Sin dagli inizi dell’età moderna – che si suole convenzionalmente datare dalla scoperta dell’America (1492) – le grandi migrazioni internazionali sono state il principale fattore che ha concorso alla formazione dell’attuale sistema mondiale, premessa del processo di “globalizzazione” ormai da molto tempo in atto.
Gli stessi Stati Uniti d’America, la potenza mondialmente egemone, sono sorti da quelle migrazioni, così come altri importanti Paesi sviluppati (il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda) e tutti quelli, ora in sviluppo, dell’America più o meno propriamente definita latina, fra cui l’Argentina, il Brasile, il Cile, l’Uruguay e il Venezuela, cui ha dato un contributo significativo l’emigrazione italiana. Anche molti Paesi dell’Asia e dell’Africa, ove pure la popolazione autoctona era molto più numerosa che in America o in Australia, hanno conosciuto una consistente immigrazione europea durante la loro colonizzazione diretta o indiretta. Ancor oggi gli effetti di tale processo si fanno sentire in molti Paesi. Basti qui ricordare che l’India, che fu la più grande e importante colonia britannica, utilizza tuttora l’inglese come lingua ufficiale (accanto all’hindi, peraltro poco amato e poco conosciuto in diversi Stati dell’Unione), che vi assolve una fondamentale funzione integratrice, di là delle profonde differenze culturali presenti nel Paese. Quanto all’Africa, tuttora vi si distinguono Paesi anglofoni, francofoni e lusofoni, e nei Paesi che hanno subìto la colonizzazione dell’Italia (l’Eritrea, la Somalia, la Libia e l’Etiopia) anche la conoscenza della lingua italiana è tuttora assai più diffusa che altrove. L’influenza della colonizzazione non si è però ovviamente limitata alla lingua. Parimenti affetti ne sono stati molti altri aspetti dell’organizzazione sociale e della cultura, fra cui la stessa religione.
In ogni caso a questo processo si deve la formazione in quei contesti delle prime vere società multiculturali della storia moderna, che fuori d’Europa non sono una novità (almeno se si distingue, come peraltro sempre si dovrebbe, la multiculturalità, come dato oggettivo, consistente nella presenza di culture diverse, e il multiculturalismo, come orientamento ideologico e politico, peraltro oggi molto meno popolare di quanto non fosse vent’anni fa, specialmente in alcuni Paesi, come il Canada e l’Australia).
Va sottolineato però un cambiamento fondamentale. Per quattro secoli e mezzo, dal 1492 alla seconda guerra mondiale, i flussi migratori andarono, per l’essenziale, dal centro del sistema mondiale in formazione, allora costituito dalla vecchia Europa, alle sue periferie: le Americhe, l’Africa, l’Asia, l’Oceania. All’indomani della seconda guerra mondiale si ebbe l’inversione della direzione fondamentale dei flussi migratori, nel quadro dell’accelerata trasformazione di quegli anni, che videro fra l’altro l’affermazione della potenza americana, la divisione del mondo in due grandi blocchi politici, economici, ideologici e militari in competizione, la fine dei grandi imperi coloniali con l’accesso all’indipendenza di quasi tutti i Paesi asiatici e africani, la costituzione dello Stato d’Israele, con il conseguente esacerbarsi dei conflitti in Palestina e nelle vicine aree del Medio Oriente, e lo scoppio di grandi rivoluzioni sociali in alcuni Paesi del cosiddetto Terzo Mondo, fra cui la Cina in Asia, l’Algeria in Africa e Cuba in America Latina. I flussi cominciarono a dirigersi sempre di più dalle periferie del sistema mondiale al suo centro (che comprendeva ormai, come sua parte integrante, anche gli Stati Uniti d’America, divenuti anzi, proprio in quel periodo, il centro del centro). Il fattore di fondo sotteso a questo rovesciamento della tendenza secolare è stato il diverso andamento dei trend demografici nel centro e nella periferia: un dato di grande rilevanza storica, che indusse a individuare in questa nemesi della colonizzazione, più che la continuazione dei vecchi flussi migratori, l’inizio di un nuovo grande processo destinato a ridisegnare sul lungo periodo la stessa mappa etnografica del mondo.
