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Gerald Bronner e Augusto Cavadi: pensare e (non) credere? Per uno spirito critico

12854268439_2di Francesco Azzarello 

Una lettera di Diderot a Voltaire 

1749. Un giovane scrittore in cerca di notorietà, Denis Diderot, appena pubblicata la Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient – opera in cui presenta una visione del mondo materialista ed empirista – ne invia una copia al più maturo e già affermato Voltaire [1]. Il testo piace all’autore di Candide o così afferma lui stesso nella lettera d’inizio giugno di quell’anno in cui ringrazia Diderot, tanto da mandare insieme alle formule di rito un libro in controdono (il suo Les éléments de la philosophie de Newton) accompagnato da un invito a un repas philosophique […] avec quelques sages. Nella missiva Voltaire esprime insieme al suo apprezzamento per lo spirito del testo anche un chiaro dissenso rispetto alla posizione atea manifestata da Diderot nella Lettre, sostenendo piuttosto tesi deiste.

Diderot, nella lettera datata 11 giugno cui si riferisce il titolo del paragrafo, ringrazia a propria volta Voltaire, ne incassa le critiche ma non rinuncia a replicare, osservando in modo discreto ma inequivocabile che anche ammettendo l’esistenza di qualcosa di non materiale che governa sia i rapporti fra le cose che il nostro poterli pensare, nella vita reale non scambiare la cicuta per il prezzemolo resta certamente più importante che credere o non credere in Dio. 

71dnbj4bokl-_ac_uf10001000_ql80_Quel che si crede importa? 

Sarei portato a credere che al di fuori di contesti religiosi – sempre più rari nella nostra società secolarizzata – molti di noi (anche i e le credenti meno critic* di un deista moderato come Voltaire) darebbero ragione a Diderot: persino un vescovo (mi sentirei di assumere) a casa sua se deve cambiare un rubinetto preferisce l’idraulico a Padre Pio. Come dargli torto? Le conseguenze di un cattivo ragionamento in ambito materiale, notoriamente, non tardano a manifestarsi. Nondimeno escluderei che nella vita pratica (tutta, non soltanto quella tecnica) credere o non credere a qualcosa – in generale, non necessariamente in ambito religioso – sia del tutto indifferente. Le opinioni contano. Diderot p.e., nemmeno due mesi dopo aver pubblicato la Lettre e aver scritto a Voltaire, verrà spedito in carcere (anche) per aver ridicolizzato la religione, ovvero ciò in cui il resto dei francesi e delle francesi affermava di credere.

Altri tempi dirà qualcuno. Ma siamo sicur* di viverne veramente di diversi? La cronaca politica degli ultimi anni, contrassegnata dal ritorno di posizioni a dir poco retrograde e dominata dalla convinzione generale che siccome il mondo è complicato allora bisogna cominciare a fare a meno della democrazia e di un progetto già avanzato di convivenza pacifica transnazionale, suggerisce (almeno a me) che neppure la rivoluzione francese è riuscita a togliere di mezzo (per citare la lettera di Voltaire) «les barbares stupides qui condamnent ce qu’ils n’entendent point, et les méchants qui se joignent aux imbéciles pour proscrire ce qui les éclaire».

Di questa folta cerchia ognuno di noi ha certamente fatto esperienza in qualche fase della vita ma sarebbe sbagliato, come si è spesso tentat* di fare, ritenere chi via via ne fa parte (giacché può accadere a chiunque in qualche momento della vita di dare il peggio di sé senza averne coscienza) preda di un delirio disumano. ll guaio vero sta proprio nel fatto che delirare è umano, almeno quanto lo sono ragionare e credere [2]. Come afferma il sociologo Gérald Bronner in La pensée extrême. Comment des hommes ordinaires deviennent des fanatiques (saggio comparso nel 2009 ma riproposto in versione aumentata e aggiornata nel 2016, qui tr. mia [3]) «l’estremismo isola l’individuo dal resto dell’umanità, non dalla sua umanità», ragion per cui piuttosto che limitarsi a esecrarlo va studiato nella sua peculiare razionalità. Altrimenti come fare a liberarsene?

L‘autore della prima lettera di Pietro (3, 15-17) invitava gli uomini e le donne a cui si rivolgeva a essere sempre pronti a dare ragioni della propria speranza a chi gliele chiedesse. E si vede che conosceva bene il genere umano, che quand’anche decide di credere a qualcosa non per questo smette di usare la testa. L’estremista, come il resto degli esseri umani, ha anche lui (o lei) bisogno di ragioni per credere nelle posizioni che assume. Non tanto per non delirare quanto per credere di aver ragione nel farlo. Ciò che caratterizza come sociopatici i contenuti aberranti che sostiene è, continua il sociologo, non la mancanza di ragioni (che sono lì e che lui o lei, delirando, assume per buone) quanto la capacità di questi contenuti di trasmettersi da una coscienza a un’altra comportando una supposta impossibilità per certe persone di vivere insieme a certe altre. Per delirare in modo estremista bisogna essere insomma almeno in tre: qualcuno (uomo o donna) cerca di convincere qualcun altro (uomo o donna) a escludere una terza persona o collettività (non importa se reale o fittizia) dallo spazio sociale o addirittura dalla dimensione della vita. 

