le motivazioni.

Per rivelare le componenti Raman è necessario l’uso di un sistema ottico chiamato “spettrometro”, fatto di lenti, filtri ed elementi ottici particolari, il quale fornisce in uscita una lettura della distribuzione luminosa diffusa, rappresentata graficamente come un diagramma (“spettro”), nella cui  ascissa si riportano le differenze di energia (shift Raman) corrispondenti alle componenti diffuse in termini di cm-1 (wave number); e nella cui ordinata si evidenziano, in unità arbitrarie, le intensità dei picchi di radiazione diffusa. In uno spettro Raman l’intervallo delle energie rappresentate sull’asse delle ascisse si estende tra 200 e 4000 cm-1, campo in cui cade la quasi totalità delle vibrazioni molecolari fondamentali. È opportuno precisare che lo shift Raman dipende solo dalla struttura vibrazionale della molecola analizzata e non dipende dalla lunghezza d’onda l della radiazione incidente. Da quest’ultima, invece, dipende l’intensità del segnale diffuso Raman. Pertanto, al variare della l, si ottiene uno spettro con picchi che sono sempre nella stessa posizione, ma che hanno diversa intensità. 

Apparato optoelettronico di lettura degli spettri Raman usato nelle malte   La sorgente luminosa è costituita da un laser diodo a 532 nm (laser verde) di potenza pari a 100 mW con uno spot luminoso di diametro ~ 2 mm. Il fascio luminoso viene convogliato, dopo una deviazione di 90° da parte di un cubo divisore ( beam-splitter) sulla superficie del materiale da esaminare. Parte della luce diffusa viene raccolta in back scattering da una lente che la indirizza su una fessura (slit) di 100 mm di larghezza. La radiazione Rayleigh è bloccata da un filtro passabanda (notch filter) interposto tra la lente e la slit. La radiazione Raman diffusa anelasticamente, passante attraverso la fessura, dopo un primo rinvio ottico viene dispersa da un reticolo di diffrazione olografico con 1600 linee/mm e indirizzata per la lettura, dopo un secondo rinvio ottico, su un sensore CCD lineare Toshiba TCD 1304 avente 3648 elementi fotosensibili, il cui singolo pixel misura 8(W) x 200 (H) mm. Data la bassa intensità del segnale Raman (a un milione di fotoni Rayleigh corrisponde un fotone Raman), gli spettri sono raccolti con tempo di integrazione di 10 secondi. La risoluzione spettrale è di 5 cm-1 (cioè 20 nm) e risulta determinata da tre importanti fattori: la slit, il reticolo diffrattivo e il sensore CCD. La slit determina la minima larghezza dell’immagine sul piano del sensore; il reticolo, l’estensione del range delle lunghezze d’onda osservabili; l’array CCD, il numero massimo e la massima dimensione dei punti in cui lo spettro può essere digitalizzato. È a corredo una sonda con fasci separati di fibre ottiche, capace di indirizzare il fascio laser in aree difficilmente osservabili e di raccoglierne la luce diffusa. È in corso la miniaturizzazione del sistema per rendere palmare il sistema.