Le trasformazioni delle migrazioni post-belliche in Europa
Dalla fine della seconda guerra mondiale alla fine del ventesimo secolo (la metà di un secolo tutt’altro che “breve”, a considerarne gli eventi), per quanto concerne l’immigrazione in Europa si devono distinguere tre fasi abbastanza diverse per natura, provenienza, desti- nazione e funzione dei flussi.
La prima fase (1945-1973) comprende sia migrazioni intercontinentali, sia migrazioni continentali, che peraltro, almeno per quanto concerne l’Europa di allora, vanno nettamente distinte. Le migrazioni intercontinentali furono essenzialmente dovute ai “fattori di espulsione” (push factors) presenti nei Paesi di esodo, tra cui gli effetti delle grandi crisi politiche ed economiche che hanno accompagnato il processo di decolonizzazione. Ricordo, per quanto concerne l’impero britannico, i sanguinosi conflitti che hanno portato alla divisione prima dell’India e del Pakistan (con perduranti conseguenze nel Kashmir) e poi del Pakistan occidentale e del Pakistan orientale (con la nascita del Bangla Desh), determinando decine di milioni di profughi, e le drammatiche violenze in Africa orientale, prima e dopo l’indipendenza di Kenya, Uganda e Tanganica, che hanno causato la fuga o l’espulsione di rilevanti componenti delle minoranze europee e asiatiche ivi insediate. A ciò vanno aggiunte le reiterate fughe verso Hong Kong (colonia della corona britannica sino al 1997) e da lì poi verso altri Paesi, specialmente nei momenti di crisi politica ed economica della Repubblica Popolare Cinese. Quanto all’impero francese, basti qui richiamare gli effetti delle guerre d’Indocina (1946-1954) e di Algeria (1955-1962), che determinarono la fuga in massa non solo dei pieds noirs (i coloni francesi ivi insediati anche da più generazioni), ma anche degli harkis (i nativi che avevano collaborato con loro) e dei dissidenti politici, e il definitivo stabilimento in Francia della stragrande maggioranza dei lavoratori di quei Paesi, già ivi presenti con progetti migratori temporanei. Simili per molti aspetti furono del resto le migrazioni che interessarono in quel periodo gli altri Paesi coloniali: il Belgio (per il Congo, in crisi profonda dopo la sua indipendenza, e il Ruanda e il Burundi, scossi da sanguinosi scontri etnici poi periodicamente riaccesisi), i Paesi Bassi (per l’Indonesia e il Suriname) e, un poco più tardi, il Portogallo (per la Guinea-Bissau, Capo Verde, l’Angola e il Mozambico, che conquistarono la propria indipendenza con guerre accompagnate e seguite da interni conflitti). L’Italia stessa conobbe a più riprese migrazioni dalle sue ex colonie, a volte anche con motivazioni di rifugio politico, per le vicende che hanno interessato la Somalia (restata sino al 1960 in sua amministrazione fiduciaria e poi travolta da una lunga serie di colpi di Stato e di guerre civili), l’Eritrea (nel 1962 incorporata dall’Etiopia, da cui si rese indipendente con una lunga guerra, ripresa poi per altri motivi, che ha lasciato strascichi tuttora persistenti) e anche l’Etiopia e la Libia (scosse da colpi di Stato “modernizzanti” che vi instaurarono odiose dittature militari).