È chiaro che essendo animali razionali per convincerci ad invicem abbiamo bisogno di una certa logica. Ma non dovrebbe essere proprio la logica a evitarci di delirare? Qui entra in gioco l’umano. Come scrisse Umberto Eco in una memorabile Bustina sulle Brigate rosse (“Un non-compagno che sbaglia” pubblicata su l’Espresso del 2 maggio 2008) agli esseri umani capita spessissimo di trarre conclusioni sbagliate da premesse accettabili. Accade continuamente [4]. Le BR p.e., afferma Eco, partivano dall’idea (già nota) che gran parte della politica mondiale (guerra inclusa) non fosse più determinata dai singoli governi bensì da una rete di poteri economici transnazionali, infinitamente più potenti di governi e parlamenti di moltissimi Stati. Da questa premessa accettabile concludevano però che per contrastare il capitalismo globale fosse (p.e.) necessario uccidere Aldo Moro e ferire e terrorizzare gli italiani e le italiane. Conclusione aberrante in cui credevano, immagino, singolarmente forse anche a giorni alterni, ma come organizzazione in modo talmente fermo da tradurre questi ragionamenti in violenza vera. Una violenza, evidentemente, talmente capace di giustificazione ideologica (tanto che molti si lasciarono convincere) da sconfiggere dubbi o esitazioni. 

9782738138873_1_75Credere e pensare: non è un aut aut 

Se, per dirla con Boris Cyrulink (2023), il delirio si accompagna volentieri alla ragione (e anche alla fede [5]), anche in contesti sani fra credere e ragionare fuori dai manuali di logica, nella vita vera non c’è né divisione né realistica opposizione [6]. La nostra memoria è stracolma di nozioni indimostrate (e indimostrabili) scientificamente che ci sono molto familiari e molto utili. Siamo esseri di grandissima memoria e se ogni volta che volessimo (che so) accendere la luce avessimo bisogno di riscoprire l’elettricità, la nostra quotidianità ipertecnica andrebbe immediatamente in stallo. Così accendiamo la luce, usiamo computer e telefoni fondamentalmente in una dimensione di fede, non a ragion veduta (da noi in prima persona). Ma anche oltre alla fiducia che regaliamo a chi ci fornisce tutti questi servizi (nella gratitudine che dobbiamo a chi li ha inventati o ne ha scoperto le leggi su cui si basano) c’è nella vita di tutti gli esseri umani un livello di cose credute per fede tutt’altro che marginale: dalle convenzioni sociali al sentito dire, dai personaggi finzionali alle astrazioni concettuali, dalle superstizioni ai dogmi religiosi, tutto ciò che crediamo (oltre a ciò che sappiamo e a ciò che proviamo interiormente) e diamo da credere si riflette nelle nostre decisioni e forma parte della nostra vita.

Il progresso scientifico, al riguardo, non cambia veramente le carte in tavole [7]. Il diciannovesimo secolo p.e. aveva erroneamente creduto che il progresso della conoscenza avrebbe inesorabilmente ridimensionato l’universo delle credenze. Non avevano considerato bene la faccenda. In realtà l’aumento di informazione, anche scientifica, corrisponde a un aumento proporzionale delle credenze (lo vediamo oggi molto bene con quella sorta di cavallo imbizzarrito che è il web, dove teorie scientifiche e teorie del complotto compaiono sugli stessi schermi luminosi [8]). Più informazioni implicano più complessità ed è proprio per eludere la complessità del reale che, se mi si passi l’espressione, siamo diventati maestr* nella gestione del falso. Salvo tendere a dimenticarlo, a ignorarlo a forza di viverci dentro, fino al paradosso e al patologico.

9782845781689_1_75Come osserva Bronner (2013a), Lucien Levy-Bruhl (a proposito di delirio) arrivò persino a sostenere che fra l‘Occidente e i popoli allora (l’Ottocento) chiamati “primitivi” non ci fosse soltanto differenza a livello di evoluzione sociale ma addirittura di strutture mentali. La strabiliante rivoluzione tecnica decimononica (con le sue conseguenze economiche) aveva evidentemente fatto dimenticare anche agli spiriti migliori (Bronner menziona Auguste Comte, James George Frazer e Sigmund Freud ma la lista di coloro i e le quali presero lucciole per lanterne potrebbe essere molto più lunga) la famosa metafora della sfera nell’oscurità di Pascal, che da sola avrebbe potuto ristabilire la proporzione: se si immagina la conoscenza come una sfera luminosa in un universo oscuro – riassume Bronner – ci si rende conto che ogni scoperta fa aumentare tanto la superficie della sfera che il proprio corrispettivo negativo. In altri termini: più si sa, più si è coscienti di quel che non si sa. La scienza, conclude giustamente il sociologo, piuttosto che ridurre il numero di superstizioni «allarga il dominio del concepibile», uno spazio semilluminato in cui tutti i gatti sono bigi e le “superstizioni” proliferano, nella misura in cui ognuno di noi – salvo un rigoroso esercizio di sobrietà intellettuale che dovrebbe toccare tanto la memoria quanto quel che ancora non ne fa parte – è disposto a credere (o almeno a non potere o sapere escludere) tutto ciò che è a portata della propria immaginazione.

Proprio non sappiamo fare di meglio? Spiega Bronner che da un lato la scienza moderna è talmente complessa e specialistica che la maggior parte di noi, in molti campi, non andiamo al di là di un’ormai superatissimo abbiccì scolastico (salvo poi crederci espert* di qualunque cosa dopo aver visto un video su YouTube) e non siamo dunque in grado di applicare autonomamente gli strumenti teorici delle scienze che li elucidano; dall’altro siamo solit* (giustamente) giudicare la credibilità di un contenuto anche a partire da chi ce lo comunica. Il che, aggiungo, ha molto senso quando crediamo a quel che dice il medico (nel migliore dei casi), molto meno sulla rete, dove al culto degli e delle influencer si accompagna un disprezzo per chi ha studiato che non fa che peggiorare le cose. 

