Stampa Articolo

Ripensare lo spazio liminale: fra la terra e l’acqua

Fucecchio, padule

Fucecchio, padule

CIP 

di Paolo Nardini 

«Le rappresentazioni e gli usi delle piante, degli animali e dei luoghi cosiddetti “selvatici” sono costitutivi della nostra cultura, allo stesso modo delle conoscenze legate ad un ambiente “addomesticato” (vigneti, orti)» (Exergo, Terrain n. 6, 1986).

La didattica della palude

Le zone paludose svolgono una funzione ecologica fondamentale perché fungono da regolatori del flusso delle acque. Trattengono l’acqua che, se fosse incanalata defluirebbe verso altre zone, lasciando secco il terreno. L’ambiente palustre invece contiene l’acqua, ne costituisce una sorta di riserva. Un altro aspetto della palude è che accoglie una particolare flora e una particolare fauna, specie che non sempre si adattano a un ambiente completamente asciutto. La conoscenza di quella flora e di quella fauna ha consentito alle popolazioni che vivono nei villaggi limitrofi alla palude, di ricavare da essa le sostanze necessarie alla propria sopravvivenza. Se l’acquitrino non costituisce più da secoli una barriera a protezione degli umani dall’assalto delle belve feroci, com’era nel caso degli insediamenti palafitticoli di preistorica memoria (oltre cento villaggi si svilupparono fra il neolitico e l’età del bronzo, nell’arco alpino e nelle zone limitrofe), in epoca recente la presenza di villaggi intorno alle zone paludose sono un indice della risorsa che la palude a lungo ha rappresentato.

Chi si avvicina oggi alle zone acquitrinose resta affascinato dalla presenza di stormi spettacolari di uccelli migratori, ammira la presenza e i colori delle piante, cangianti di stagione in stagione. Ma una ricerca più approfondita sulle attività che si svolgevano fra l’acqua e la terra fino a pochi decenni addietro, svela forme organizzative della vita sociale che il recente progresso ha cancellato. La conoscenza della natura, delle sue presenze, delle caratteristiche delle piante e le abitudini degli animali che ci vivono, ci svela un mondo del tutto inaspettato. Ci rivela modi di condurre il lavoro secondo forme alternative, che offrono l’incontestabile vantaggio di mantenere in costante contatto con la natura.

Pensare la palude quindi vuol dire anche pensare alternativamente, considerare la possibilità di una relazione con la terra e con l’acqua che non sia conflittuale, ma garantisca un rapporto di rispetto. L’eliminazione della maggior parte delle zone palustri attraverso le imponenti opere di bonifica attuate in prevalenza nel secolo scorso, ha guadagnato terreno da dedicare all’agricoltura, offrendo la possibilità di nuovi insediamenti, ma allo stesso tempo ha impoverito l’ambiente, livellando il terreno e anche la conoscenza. Sembra sia sorta, a cominciare dal Settecento, una “civiltà della bonifica”, interessata soprattutto a «favorire la vocazione rurale del territorio, la produzione di cereali e la civilizzazione agraria, piuttosto che a conservare sistemi alternativi di sfruttamento del paesaggio, di solito basati su antiche pratiche collettive» (Zagli 2006: 83).

L’aspetto ecologico non è di secondaria importanza: la modificazione artificiosa di uno o di pochi elementi dell’ambiente naturale da parte dell’uomo, nella maggior parte dei casi non ne provoca il collasso, perché la natura ha la grande capacità di adattarsi. Finché non si raggiunge il punto di rottura: allora avviene il crollo improvviso con le conseguenze che sono nella cronaca odierna. Vediamo ormai di frequente gli effetti del disboscamento delle aree collinari e montane, dell’imbrigliamento dei corsi d’acqua, dell’asfaltizzazione e della cementificazione selvaggia dei decenni passati.

Allora la palude, con la sua storia, con le sue persone, i suoi lavori, ci insegna la convivenza rispettosa dell’ambiente, in un rapporto non sbilanciato di prendere e dare. 