Le migrazioni continentali europee si dovettero invece, oltre che ai fattori di espulsione nei Paesi di esodo (di ordine demografico, economico, sociale, culturale e in parte anche politico, come nel caso della Spagna, del Portogallo, della Grecia e della Jugoslavia, allora sotto regimi autoritari), ai “fattori di attrazione” (pull factors) nei Paesi di approdo. Fra questi, ce ne fu uno, storicamente datato, ma estremamente importante, che ha caratterizzato il fenomeno: il richiamo di manodopera per la ricostruzione post-bellica e il lungo periodo di espansione che le ha fatto seguito (un richiamo particolarmente forte, dati anche gli effetti a breve e a medio termine della falcidie di maschi in età produttiva determinata dai massacri della seconda guerra mondiale). Queste migrazioni continentali hanno interessato quasi tutti i Paesi europei, ma con una netta distinzione di ruoli fra quelli dell’Europa meridionale e quelli dell’Europa centro-settentrionale: i primi costituirono le aree di esodo e i secondi le aree di approdo. All’interno dei Paesi dell’Europa meridionale non sono però mancate delle migrazioni interne che riproducevano almeno in parte la logica di quelle migrazioni continentali. È stato questo il caso, in Italia, delle migrazioni dalle regioni del Sud e del Nord-Est verso il triangolo industriale di Milano, Torino e Genova e verso Roma e, in Spagna, delle migrazioni dall’Andalusia e da altre regioni del Sud verso la Catalogna e Madrid.
La seconda fase (1973-1982) si apre con la grande crisi del 1973-1974, scatenata dall’impennata del costo del petrolio, ma determinata anche (e forse ancor più) dall’esaurirsi della funzione trainante delle attività produttive che avevano caratterizzato la precedente fase espansiva: una crisi strutturale assai complessa, in cui ha giocato un ruolo importante l’aumento del costo del lavoro in molti Paesi del Nord del mondo (fra cui l’Italia, dove quell’aumento fu anzi particolarmente rilevante per effetto delle debordanti azioni sindacali del cosiddetto “autunno caldo” del 1969, alimentate dall’illusione che il salario potesse essere una “variabile indipendente” e, ancor più, dal clima di “contestazione generale” dovuto ai movimenti del ’68). In questa fase, mentre in Europa tendono a venir meno le migrazioni continentali sopra descritte, i movimenti migratori si accelerano e si estendono, nel contesto di quella “nuova divisione internazionale del lavoro” che cominciò a profilarsi appunto in quegli anni anche come parziale risposta alla crisi. Il risultato fu una situazione quanto mai contraddittoria. Da un lato, nonostante la persistente domanda di una manodopera flessibile e a buon mercato (non appagata dall’offerta interna soprattutto per i lavori più faticosi, pericolosi e mal pagati), i tradizionali Paesi europei d’immigrazione, l’uno dopo l’altro, chiudono le loro frontiere a un’ulteriore immigrazione regolare per motivi di lavoro. Dall’altro, ai già consistenti fattori di espulsione ivi strutturalmente presenti, si aggiungono gli effetti della crisi, che infierisce anche nei Paesi della periferia non produttori di petrolio, causandovi tensioni sociali, conflitti e repressioni anche estremamente cruente (basti qui ricordare i colpi di Stato in Cile e in Argentina, con le loro decine di migliaia di desaparecidos, l’aggravarsi della dittatura militare in Brasile, le guerre civili in America centrale, la trasformazione del regime rivoluzionario in una vera e propria dittatura repressiva a Cuba, il nuovo conflitto israelo-arabo, l’inasprirsi dei conflitti etnici in Ruanda e Burundi, Etiopia, Eritrea, Somalia e Sri Lanka e la repressione contro la minoranza cinese e i montagnards nel Vietnam appena riunificato). Ciò ha comportato un incremento a dismisura della pressione migratoria.