51he7hloipl-_ac_uf10001000_ql80_Bias cognitivi e prima conclusione 

In quanto fenomeno legato alla comunicazione, credere cose più o meno aberranti può accadere dunque a tutt* non soltanto agli e alle estremist*, agli o alle ignorant*, o agli e alle imbecill* . Ma come dice la stessa semantica del verbo (che può essere anche usato intransitivamente, focalizzandone interamente il significato sul soggetto) in fin dei conti aderire o meno a un contenuto possibile corrisponde a una decisione propria, interiore, che dobbiamo prendere con la nostra testa. In un bel libro del 2013 (La démocratie des crédules [9]) il solito Bronner spiega che la mente umana non solo non è esente ma è addirittura soggetta a bias cognitivi non indifferenti, come il bias di conferma (che ci spinge a notare e ricordare soltanto quel che collima con quel che già abbiamo in testa ignorando o svalutando quel che potrebbe mettere in crisi le nostre convinzioni) o il bias di disponibilità (che ci spinge a credere che il reiterarsi di un’ipotesi o di semplici ma frequenti argomenti a favore della stessa basti a trasformarla in tesi).

Questi bias a) servono chiaramente ad accorciare le fasi amletiche di indecisione e, parzialmente, a prendere decisioni corrette (come nel tracciamento degli animali, dove il fattore tempo ha una grande importanza); b) ci aiutano dunque a non trarre conclusioni completamente al buio ma non sono strumenti perfetti: ci possono anche indurre (anche facilmente) in errore, tanto più che l’aumento oggettivo (e continuo) di informazioni regalatoci dalla rete ci provoca uno stato angoscioso di incertezza permanente da cui possiamo uscire soltanto sposando una o un’altra tesi. È il cosiddetto effetto Otello: un’ipotesi inizialmente suggeritaci e ritenuta molto improbabile viene resa attraverso una narrazione tendenziosa e ossessiva (genere di cui il web non scarseggia) sempre più credibile (senza mai venire provata) al punto che è il o la destinatari* stess* di quella narrazione a trasformare l’ipotesi in tesi. Se si tratta di ipotesi angoscianti (come l’infedeltà del(la) propri* partner o catastrofi e invasioni imminenti) lo stress da incertezza aumenta e con lui la probabilità che il soggetto (esausto) prenda per buona qualunque stupidaggine. Se si considera 

a) che sul web la lizza per la nostra attenzione è molto agguerrita;

b) che tendiamo a ricordare le cose più incredibili o impressionanti;

c) che, come osserva Bronner (2021), è la nostra stessa natura a portarci a sopravvalutare le probabilità minime, specie se sono associate a rischi (per esempio: tendiamo a percepire come più breve di quanto non sia la distanza che ci separa da un proiettile o da un corpo che si avvicina a noi volando; fra mille volti distinguiamo più rapidamente quelli in collera; fra gli animali siamo lestissimi a divisare serpenti e ragni [10]);

d) che l’editorializzazione dei contenuti digitali è indicizzata sulle e dalle nostre pulsioni;

si comprenderà 

1) quanto opaca e pericolosa sia in realtà la cosiddetta trasparenza promessaci dal digitale;

2) quanto urgente, come osserva ancora Bronner (2021), un’operazione meditata di ingegneria dell’intelligenza collettiva che permetta a tutt* (specie alle nuove generazioni) di distinguere la credibilità dei contenuti (p.e. stabilendo e rendendo visibili dei livelli standard di affidabilità di un contenuto, dal massimo della pubblicazione scientifica al minimo del contributo sui social network [11]) che contrasti la deriva di intere popolazioni nell’oscurantismo e nell’irrazionalità sfrenata (prodromo dell’estremismo);

3) e quanto, infine, con buona pace di Diderot, sommamente carico di conseguenze sia quel che finiamo per credere o non credere. 

Credere in una religione? Non è una questione di dogmi 

Convertirme a la religión de Ustedes?
No se esfuerce. No creo ni siquiera en la mía. Y eso que es la verdadera!
(Anziana spagnola cattolica a un gruppo di Testimoni di Geova[12])
Credo in Dio soltanto dopo aver bevuto un po’.
(Giovane musulmano siriano alla fidanzata, anche lei musulmana, che gli chiede del suo rapporto con la religione). 

51agsiotx0l-_ac_uf10001000_ql80_E come la mettiamo con i credo di tipo religioso e soprattutto con le loro derive fondamentalistiche, ovvero con quel genere di contenuti che non potranno mai essere veri o falsi allo stesso modo del risultato di un calcolo razionale, quei tipi di contenuti su cui gli uni giurano e gli altri sbadigliano ma che, com’è come non è, anche nell’era digitale formano parte del mondo di entrambi, credenti e non credenti, e spesso a dispetto della loro stessa lettera (a volte talmente grottesca da risultare del tutto improbabile [13]) motivano il nostro comportamento fino a farci compiere scelte radicali? 