Apparato optoelettronico di lettura degli spettri Raman usato nelle malte. La sorgente luminosa è costituita da un laser diodo a 532 nm (laser verde) di potenza pari a 100 mW con uno spot luminoso di diametro ~ 2 mm. Il fascio luminoso viene convogliato, dopo una deviazione di 90° da parte di un cubo divisore ( beam-splitter) sulla superficie del materiale da esaminare. Parte della luce diffusa viene raccolta in back scattering da una lente che la indirizza su una fessura (slit) di 100 mm di larghezza. La radiazione Rayleigh è bloccata da un filtro passabanda (notch filter) interposto tra la lente e la slit. La radiazione Raman diffusa anelasticamente, passante attraverso la fessura, dopo un primo rinvio ottico viene dispersa da un reticolo di diffrazione olografico con 1600 linee/mm e indirizzata per la lettura, dopo un secondo rinvio ottico, su un sensore CCD lineare Toshiba TCD 1304 avente 3648 elementi fotosensibili, il cui singolo pixel misura 8(W) x 200 (H) mm. Data la bassa intensità del segnale Raman (a un milione di fotoni Rayleigh corrisponde un fotone Raman), gli spettri sono raccolti con tempo di integrazione di 10 secondi. La risoluzione spettrale è di 5 cm-1 (cioè 20 nm) e risulta determinata da tre importanti fattori: la slit, il reticolo diffrattivo e il sensore CCD. La slit determina la minima larghezza dell’immagine sul piano del sensore; il reticolo, l’estensione del range delle lunghezze d’onda osservabili; l’array CCD, il numero massimo e la massima dimensione dei punti in cui lo spettro può essere digitalizzato. È a corredo una sonda con fasci separati di fibre ottiche, capace di indirizzare il fascio laser in aree difficilmente osservabili e di raccoglierne la luce diffusa. È in corso la miniaturizzazione del sistema per rendere palmare il sistema.

Apparato 

L’apparato utilizzato nell’analisi delle malte è stato progettato e interamente costruito da chi scrive, sulla base dello schema ottico incrociato di Czerny-Turner, e si avvale di un software di lettura e di elaborazione, anch’esso dell’autore, dedicato alla rappresentazione grafica degli spettri e alla ottimizzazione degli stessi, sia con opportune scelte elettroottiche sia con adeguati algoritmi di data processing finalizzati alla riduzione del rumore di fondo, generato prevalentemente da diffusioni spurie e da eventuali piattaforme (baselines) legate sia alla  “fluorescenza” emessa da alcuni materiali, sia alla lunghezza d’onda del laser. Sulla fluorescenza si rimanda a quanto riportato in letteratura.

L’apparato prototipale, del peso di circa tre chilogrammi, ha consentito la ripresa in situ degli spettri senza contatto, senza intrusione e senza alterazione della superficie osservata.  

Spettro Raman relativo alla malta del muro della basilica protobizantina Gli elementi minerali evidenziati sono quelli elencati nella tabella inclusa nel grafico, facendo uso di un ampio database (Raman library) messo a disposizione nel web dal Rruff project diretto in Arizona USA) dal dr. Robert T. Downs e la sua equipe (http://rruff.geo.arizona.edu/). Il database curato dagli esperti si avvale di un completo set di dati spettrali ricavati da una varia campionatura di minerali ben caratterizzati e si propone di condividere dati e tecnologia proprietaria con geologi, mineralogisti, gemmologi, archeologi, storici, ingegneri e ricercatori.  Dall’analisi emergono alcune considerazioni: •La presenza della calcite P7 (Carbonato di calcio), magnesite P8 (Carbonato di magnesio), Periclasio P12 e P14 (Ossido di magnesio) indirizza a una calce (legante) di tipo magnesiaca-dolomitica. Data l’estesa caratterizzazione dolomitica della roccia marettimara, si presume che la calce (CaO) sia stata prodotta in loco disponendo di pietrame locale, tenendo anche conto che a circa 60 metri dal rudere della basilica protobizantina esiste un toponimo, Calcaruni, presumibilmente indicativo di una grande “calcara”, usata per produrre calce; •l’ampia zona spettrale S, centrata intorno al valore 1008 cm-1, denota la presenza di solfati (sicuramente Gesso, Bassanite, Anidrite) proveniente da roccia dolomitica e da pozzolana e probabilmente non ben dettagliata a causa del rumore dovuto a impurezze di minerali vari; •l’Ematite, con i picchi P1, P2, P10 e la magnetite P4, testimonia la presenza di pozzolana; •	i minerali argillosi, a base di silicati (Montmorillonite P5, Caolinite P6, Clorite P9), possono essere stati estratti dai terreni circostanti al pianoro, di natura prevalentemente argillosa; •	stranamante per questa malta, ma limitatamente all’areola osservata, si nota nello spettro Raman la presenza dei picchi P11 e P13, caratteristici della banda D e della banda G della grafite nello spettro Raman (carbon black); possono essere assimilati a segni di un residuo carbonioso di legno combusto utilizzato nel funzionamento nella vicina calcara. Nota - Lungo la costa e sulla montagna dell’Isola di Marettimo toponimi coma Calcaruni, Calcaredda, Calcara du Scaluneddu, Calcara du Scaru Maistru rimandano semanticamente all’esistenza di quelle calcare che in un passato lontano producevano calce presso i territori dei Cartaginesi. Questi ultimi, a guisa dei Fenici, la utilizzavano molto nella messa in opera delle strutture murarie, nella lotta contro le epidemie, nell’agricoltura, nel trattamento protettivo delle anfore. I Punici la chiamavano Gypsos. Diodoro Siculo e Strabone ne danno testimonianza segnalando cave di pietra di epoca punica sulla costa occidentale di Capo Bon, con annessi i forni in cui la pietra calcarea o dolomitica veniva cotta secondo il procedimento tramandato da Teofrasto.