Mentre si assiste così a una vera e propria clandestinizzazione delle migrazioni, anche se non consapevolmente perseguita, ai migranti per motivi economici si aggiungono, dalle aree più disparate, numerosissimi profughi per motivi politici. È in questo contesto che divengono Paesi d’immigrazione (in gran parte malgrado sé stessi, stante fra l’altro la loro alta disoccupazione interna, che in questo periodo addirittura si aggrava per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale) anche i Paesi dell’Europa meridionale, fra cui l’Italia, che, essendo stati sino ad allora Paesi non già d’immigrazione ma di emigrazione, non avevano chiuso le proprie frontiere.
Anche fuori dell’Europa si aprono però dei nuovi poli migratori. Fra questi i Paesi petroliferi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale e occidentale (la Libia e la Nigeria, soprattutto), il pur riluttante Giappone, già divenuto la terza potenza industriale del mondo, e i nuovi Paesi industriali: dapprima le ben note “quattro tigri” asiatiche (Hong Kong, Singapore, Taiwan e la Corea del Sud), poi anche altri Paesi, via via interessati da quel processo d’industrializzazione dipendente che ha coinvolto rapidamente, in forme diverse, una parte crescente del mondo allora in via di sviluppo.
La terza fase è iniziata nel 1982 con la ripresa economica dalla crisi degli anni ’70 ed è tuttora in corso, pur tra le alterne vicende della congiuntura economica e l’impatto di pur straordinarie vicende storiche (fra cui il crollo del muro di Berlino, la crisi e l’implosione dell’Unione Sovietica e dei suoi vari Paesi satelliti, la formazione e l’estensione dell’Unione Europea a molti Paesi dell’Europa centro-orientale e orientale, la guerra del Golfo, con le sue molteplici conseguenze nel Medio Oriente e in Europa, la crisi dei Balcani e, da ultimo, dopo un periodo di solo apparente assestamento, gli attentati alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono e le azioni belliche condotte in nome della “guerra al terrorismo”, fra cui gli interventi armati americani in Afghanistan e in Iraq, e la grande crisi economica iniziata nel 2008 e non ancora conclusa). In questa fase le migrazioni internazionali tendono a generalizzarsi e a intensificarsi su scala planetaria, nel contesto di quelle ulteriori trasformazioni economiche, politiche, sociali e culturali che vanno sotto il nome, generico ma evocativo, di “globalizzazione”.
In questa fase persistono e anzi si aggravano i fattori espulsivi in molti Paesi di esodo. In Africa, in particolare, vengono meno le speranze e le illusioni del periodo della decolonizzazione e dei primi anni dell’indipendenza politica. L’imperversare della crisi economica e la disgregazione sociale che l’accompagna, incrudelite in molti casi da conflitti insensati, non lasciano intravedere concrete prospettive di soluzione a breve o a medio termine. Si è andato così profilando, per riprendere le amare parole pronunciate all’inizio di questo periodo (1982) da Edem Kodjo, allora segretario dell’Organizzazione dell’Unità Africana, un periodo in cui «il futuro sembra essere senza futuro». Ciò ha indotto alla fuga crescenti masse di giovani, disposti ad affrontare ogni rischio pur di andarsene (come confermano le reiterate tragedie che colpiscono quelli che cercano di attraversare il Sahara su scassati autocarri zeppi sino all’inverosimile e poi di passare il Mediterraneo su vecchie e stracariche “carrette del mare”, gestite da organizzazioni criminali e destinate in gran parte ad affondare prima dell’arrivo). D’altra parte in Medio Oriente esplodono le contraddizioni e i conflitti latenti, all’interno dello stesso mondo islamico, anche per le guerre collegate agli scontri fra sciiti e sunniti e all’emergere di un nuovo soggetto politico, lo Stato Islamico, in mano a un pugno di crudeli estremisti.