Se negli ultimi due secoli il credito epistemologico della sfera religiosa è stato ampiamente ridimensionato dallo sviluppo tecnico e scientifico, non si può seriamente sostenere che gli attori sociali che ne gestiscono il capitale simbolico abbiano gettato la spugna. Anzi! Se ne sono addirittura ampliati tanto il numero che la tipologia: ai religiosi tradizionali (preti, suore…) si sono aggiunte nuove (e vecchie) figure come sciamani (e sciamane), cartomanti, specialisti di medicina alternativa e via dicendo. Segno che se l’aspetto dogmatico, dottrinario, contenutistico del religioso ha subìto rivalutazioni radicali, da un punto di vista funzionale, la sfera religiosa è ancora lì viva e vegeta. Anche se la pratica canonica dei riti religiosi in Europa occidentale si è drammaticamente assottigliata, la frequentazione di simboli religiosi di ogni tipo – dai santuari ai gadget, categoria moltiplicata dalla globalizzazione, dalla letteratura devozionale, specialistica o esoterica a ogni sorta di pratiche alternative (yoga, meditazione, e per chi vive nei Paesi germanofoni anche la cosiddetta Seelsorge gestita da strutture ecclesiastiche tradizionali e non solo ecc.) – appare tutt’altro che infrequente.

In effetti, allargando lo sguardo sul mondo (lasciando cioè fuori l’Europa occidentale secolarizzata) nemmeno le famigerate grandi confessioni monoteiste tradizionali sembrano seriamente in crisi. Almeno per quanto riguarda la pratica simbolica ma ancor di più relativamente alla funzione sociale (educazione, assistenza pratica e psicologica, sanità…[14]): il credito sociale di persone che fondano la loro autorità attraverso il richiamo a nuove o vecchie forme di religione è molto alto. 

9782081231252-475x500-1E non è meraviglia. Come osserva Bronner (2013), le scienze naturali non sono capaci di rispondere a questioni metafisiche (p.e la fede nell’esistenza dell’anima o nella realtà di Dio). Possono svalutare pratiche e argomentazioni legate a questi temi (e persino istituzioni: dalle chiese in genere ai cosiddetti testi sacri) ma tutto ciò che ha a che vedere col senso della vita (propria e dei propri cari e delle proprie care così come del proprio ecumene [15]) è sempre al di là del loro raggio di azione. L’antropologo Maurice Godelier (2006: 62) [16] non soltanto conferma dalla propriaa prospettiva disciplinare quel che Bronner afferma da quella sociologica ma è anche più preciso nell’indicare le ragioni della longevità del religioso: «Dans toutes les sociétés […] à toutes les époques, les humains se sont interrogés sur ce qui signifie, pour un être humain, de nâitre, de vivre et de mourir, sur les formes de pouvoir qui sont légitimes et celles qui ne le sont pas […]». Dopo aver chiarito che questo carattere universale di dette questioni esistenziali non determina uniformità nelle risposte ma piuttosto testimonia della grande diversità di miti, religioni, forme di pensiero e regole di condotta che l’umanità ha prodotto (e siamo riuscit* a non distruggere o dimenticare), Godelier puntualizza (ivi): «En fait, ce qu’il y a de commun entre toutes ces questions et ces réponses ne tient pas à ce qu’elles disent – bien que bon nombre d’entre elles disent des choses très proches – mais à ce qu’elles visent» Ovvero (ivi): 

«[…] donner du sens à des réalités auxquelles les humains de toutes époques (et vivant dans toutes sortes de sociétés) sont confrontés : le fait justement de naître, de mourir, d’avoir à affronter les forces de la nature, de subir ou d’exercer diverses formes de violence sur les autres». 

Dare un senso a queste realtà serve cioè a costruire non tanto sistemi logici inattaccabili (uno dei vantaggi delle narrazioni religiose nella lizza per l’attenzione e contro l’oblio umani è quello di poter essere contraddittorie e miracolistiche, ovvero incredibili, impressionanti e dunque facilissime da ricordare [17]) quanto sillogismi pratici. Le cosiddette religioni, continua l’antropologo, sono delle rappresentazioni che aiutano a venire a capo “in qualche modo” dei sempiterni (e realissimi alla nostra coscienza) problemi di convivenza con gli altri e con la propria ecumene [18], che non trovando mai fine sono sempre gli stessi pur sembrando diversi e – con buona pace di dogmi, articoli di fede e via scrivendo – di tutte le religioni costituiscono il punto comune. Per dirla con Ludwig Wittgenstein: questi nodi problematici esistenziali universali sono la Lebensform che sta dietro ogni Sprachspiel religioso. 

9788893415026_0_500_0_0Il futuro delle religioni? Tutto da testare 

Simile profondità di sguardo sul fenomeno religioso è riscontrabile nel volume O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune del filosofo e teologo Augusto Cavadi (2021: 14 s.). Il problema affrontato da Cavadi (una riformulazione inconsapevole in gergo filosofico dell’approccio antropologico alla religione di Godelier) è infatti «[…] [la] questione radicale di come l’essere umano, oggi, si possa legittimamente auto-interpretare nel contesto dell’universo in ebollizione». Cosa intende per oggi Cavadi? La visione, per una persona non più giovanissima, nata e cresciuta all’interno della Chiesa cattolica romana, del vuoto lasciato dalla crisi delle grandi narrazioni e riempito: «[da una congerie] di «[…] saperi, ipotesi e scenari sempre più sconvolgenti che provengono dalle scienze naturali e umane […]» in cui «A sopravvivere è il sistema economico di cui il Liberalismo è stato l’ideologia inspiratrice […] », sistema che tiene in poco o nullo conto «“i sacri principi dell’Ottantanove”», caratteristico della globalizzazione. Quest’ultima, continua Cavadi parafrasando il biologo Stuart Kauffmann (ivi: 64): 