Spettro Raman relativo alla malta del muro della basilica protobizantina. Gli elementi minerali evidenziati sono quelli elencati nella tabella inclusa nel grafico, facendo uso di un ampio database (Raman library) messo a disposizione nel web dal Rruff project diretto in Arizona USA) dal dr. Robert T. Downs e la sua equipe (http://rruff.geo.arizona.edu/). Il database curato dagli esperti si avvale di un completo set di dati spettrali ricavati da una varia campionatura di minerali ben caratterizzati e si propone di condividere dati e tecnologia proprietaria con geologi, mineralogisti, gemmologi, archeologi, storici, ingegneri e ricercatori. Dall’analisi emergono alcune considerazioni:
• La presenza della calcite P7 (Carbonato di calcio), magnesite P8 (Carbonato di magnesio), Periclasio P12 e P14 (Ossido di magnesio) indirizza a una calce (legante) di tipo magnesiaca-dolomitica. Data l’estesa caratterizzazione dolomitica della roccia marettimara, si presume che la calce (CaO) sia stata prodotta in loco disponendo di pietrame locale, tenendo anche conto che a circa 60 metri dal rudere della basilica protobizantina esiste un toponimo, Calcaruni, presumibilmente indicativo di una grande “calcara”, usata per produrre calce;
• l’ampia zona spettrale S, centrata intorno al valore 1008 cm-1, denota la presenza di solfati (sicuramente Gesso, Bassanite, Anidrite) proveniente da roccia dolomitica e da pozzolana e probabilmente non ben dettagliata a causa del rumore dovuto a impurezze di minerali vari;
• l’Ematite, con i picchi P1, P2, P10 e la magnetite P4, testimonia la presenza di pozzolana;
• i minerali argillosi, a base di silicati (Montmorillonite P5, Caolinite P6, Clorite P9), possono essere stati estratti dai terreni circostanti al pianoro, di natura prevalentemente argillosa;
• stranamente per questa malta, ma limitatamente all’areola osservata, si nota nello spettro Raman la presenza dei picchi P11 e P13, caratteristici della banda D e della banda G della grafite nello spettro Raman (carbon black); possono essere assimilati a segni di un residuo carbonioso di legno combusto utilizzato nel funzionamento nella vicina calcara.
Nota – Lungo la costa e sulla montagna dell’Isola di Marettimo toponimi coma Calcaruni, Calcaredda, Calcara du Scaluneddu, Calcara du Scaru Maistru rimandano semanticamente all’esistenza di quelle calcare che in un passato lontano producevano calce presso i territori dei Cartaginesi. Questi ultimi, a guisa dei Fenici, la utilizzavano molto nella messa in opera delle strutture murarie, nella lotta contro le epidemie, nell’agricoltura, nel trattamento protettivo delle anfore. I Punici la chiamavano Gypsos. Diodoro Siculo e Strabone ne danno testimonianza segnalando cave di pietra di epoca punica sulla costa occidentale di Capo Bon, con annessi i forni in cui la pietra calcarea o dolomitica veniva cotta secondo il procedimento tramandato da Teofrasto 