Fra questa fase e la precedente, di là delle differenze, esiste peraltro una continuità. La cosiddetta “globalizzazione” si sovrappone infatti ai processi della nuova divisione internazionale del lavoro, da cui si distingue soprattutto per la pervasività e la rapidità delle trasformazioni, dovute in gran parte allo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e comunicative e al ruolo dominante assunto dalla “virtuale” economia finanziaria rispetto alla “reale” economia produttiva. Ciò d’altra parte assicura un’inusitata capacità di penetrazione ai modelli di vita e di consumo dei Paesi del centro del sistema mondiale e, fra questi, di quelli tecnologicamente ed economicamente più avanzati, a partire dagli Stati Uniti d’America, da ormai molto tempo diventati, come già detto, il centro del centro, e della Germania, il Paese economicamente e politicamente più forte dell’Unione Europea.
Le relazioni fra globalizzazione e migrazioni internazionali
Ciò premesso, è opportuno puntualizzare le principali relazioni fra globalizzazione e migrazioni internazionali, individuando, all’interno di una pur complessa dialettica, la direzione in cui si sono prevalentemente manifestate le loro reciproche influenze. Da una parte, il processo di globalizzazione tende a incrementare le migrazioni internazionali (anche se non tutti i suoi elementi agiscono univocamente in tal senso). In particolare:
a) gli accresciuti contatti reali e virtuali diffondono nella popolazione dei Paesi a un grado di sviluppo intermedio la sensazione di deprivazione relativa, che, ancor più della stessa povertà, motiva una gran parte delle nuove migrazioni internazionali, che, in contrasto con il senso comune, per lo più provengono non già dai Paesi più poveri, ma da quelli a un livello intermedio, come i Paesi dell’Est in Europa, la Cina, l’India, il Pakistan, Sri Lanka e le Filippine in Asia, i Paesi del Maghreb in Africa e molti Paesi dell’America Latina;
b) la presenza nei Paesi in via di sviluppo delle grandi multinazionali, il commercio e il turismo internazionali e la diffusione a scala globale dei mezzi di comunicazione di massa controllati o influenzati direttamente o indirettamente dai Paesi occidentali favoriscono la cosiddetta “socializzazione anticipata” ai valori e ai modelli di comportamento delle aree più sviluppate: un processo che ancora nella prima fase delle migrazioni postbelliche era ritenuto possibile soltanto nel caso dei flussi interni a un Paese. Tale socializzazione, che stimola le migrazioni, risulta peraltro assai più facile, per dirla con quel noto sociologo (Robert K. Merton) che ne aveva introdotto il concetto negli anni ’50, per ciò che concerne le “mete” proposte che non i “mezzi” per perseguirle, con conseguente sviluppo di forme di devianza più o meno gravi e di vera e propria criminalità. La socializzazione anticipata è, del resto, stimolata anche dalla scolarizzazione di massa, d’impronta spesso occidentalizzante, che diffonde fra i giovani un’almeno elementare conoscenza delle più importanti lingue veicolari (l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese), che facilita le migrazioni. All’accresciuta distanza geografica fra i Paesi di emigrazione e i Paesi d’immigrazione non corrisponde così più necessariamente una maggior distanza culturale dei migranti, che va invece indagata caso per caso, analizzando situazioni complesse e contraddittorie, anche perché il processo di globalizzazione suscita a volte, tanto a livello di individui che di interi Paesi, reazioni profonde (fra cui rigurgiti integralisti e fondamentalisti, oggi presenti soprattutto, ma non solo, nelle aree a prevalente religione islamica, ove il fenomeno è ormai sin troppo evidente);