 «[…] ci impone di abbandonare ogni “fondamentalismo morale” (non meno dannoso di qualsiasi versione del “fondamentalismo religioso”) e “di ragionare insieme della nostra moralità”: cioè in “uno spazio spirituale non ostile, che potrà condividere chi crede in un Dio creatore e chi non crede”, a partire da quei “principi morali identici” (“ad esempio il rispetto per la sacralità della vita”) che “le persone appartenenti a civiltà sparse nel mondo condividono”.
Una simile “etica globale” implicherebbe, almeno, tre aspetti: “un senso di unione con tutte le forme di vita”, la “responsabilità verso un pianeta sostenibile”, la prevenzione di ogni “scontro fra le culture a più stretto contatto nell’emergente civiltà globale”». 

Si chiede quindi Cavadi: ce la faranno le religioni tradizionali a sostenere il confronto con un obiettivo come questo, radicalmente non-violento, progressivamente inclusivo (a prezzo ovviamente di una forte contaminazione culturale policentrica e di un’acculturazione di massa in una nuova identità post-religiosa ovvero della co-gestione intellettuale degli ultimi settori della cultura di competenza dei religiosi e delle religiose: dall’etica alla metafisica)? Kauffmann (come la grande maggioranza degli intellettuali che si esprimono nella parte secolarizzata del mondo) le dànno per spacciate o da spacciare ma Cavadi, pur giudicando che anche in ambito filosofico-teologico ci troviamo in una fase innegabile di ripensamento decisivo che suggerirebbe di mandare in soffitta quella parte di religioni tradizionali che sono di stampo esclusivista, fondamentalista [e] proselitista propone una via alternativa all’aut aut molto più realistica, meno violenta ma non meno chiara [19]: 

«Più che impegnarsi nel tentativo (vano) di azzerarle tutte, sarebbe preferibile favorire la graduale prevalenza di religioni (nuove o antiche ma rinnovate) che non si interpretino come vie esclusive di relazione col Divino; che siano in continua ricerca del discernimento dei propri fondamenti, enfatizzandone i costruttivi e rinnegandone i distruttivi; che non pretendano di occupare l’intera vita dell’individuo e delle società, ma rispettino l’autonomia delle dimensioni laiche (scientifica, filosofica, artistica, politica); che puntino sulla forza dei propri simboli e della propria testimonianza piuttosto che su strategie propagandistiche più o meno aggressive». 

E siccome Cavadi, già nelle prime pagine, aveva affermato che è giunta ormai l’ora sia di dirsi la verità che di farla, suggerisce un test di verifica, provvisoriamente regolato su sette criteri, che attesti se «[…] una religione del futuro sia davvero, essenzialmente, una redenzione/guarigione [qui Cavadi si rifà al teologo e psicoterapeuta Eugen Drewermann [20]] degli uomini e delle donne del pianeta […]..». Qui una mia parafrasi fedele nel focus variabile scelto dall’autore ma fortemente abbreviata nell’argomentazione rispetto all’originale (ivi:76-80) di questi sette criteri (in corsivo il letterale): 

1. Una religione merita di scomparire se usa Dio per alienare l’umanità dai suoi diritti e dalle sue responsabilità carnali. 

2. Una religione va considerata autentica se riesce a toccare non solo la volontà e la ragione degli esseri umani ma arriva dove la scienza e la filosofia non bastano più ovvero ai sentimenti e all’inconscio. 

3. Se è capace di dialogare con l’inconscio, una religione da salvare deve anche sapervi agire per estirpare le pulsioni di dominio e convertire chi ne è affetto (Cavadi menziona maschilismo e patriarcato). 

4. Accettabile è soltanto una religione disarmata, povera di amicizie potenti come di risorse in denaro. Solo così può guarire/salvare. 

5. Non si può considerare vera una religione che ignori gli scandali sistemici della società o che si limiti a denunziarli senza provare a correggerli sia a livello individuale-quotidiano che collettivo-progettuale. 

6. Una religione è superflua se non addirittura dannosa se è incapace di far trascendere i confini individuali ed etnici ai propri e alle proprie praticanti. 

7. Una religione è autentica se detronizza l’essere umano dal ruolo illusorio di méta dell’evoluzione e di centro dell’universo. 

9788899126353_0_200_0_0Il test proposto da Cavadi non le manda a dire: anche se è kantianamente declinato alla terza persona ed è costituito in parte dal lessico veemente di chi cerca la chiarezza di un modello utopico, non può ovviamente essere condotto altro che in prima persona. Ma una volta terminate le proprie riflessioni, questa persona cosa dovrebbe/potrebbe farne dei risultati cui è pervenuta? I valori di riferimento del test mi sembrano l’uguaglianza, l’universalismo, la benevolenza, l’impegno sociale, l’olismo psicologico. Ammesso che una persona giudichi che uno o più contenuti religiosi non soddisfi(no) (già) tutti questi criteri, questa conclusione l’autorizzerebbe a squalificare l’intero portato (non solo semantico) di quella religione? Possibile ma, realisticamente, improbabile: se la persona si trovasse nell’area secolarizzata del pianeta – dove la religione e la politica sono effettivamente separate (fra loro e/o entrambe) dall’etnia di appartenenza e ogni persona gode di uno status reale di laic* individualista – l’interruzione di condivisione (e quindi, forse, di trasmissione) culturale cui mira l’esercizio sarebbe tutto sommato socialmente pacifica e relativamente indolore, nella misura in cui la persona dovrebbe probabilmente limitarsi a interrompere alcuni rapporti sociali e forse familiari senza rinunciare al resto della sua ecumene immediata. Nel resto del pianeta tuttavia questo tipo di scelte o non sono veramente articolabili o, se lo sono, sono talmente costose in termini sociali e affettivi da risultare altamente improbabili (e fra questi due estremi ci sono sicuramente una miriade di posizioni intermedie). 