Spettro Raman relativo alla malta del muro del fortilizio lato est A meno dei picchi P11 e P13, caratteristici del carbon black, presumibilmente legati alla presenza di tracce di carbone da legna, si ritrovano gli stessi picchi dello”spettro 1”, con intensità e larghezza di banda diverse,  credibilmente per la presenza di tracce di materiali spuri nell’areola interessata dal raggio laser. Dagli spettri, nei limiti del possibile, è stata dedotta la baseline presente nel segnale in uscita dal CCD relativa alla fluorescenza che talvolta si manifesta. I picchi riscontrati presentano a volte dei piccoli spostamenti nello shift Raman sempre legati alla presenza di materiali non ben distinti e considerabili spuri.

Spettro Raman relativo alla malta del muro del fortilizio lato est. A meno dei picchi P11 e P13, caratteristici del carbon black, presumibilmente legati alla presenza di tracce di carbone da legna, si ritrovano gli stessi picchi dello”spettro 1”, con intensità e larghezza di banda diverse, credibilmente per la presenza di tracce di materiali spuri nell’areola interessata dal raggio laser. Dagli spettri, nei limiti del possibile, è stata dedotta la baseline presente nel segnale in uscita dal CCD relativa alla fluorescenza che talvolta si manifesta. I picchi riscontrati presentano a volte dei piccoli spostamenti nello shift Raman sempre legati alla presenza di materiali non ben distinti e considerabili spuri  

Spettro Raman relativo alla malta del monolite centrale Anche in questo spettro si ripresentano gli stessi picchi evidenziati nello spettro della basilica, a meno di quelli corrispondenti al carbon black. I picchi risultano debolmente diversi nell’intensità, nella larghezza di banda e nella posizione sull’asse delle ascisse per le stesse motivazioni addotte nell’analisi dello spettro 2. In particolare, le piccole variazioni riscontrate nei valori degli shift Raman identificatori dei picchi non possono condurre all’identificazione di minerali diversi, come si è potuto riscontrare disponendo del database del Rruff project. I tre spettri sono molto simili già osservando, come presentato nella figura seguente, la loro sovrapposizione nella stessa area spettrale utilizzata per i singoli spettri.

Spettro Raman relativo alla malta del monolite centrale
Anche in questo spettro si ripresentano gli stessi picchi evidenziati nello spettro della basilica, a meno di quelli corrispondenti al carbon black. I picchi risultano debolmente diversi nell’intensità, nella larghezza di banda e nella posizione sull’asse delle ascisse per le stesse motivazioni addotte nell’analisi dello spettro 2. In particolare, le piccole variazioni riscontrate nei valori degli shift Raman identificatori dei picchi non possono condurre all’identificazione di minerali diversi, come si è potuto riscontrare disponendo del database del Rruff project.
I tre spettri sono molto simili già osservando, come presentato nella figura seguente, la loro sovrapposizione nella stessa area spettrale utilizzata per i singoli spettri 

Sovrapposizione degli spettri e test di similarità Aldilà di ogni osservazione visiva, sempre personale in verità, si è voluto ricorrere alla determinazione di un indicatore matematico della similarità mediante l’analisi della “funzione di cross-correlazione” di uno spettro rispetto agli altri due.  Il “correlation coefficient value  R”, da quest’ultima dedotto e valutato pari a 0,85, assume un’importante attendibilità statistica. Sembra ragionevole, pertanto, dal punto di vista scientifico, sostenere l’ipotesi che la basilica proto-bizantina, i piedritti, il muro lato est del fortilizio, già da altri considerato romano in “opus reticulatum”, siano stati realizzati nello stesso periodo, ricadente presumibilmente tra V e VI secolo.