c) i contraddittori processi di sviluppo avviati nei Paesi di esodo dall’esportazione di attività produttive (che a lungo termine possono ridurre la propensione a emigrare, creando in loco maggiori possibilità di occupazione), sul breve e sul medio periodo più spesso concorrono a incrementarla, destrutturando almeno parzialmente l’organizzazione sociale esistente, con esiti a volte gravemente anomici;
d) la diffusione in tempo reale delle informazioni su opportunità di guadagno, sistemazioni abitative anche precarie, possibilità d’ingresso regolare o clandestino, tolleranza dell’irregolarità e della stessa criminalità, forme di accoglimento e di assistenza, regolarizzazioni straordinarie e sanatorie ecc., promuove le nuove migrazioni internazionali (va sottolineato in particolare l’effetto di richiamo delle ripetute sanatorie in alcuni Paesi, fra cui l’Italia, messo in luce da numerose ricerche e confermato dalle stesse dichiarazioni di molti immigrati);
e) l’accresciuta facilità degli spostamenti, grazie alla riduzione dei costi e dei rischi (almeno per i viaggi non gestiti dalle organizzazioni malavitose operanti nel settore delle migrazioni clandestine), consente reiterati tentativi migratori e rende possibili anche migrazioni temporanee un tempo impensabili, comprese quelle che si configurano di fatto come una forma anomala di frontalierato (fra cui, per esempio, parte di quelle che intercorrono fra i Paesi del Maghreb e i Paesi dell’Europa meridionale loro più vicini o meglio collegati, come la Spagna per il Marocco, l’Italia per la Tunisia e la Francia per l’Algeria);
f) la facilitazione delle rimesse monetarie anche illegali ai Paesi di origine, per via bancaria o attraverso le agenzie delle multinazionali specializzate in trasferimenti finanziari, ormai largamente presenti in quasi tutti i Paesi, costituisce un ulteriore incentivo alle migrazioni per motivi economici (nonché alle forme di criminalità predatoria, che vedono spesso coinvolti i migranti).
D’altra parte le migrazioni internazionali concorrono al processo di globalizzazione in vari modi. In particolare, queste migrazioni:
a) costituiscono una parziale alternativa all’esportazione della produzione in Paesi ove il costo del lavoro è minore o sostituiscono la funzione di tale esportazione in quelle attività in cui quest’ultima risulta difficile o addirittura impossibile (attività alberghiere e della ristorazione, turismo, servizi alla persona ecc.);
b) moltiplicano nei Paesi d’immigrazione l’offerta di beni e di servizi “esotici”: prodotti alimentari e medicinali, cucina, musica ecc., per tacere delle prestazioni sessuali (massaggi “orientali”, intrattenimenti erotici di varia natura, prostituzione vera e propria) da parte di donne sudamericane, nigeriane, tailandesi, cinesi, slave, albanesi ecc., di viados brasiliani e di altri Paesi sudamericani e anche di ragazzi maghrebini, rumeni, albanesi ecc.;
c) introducono nei Paesi d’immigrazione lingue, culture, religioni, usi e costumi diversi da quelli locali;
d) concorrono alla formazione di società multietniche, multiculturali, multilinguistiche e multireligiose nei Paesi d’immigrazione, con tutte le relative potenzialità positive (peraltro da non enfatizzare retoricamente), ma anche con tutte le intrinseche difficoltà (spesso negate ideologicamente o taciute o sottovalutate per malintesa “correttezza politica”);
e) stimolano il consumo di prodotti stranieri sia nei Paesi d’immigrazione che in quelli di emigrazione;
f) contribuiscono, con le rimesse degli emigrati, ad aumentare il potere di acquisto dei Paesi di emigrazione, concorrendo al loro inserimento nel mercato mondiale, con vantaggi e svantaggi;
g) diffondono nelle aree di origine degli immigrati, con il ritorno temporaneo o definitivo di questi, i modelli di vita e di consumo dei Paesi d’immigrazione, integrando l’azione dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità e del turismo. Di conseguenza le migrazioni internazionali concorrono in modo significativo a quell’omologazione culturale che costituisce uno dei più vistosi aspetti della globalizzazione.