Questa persona, peraltro, nell’esperimento mentale che sto conducendo, finora ha sottoposto al test soltanto la propria di religione. Dovesse bocciarne una altrui o addirittura tutte: davvero quella religione – per riprendere la veemenza del lessico del test – non sarebbe autentica, non sarebbe vera e meriterebbe di scomparire? Certamente no: se è vero che tutte le religioni interpretano in maniera diversa l’identica funzione che assolvono [21], nessuna può in modo storicamente, antropologicamente e sociologicamente serio essere giudicata una fucina di male tout court. È legittimo allora prendersela con “i pastori” (usando questo termine cristiano per tutte le altre figure di autorità di tutte le religioni sul globo terraqueo) o, per lo meno, con i propagatori (laici, religiosi con la patente o senza, eretici, ortodossi, con o senza padrone, ubriachi e sobri, in buona o in cattiva fede e via poetando giacché essi sono, secondo la promessa divina, più numerosi che le stelle del firmamento e si intendano sostantivi e aggettivi tutti quanti, di grazia, anche al femminile) di contenuti non soddisfacenti i criteri del test? Dopo un test che fondamentalmente saggia la «disponibilità a non istigare alla violenza» di latori di contenuti che possono essere oggettivamente violentissimi (p.e. i versetti 8 e 9 del noto salmo 137), non credo (e non mi sembra che Cavadi suggerisca altro) si possa né si debba fare altro che smettere di ascoltarne i e le più violent* e quindi farsi ascoltare da chi li ha ascoltat* [22]. 

A meno di intenderlo, dunque, come preludio alla costruzione di nuove comunità (cf. Cavadi, 2021: 89-123) e nuove identità (e nella misura in cui qualcuno non ritenga questo stesso fatto una minaccia [23]), non credo che il test, lessico nonostante, vada interpretato né come istigazione a una caccia alle streghe al rovescio né come licenza maoista di rottamazione culturale o censura sociale pesante. Nel “mirino” di Cavadi non mi sembrano esserci né i pastori che servono il loro gregge senza disprezzare il resto della creazione (e chi non ne conosce in ogni luogo, di ogni credo e colore), né le loro bibbie (anche qui un testo – o meglio un ipertesto – per tutti) piuttosto quel che di peggio bibbie e pastori di tutti i tempi, luoghi e tradizioni possono fare con il loro carisma: fortificare la propria posizione all’interno del gruppo talmente tanto da mantenere il proprio gruppo in uno stato di perenne ingiustizia (anche a prezzo di promettere ricompense ultraterrene che ripagheranno sofferenze terrene spacciate per inevitabili o addirittura auspicabili [24]) o pastori e interpretazioni religiose, echeggiando Bronner, impegnati a diffondere contenuti sociopatici: sociopatici nella misura in cui con il loro fondamentalismo di fatto, convincono le pecore di tutti i continenti di non poter convivere con i propri simili d’oltreconfine o di altro colore neanche se, per un “miracolo” che la storia del mondo ha già più volte registrato, ne avessero voglia. 

41ygcugaeclSeconda conclusione 

Ho presentato questo test a sette criteri perché mi sembra costituire in ambito religioso un’applicazione (inconsapevole quanto efficace) di quel lavoro di ingegneria dell’intelligenza collettiva auspicato da Bronner per tutti gli ambiti comunicativi. Si può essere d’accordo su tutto, per niente o in parte con questo test: in ogni caso costituisce una forma di anticorpo ermeneutico utile a individuare alcuni tipi di patogeni circolanti nella realtà comunicativa religiosa: svalutazione del corpo e delle sue esigenze, della vita sociale intesa come responsabilità, giustificazione di ingiuste disuguaglianze, potenziamento estremo del gruppo fino alla svalutazione ontologica di chi e cosa non ne fa parte. Probabilmente a qualcuno questa lista tutto sembrerà fuorché patogena, o forse lo sembrerà solo in parte.

Cavadi risponde all’universalità della Lebensform universale che si nasconde dietro a ogni Sprachspiel religioso massimizzando il valore della cooperazione e della benevolenza (la non-violenza) laddove molte religioni (se non nei loro dogmi almeno nella la loro pratica) hanno dato prova o di privilegiare radicalmente rispetto a ogni spinta universalista la sicurezza del gruppo o di deradicalizzarne la capacità di apertura sdoganandone quella di esercitare violenza sul resto del vivente. Il mondo abitato dall’umanità, la storia e la preistoria hanno dato senso a tutte e due le posizioni, facendole registrare entrambe. Cavadi ritiene che sulla base di un fondo comune di spiritualità sia possibile per ogni essere umano trascendere i confini etici della propria religione storica (e anche quelli della fede in qualche forma di sacro o di divino [25]) per rendere possibile la sopravvivenza del pianeta e la convivenza dei popoli che lo abitano.