Sovrapposizione degli spettri e test di similarità
Aldilà di ogni osservazione visiva, sempre personale in verità, si è voluto ricorrere alla determinazione di un indicatore matematico della similarità mediante l’analisi della “funzione di cross-correlazione” di uno spettro rispetto agli altri due. Il “correlation coefficient value R”, da quest’ultima dedotto e valutato pari a 0,85, assume un’importante attendibilità statistica. Sembra ragionevole, pertanto, dal punto di vista scientifico, sostenere l’ipotesi che la basilica proto-bizantina, i piedritti, il muro lato est del fortilizio, già da altri considerato romano in “opus reticulatum”, siano stati realizzati nello stesso periodo, ricadente presumibilmente tra V e VI secolo.

Note

[1] Un esame non invasivo senza contatto, mediante spettroscopia Raman con attrezzatura portatile, eseguito in loco dall’autore sulla malta presente nei piedritti e nei muri perimetrali ha prodotto spettrogrammi simili, relativi ai componenti di base.
[2] Già Vincenzo Scuderi, ex soprintendente ai beni artistici e culturali di Trapani negli anni sessanta del secolo scorso, dopo un sopralluogo effettuato sul sito nel 1967, aveva tracciato le linee essenziali di una possibile configurazione architettonica attribuibile al complesso monumentale di Le Case, linee pedissequamente seguite dopo circa trent’anni, da ricercatori dell’Università di Palermo (vedi: V. Scuderi, Sicilia archeologica, Trapani, dicembre 1968, n.4).
[3] La struttura megalitica era stata già notata dall’archeologa Anna Maria Bisi dell’Università di Palermo, molto vicina culturalmente al grande Sabatino Moscati, durante una ricognizione nell’isola di Marettimo effettuata nel 1968 (vedi: A.M. Bisi, Ricognizione archeologica a Favignana e Marettimo, in: Not. Scavi, 1969: 316-340. Atti della Accademia Nazionale dei Lincei). La stessa Bisi (in: Fasti Archaeologici – Annual bullettin of classical archaeology. Firenze, Ed. Le Lettere, 1971, Nota 2842: 198) dichiarava che a Marettimo “…in località Le Case si sono rinvenuti i resti di…un edificio a pianta quadrangolare in opus reticulatum, forse residenza del corpo di guardia romano…
[4] E. Milana,  Hiera fu cartaginese?  Trapani, Margana Edizioni, 2020.
[5] P. Orsi, Pantelleria. Monumenti antichi della R. Accademia dei Lincei, IX 1899: 271 sg.
[6] R. Pettazzoni. L’essere supremo nelle religioni primitive. Milano, Giulio Einaudi editore, 1957.
[7] Si ringrazia il giovane Antonino Venza, socio del Gruppo Archeologico Marètamo, per aver dato la sua disponibilità (software, hardware ed esperienza) nelle riprese aerofotogrammetriche con drone.
[8] È noto, infatti, che alla latitudine della Sicilia, da Capo San Vito a capo Passero, il punto ortivo solare al 21 giugno forma un angolo con il Nord (azimut) di 60° e, similmente, il 21 dicembre un azimut di 120°. 
[9] L’accostamento Iside-Maria trova riscontro anche nella vicina Favignana, dove una comunità cristiana di età tardo-antica è attestata dal rinvenimento, in località San Nicola, di una necropoli e di un’antica chiesa in grotta dedicata a Maria Santissima.
[10] Nel contesto marettimaro, il ruolo di crocevia e di ponte tra Nord-Africa e Sicilia assunto dall’isola nelle rotte mediterranee rende credibile la presenza stanziale, sul lato di levante, di un nucleo di persone adibite alle manovre di aiuto all’ormeggio richieste dai transiti, tenuto conto delle difficili condizioni di atterraggio.  Provengono in parte dalla Byzacena e in parte da Lilibeo.  Il loro insediamento potrebbe pensarsi organizzato sia sul piano dello Scalo di mezzo per la presenza di un pozzo di acqua dolce, attestato in un portolano del Cinquecento, sia sul pianoro del sito Calvario_Pezza ‘i fave attiguo alla sorgente Pilusa, dove una grande quantità di blocchetti di pietra sparsi farebbe pensare a un villaggio di pagghiara di probabile origine cartaginese (vedi: E. Milana,   Iera fu Cartaginese?  Margana Trapani, 2020).