Ciò mette in luce, fra l’altro, la contraddizione di quegli oppositori della globalizzazione che, mentre contestano la tendenziale convergenza dei valori e dei consumi a scapito della cosiddetta “autenticità” culturale, si pronunciano in favore di migrazioni internazionali illimitate, teorizzando non solo il “diritto di fuga” dei migranti dai loro Paesi (del resto già da molto tempo riconosciuto dalle organizzazioni internazionali, a partire dalle stesse Nazioni Unite), ma anche il loro “diritto di accesso” a qualsiasi Paese da loro desiderato, in nome di un superficiale “cosmopolitismo” ideologico insensibile alle conseguenze (tanto per i Paesi di approdo quanto per gli stessi migranti) di un’eventuale assoluta “libertà di movimento”, che porterebbe inevitabilmente a scenari drammatici, di cui già si sono manifestate molte avvisaglie.
In questo contesto il problema è, dunque, che fare. Da un lato, è indubbio che le immigrazioni comportano diversi benefici per i Paesi di accoglienza (a partire da quelli demografici ed economici). Dall’altro, sono ormai evidenti anche i rischi, in termini di sicurezza, come dimostrano i preoccupanti dati sulla criminalità degli immigrati e i gravi attentati, avvenuti in tutta Europa ad opera di immigrati o di figli d’immigrati, fra cui quelli eclatanti di Madrid (2004), di Londra (2005) e di Parigi (2015), per tacere delle violenze sessuali individuali e collettive, fra cui quelle di massa avvenute a Colonia (2016).
Fermare completamente l’immigrazione è difficile, per non dire impossibile, e non è neanche auspicabile. Ma sono necessarie politiche prudenti tanto nell’accoglienza dei migranti (che non può più essere indiscriminata) quanto nella gestione del fenomeno (che non può più essere lasciata prevalentemente in mano a pur meritevoli associazioni private). Il governo delle migrazioni dovrebbe essere a più livelli: locale, nazionale e internazionale. In parte lo è già, ma senza il necessario coordinamento. Emergono infatti divisioni e contraddizioni, a partire da quelle in seno alla stessa Unione Europea, che sembra essere entrata in crisi anche sotto l’effetto del recente incremento dell’immigrazione che dovrebbe contribuire a orientare e a governare.
In proposito è indispensabile distinguere davvero fra migranti con diritto al riconoscimento dello status di rifugiati o all’asilo per ragioni umanitarie e altri migranti. Ai primi dovrebbe essere assicurato un percorso sicuro, con “corridoi” tutelati e gestiti dalle organizzazioni internazionali, per evitare il ripetersi di quelle inaccettabili tragedie che hanno trasformato il Mediterraneo in uno sterminato cimitero. Qualcosa si è già cominciato a fare, ma è ancora troppo poco. Ai secondi dovrebbe essere assicurata un’accoglienza dignitosa o la possibilità di un ritorno protetto ai Paesi di origine. In ogni caso è in questi Paesi che si dovrebbe intervenire senza ulteriori ritardi, per favorire quel contenimento demografico e quell’equilibrato sviluppo che soli potranno ridurre il problema, almeno sul lungo periodo. Al di là delle reiterate “emergenze” (ovviamente da fronteggiare tempestivamente, nel modo dovuto), è a questo lungo periodo che si deve cominciare a guardare, per evitare gli errori del passato. Secondo tutte le previsioni formulate a livello internazionale da demografi, economisti e sociologi, le migrazioni, abbandonate all’andamento spontaneo, dovrebbero continuare infatti almeno sino alla fine del secolo da poco cominciato.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
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Umberto Melotti, ha insegnato Sociologia politica e Sociologia delle relazioni etniche all’Università di Roma “La Sapienza” e Sociologia delle migrazioni al Master presso lo “Scalabrini International Migration Institute”. Fra le sue numerose pubblicazioni: La nuova immigrazione a Milano (1985), Dal Terzo Mondo in Italia (1988), L’immigrazione: una sfida per l’Europa (1992), Etnicità, nazionalità e cittadinanza (1999), L’abbaglio multiculturale (2000), Migrazioni internazionali, globalizzazione e culture politiche (2004), Migrazioni e sicurezza. Criminalità, conflitti urbani, terrorismo (2011).
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