Cavadi non considera però che quest’operazione di superamento dei propri limiti (anche la compassione è un limite che può essere fatto trascendere) può avvenire sia in un senso che nell’altro e che lo stesso universalismo può essere violento e portare alla distruzione di intere culture (dalle conversioni forzate del Medioevo alla barbarie culturale del colonialismo). La sua scelta a favore di una sola delle due direzioni è più religiosa che filosofica? Difficile affermarlo con sicurezza ma difficile anche rimproverarlo a un autore che a) distingue la spiritualità (vita interiore ricca che porta a gesti limpidi) dalla religione (credenza in, appartenenza a, e pratica di una religione storica) ma b) non distingue la spiritualità dalla filosofia (2015) e c) ha vissuto buona parte della propria vita praticando tanto la religione che la filosofia, prima di prendere le distanze dalla prima, con serietà e coerenza. Peraltro, visto che antropologicamente la sfera religiosa determina quella (teologico-) politica e venendo l’esperienza prima di ogni divisione teorica quel che vale per la biografia di Cavadi mi sembra valere anche per quelle degli altri. In altri termini: vada anche il fondo comune di spiritualità ma anche chi si professa ateo o non-praticante e tenta un approccio universale lo fa a partire da un retroterra esperienziale connotato religiosamente in modo preciso (nel senso inteso da Cavadi) che se non avesse o percepisse intorno a sé difficilmente potrebbe (invitare a) trascendere. 

vauclairQueste critiche nonostante, il test che Cavadi propone appare assolutamente irrinunciabile nella santabarbara che ormai abitiamo, considerando e l’universalità del fenomeno religioso (nei termini di Godelier) e la sua estrema efficacia a livello identitario (livello interessato esplicitamente dai criteri 5 e 6 di Cavadi). Non perché i conflitti in corso e quelli che purtroppo verranno sono o saranno di tipo religioso (in senso dottrinario). Non ci si ammazza certo per un filioque ma, come osserva Vauclair (2021), la transnazionalità delle identità e delle strutture religiose rende la comunicazione religiosa un efficacissimo strumento di mobilitazione ovvero di facilitazione della cooperazione collettiva (offrendo giustificazioni ideologiche farlocche ma efficacissime), specie in un’epoca in cui le identità nazionali hanno per lo più perso i vantaggi che potevano offrire in passato a chi ne partecipasse, in termini di sicurezza e di mobilità sociale.