[11] Movimenti già attestati da inizio III secolo. Epifanio di Salamina (315-403), nel suo Panarion, dissertando sui vari movimenti, descrive le “colliridiane “come donne d’Arabia che, nell’adorare la figura di Maria con particolari riti, usavano offrire in devozione, durante le processioni, dei piccoli pani a forma di ciambella (Kollura in greco, colliridia in latino). Tuttora a Marettimo, in occasione di alcune festività religiose si offrono i cuddura, la cui espressione letterale è chiaramente una traslitterazione del greco kollura in lingua locale.
[12] Non esiste certezza documentaria. I primi monaci giunsero in Sicilia presumibilmente tra il IV e V secolo e i loro monasteri generalmente non avevano grandi dimensioni, all’infuori di alcuni, come quello di San Filippo in Demenna nei Nebrodi. Costruito da San Calogero di Calcedonia nel 495, il monastero fu distrutto e riedificato nel periodo normanno (1090). Nella navata della chiesa sono visibili ancora le tracce delle antiche origini monumentali. La struttura a tre navate della basilica marettimara del V secolo troverebbe in questo esempio un riscontro. Dal Mediterraneo Orientale i monaci pervenivano in Sicilia e nell’Italia meridionale percorrendo la rotta via mare o quella via terra passante per la costa nor-africana. Quest’ultima, nel tratto di traghettamento dall’Africa alla Sicilia, prevedeva una sosta nell’Isola Sacra tutte le volte che le condizioni meteo lo imponevano.
[13] La regola basiliana predilige il cenobio all’eremitaggio.
[14] E. Pezzini e altri, Il complesso monumentale “Case Romane” di Marettimo: trent’anni di ricerche,  Atti del convegno internazionale di studi dedicato a Fabiola Ardizzone Lo Bue. Palermo, UNIPA Dpt. Culture e società, 11,12,13 ottobre 2018.
[15] Solino, Collectanae rerum memorabilium. II e IV secolo,
[16] Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1976; 183.
[17] Raffaele Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2022: 101.
[18] I riti “ordalici” consistevano nella cerimonia dell’uso dell’acqua magica che provava la colpevolezza del reo: la prova coincideva con la pena; il colpevole era punito con la cecità.
[19] La “incubazione” era una pratica magico-religiosa che consisteva nel dormire in un’area sacra allo scopo di sperimentare in sogno rivelazioni sul futuro. 
[21] Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1976: 181. 
[22] Questa componente viene chiamata “stokes”, ma esiste un’altra componente “antistokes”, di cui non diremo per semplicità, perché lo schema di spettroscopia Raman adottato in questa analisi si avvale solo della lettura della componente stokes.

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Emilio Milana, egadiano, ingegnere optoelettronico, vive tra Bologna e Marettimo. Ha scritto opere sulla storia della cucina, dell’alimentazione e dell’archeologia dell’arcipelago. Tra le sue pubblicazioni: La scia dei tetraedri. Nel mare gastronomico delle Egadi, premiato al Premio Bancarella (Pontremoli 2009), Hiera fu cartaginese?, un’accurata analisi sui siti archeologici rinvenuti dall’autore a Marettimo, comprovante la frequentazione fenicio-punica dell’Isola come una  “stazione di servizio” nel mare Mediterraneo. La sua ultima pubblicazione è Una chiesa ritrovata, prefazione del vescovo di Trapani Fragnelli, una storia della comunità marettimara insediatasi nell’isola a inizio Ottocento attraverso la tormentata storia della chiesa isolana. Ha creato a Marettimo il Gruppo Archeologico MARETAMO affiliato ai Gruppi Archeologici d’Italia. La sede si avvale di un laboratorio archeometrico.

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