Senza una pratica personale di esercizio critico a funzionare da antidoto anche (e certamente non solo) in campo religioso [26], non credo che l’umanità possa uscire indenne dal futuro prossimo venturo. Anche perché, facendo una previsione sulla base della continuità valoriale proposta da Schwartz (2012), con ogni probabilità la crescita dell’ansia produrrà strategie di prevenzione di ulteriori perdite (come la crescita dei partiti nazionalisti ed estremisti di destra che già stiamo vivendo in Europa) e di protezione contro minacce presenti e future (aumento delle spese militari). Tutte misure che se dànno al singolo e alla singola la sensazione di aver raggiunto una nuova posizione di potere, sul piano sociale stimolano in genere conformismo, tradizionalismo e l’ossessione per la propria sicurezza. Tutti atteggiamenti che in genere ostacolano la capacità di trascendere i propri interessi in considerazione di quelli altrui, finendo per inibire nella capacità di giudizio (ovvero nel decidere a cosa credere) la disponibilità a usare un criterio universalista, un criterio affine quindi alla dimensione in cui in fin dei conti si determina ogni motivo di ansia rilevante in questo contesto. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1]Si può trovare la corrispondenza su Wikisource
 (https://fr.wikisource.org/wiki/Correspondance_de_Voltaire/1749/Lettre_1979) che trascrive dalle opere complete di Voltaire, ed. da Louis Moland per Garnier, nel 1883.
[2] V. Cyrulnik (2023).
[3] Consulto il libro in edizione elettronica. Pertanto non posso fornire il numero di pagina relativo alla parafrasi. Nel prosieguo dell’articolo sarò costretto a procedere allo stesso modo ogni volta che mi riferirò a una pubblicazione cui ho avuto accesso solo elettronicamente. Valga questo avviso per tutti i casi seguenti ove manchi un’indicazione precisa di pagina.
[4] Giustamente celebre il decimo capitolo de Il pendolo di Foucault.
[5] Cyrulink (2017). V. Petrovic (10.06.2024).
[6] Nei casi come quello riferito da Eco parlerei, al massimo, di concorso di colpa. E gli scivoloni (anche i più terribili) possono capitare a tutt* , inclus* i e le intellettuali.
[7] Al massimo le rimescola un po’: se prima leggevamo romanzi adesso guardiamo fiction, se prima chiedevamo la strada a qualcuno adesso usiamo il telefono, se prima leggevamo il Genesi adesso consultiamo Wikipedia. Che non dice cose folli o racconta storie (come accadeva agli autori del Genesi, salvo che chi in altre epoche lesse i loro testi li prese per un racconto letterale), dice cose che la maggior parte di noi possono solo prendere per buone (non saperle vere).
[8] Bronner (2019) osserva che l’aumento di informazione, anche scientifica, permesso dal web corrisponde a un aumento proporzionale delle credenze. Più informazioni implicano più complessità ed è proprio per eludere la complessità che, se mi si passa l’espressione, siamo diventati maestri nella gestione del falso.
[9] Bronner (2007) tratta dello stesso tema in modo ancora più dettagliato.
[10] P.e. i telegiornali normalmente abbondano in brutte notizie e scarseggiano di buone.
[11] Cf. il rapporto omonimo della commissione Les lumières à l’ère numérique, voluta dal Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron e presieduta dallo stesso Gerald Bronner, pubblicato dalla Presidenza della Repubblica francese in data 11.01.2022. Il rapporto contiene trenta raccomandazioni che responsabilizzano il settore pubblico (nazionale e internazionale), quello privato e quello civile motivandolo a una serie di buone pratiche atte a costruire e facilitare l’esercizio personale dello spirito critico per il mantenimento di una corretta convivenza democratica.
[12] Convertirmi alla Sua religione? Non si sforzi. Io non credo nemmeno nella mia. E si figuri che dicono che è quella vera!
[13] V. Petrovic (10.06.2024).
[14] Per cifre, mappe, reti di connessione e altre utilissime informazioni che attestano l’insignificanza numerica della prospettiva europea sulle religioni tradizionali v. Vauclair (2021).
[15] Mi convince molto meno la cosiddetta preoccupazione per il tutto. Su come sia problematico intendersi quando si parla di “tutto” ho discusso in un mio articolo indicato in bibliografia. Uso il termine ecumene qui non in senso teologico ma geografico ovvero “spazio terrestre abitato da una o più società in comunicazione fra loro, spazio in cui si articolano tutti i tipi di rapporti tecnici che riguardano una o più società”.
[16] Maurice Godelier riprende questa tematica anche in altri testi (p.e. 2019 e in numerose altre pubblicazioni posteriori al 2007 che non indico in bibliografia ma che sono facilmente reperibili).
[17] Cf. Boyer (2001) e Gottschall (2013).
[18] Sulle differenti mondiazioni, per usare un termine di Philippe Descola, ovvero sul rapporto tutt’altro che trasparente fra ciò che a noi sembra chiaro (la separazione per interiorità e/o esteriorità fra umano e non-umano che qui Godelier a fini di chiarezza appiattisce sul nostro modo occidentale attuale di vedere il mondo) troverà chi legge una sintesi (e varie indicazioni bibliografiche) che spero comprensibile, fra altri miei scritti, nell’articolo a mio nome indicato in bibliografia.
[19] Non si pone quest’ultima questione (ed è infinitamente più moderato oltre che sostanzialmente, anche se inconsapevolmente, d’accordo con Cavadi) Bernhard Uhde, prof. di scienze religiose alla facoltà di teologia cattolica di Friburgo i. Br. Convinto che i tempi per una cogestione della sfera religiosa fra varie confessioni siano già maturi Uhde chiarisce anche le premesse teoretiche di detta cogestione in Warum sie glauben, was sie glauben. Weltreligionen für Andersgläubige und Nachdenkende (2013, pp. 17-46). In modo assolutamente pratico mi sembra da anni già operare sulle stesse premesse anche l’islamologo Ahmad Milad Karimi, prof. di Kalam, filosofia e mistica islamiche all’Università di Münster: v. Warum es Gott nicht gibt und er doch da ist (2018).
[20] Segnalo che senza alcuna pretesa in ambito teologico il già citato neuropsichiatra Boris Cyrulink (2017) ha sottolineato e sottoposto a scrutinio scientifico la funzione terapeutica del religioso in pazienti di diverse confessioni. Su alcuni pazienti musulmani ha riferito Hofmann (2018).
[21] V. Schwartz (1995).
[22] L’unico modo di evitare il proselitismo sarebbe quello di mantenere vicino a quella nuova anche le vecchie identità. Sul punto v. anche Zink (2009).
[23] Mirando la proposta a scardinare sussistenti rapporti assiologici (anche se non necessariamente per costruirne altri), mi sorprenderebbe un esito differente.
[24] V. Lohlker (2016).
[25] Per le definizioni di quel che Cavadi considera tre cilindri di diametro decrescente disposti a piramide ovvero (dal basso in alto) spiritualità, religiosità (la fede in qualche forma di sacro o di divino) e religione v. Cavadi 2021: 26-35 e 49.
[26] Sull’educazione allo spirito critico come requisito per la democrazia e come strumento di prevenzione della disinformazione nell’era digitale insiste moltissimo il rapporto della Commissione presieduta da Bronner. V. n. 11. 
Riferimenti bibliografici 
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BOYER, Pascal, 2001, Religion Explained. The Evolutionary Origins of Religious Thought (Basic Books: New York).
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CYRULNIK, Boris, 2017, Psychothérapie de Dieu (Odile Jacob: Paris).
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ECO, Umberto, 02.05.2008. “Un non-compagno che sbaglia” in l’Espresso.
GODELIER, Maurice, 2007, Au fondement des sociétés humaines. Ce que nous apprend l’anthropologie (Albin Michel: Paris).
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KARIMI, Ahmad Milad, 2018,Warum es Gott nicht gibt und er doch ist (Herder: Freiburg i. Br.).
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ZINK, Jörg, 2009, Gotteswahrnehmung. Wege religiöser Erfahrung (Gütersloher Verlagshaus: München).

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Francesco Azzarello, è stato segretario della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, ha partecipato a varie attività antimafia collaborando con diverse associazioni palermitane. In Germania dal 1997, ha studiato Filologia romanza e Filosofia a Colonia. Dal 2003 insegna Filologia romanza a Friburgo. Oltre alle pubblicazioni accademiche in linguistica, letteratura e storia della cultura ha scritto di mafia, filosofia, teologia interreligiosa e altro. Dal 2015, con alcuni amici, accompagna diverse famiglie di profughi nel percorso di integrazione in Germania.

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