41586_2022_5572_fig1_htmlRecentemente si è riconosciuta l’importanza delle zone umide per l’equilibrio ecologico. Queste aree, «paludi, acquitrini, torbiere e specchi d’acqua naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua stagnante o corrente, dolce, salmastra o salata, incluse quelle fasce marine costiere la cui profondità, in condizioni di bassa marea, non superi i sei metri» [1], costituiscono una sorta di “polmone idrico”, sono in grado, cioè, di rilasciare umidità nell’ambiente nei periodi di siccità, e di assorbire una enorme quantità di acqua, in caso di forti precipitazioni, preservando l’ambiente circostante dalle inondazioni. Un ettaro di zona umida può assorbire fino a novemila metri cubi di acqua. Secondo i dati elaborati nel 2023 dalla rivista Nature [2], negli ultimi tre secoli sarebbero andati distrutti nel mondo quasi tre milioni e mezzo di chilometri quadrati di aree umide. L’Italia fa parte del gruppo di Paesi in cui le aree umide sono state maggiormente distrutte: è al quinto posto nella classifica dei paesi che hanno maggiormente convertito le zone umide [3]. Si stima che il crescente consumo di suolo è dovuto alla sua trasformazione per scopi agricoli e alla costruzione di infrastrutture. Anche alcune specie animali invasive possono danneggiare o distruggere gli habitat, come i castori e le nutrie, che divorano le piante che trattengono il terreno.

La palude, allo stesso modo delle foreste, i ghiacciai, i laghi, i fiumi e le loro foci, aspetti della natura e della cultura, perché modificati dall’uomo, con la loro storia, con le persone, le attività, e con il ruolo che svolgono nell’equilibrio ecologico globale, garantiscono la biodiversità; ci insegnano la convivenza rispettosa dell’ambiente, in un rapporto non sbilanciato di prendere e dare. La consapevolezza che il genere umano non è il padrone della Terra, ma solo uno degli ospiti, come tutti gli altri esseri viventi, animali, vegetali e perfino minerali, con cui dovremmo imparare a convivere, si sta diffondendo, per quanto ci sia ancora molta strada da fare. Questa consapevolezza è un dato antropologico, che le scienze umane hanno il compito di registrare e possibilmente di propagare a sempre più ampi strati della socialità. Allora può essere utile osservare il recente passato, metterlo in relazione con il presente, pensare a un futuro possibile.

Le attività che si svolgevano fino a un recente passato nella palude, oggi non sono più praticabili. Ma nel rapporto fra le comunità e la natura c’era un equilibrio, una forma di rispetto, forse obbligato dalle condizioni ambientali e dello sviluppo tecnologico. Se con il progresso degli ultimi decenni questo equilibrio si è rotto, allora è necessario cercare di ripristinarlo, o quanto meno di arrestare i processi distruttivi. La stessa socialità si è andata modificando, accentrando le persone nelle città e lasciando spopolati i piccoli centri. Anomia, stress, inquinamento, malattie fisiche e psichiche ne sono spesso il risultato. Forse la politica dovrebbe focalizzare sulla valorizzazione dei piccoli centri, rimasti spopolati anche a causa della riduzione dei servizi. Ma è un cane che si morde la coda: togli i servizi (scuole, servizi per l’infanzia, trasporti, ufficio postale, sportello bancario, fra i principali) e quindi la gente se ne va; i paesi sono meno popolati, e quindi riduci ulteriormente i servizi.

I piccoli centri sono un patrimonio, non solo di architettura “popolare” che si va sgretolando, se lasciata inabitata, ma sono un patrimonio anche di possibilità umane, di relazione, di vicinanza. In questo periodo di squilibri globali e di esodi biblici, sono gli immigrati che rivitalizzano i piccoli centri, che ripristinano un rapporto con la natura (si pensi ad esempio ai tanti lavoratori del bosco venuti dai vicini paesi dell’est, o a quelli giunti dall’altra sponda del Mediterraneo, impegnati nei lavori agricoli).

Una breve storia della bonifica

La bonifica della palude che occupava il terreno fra Castiglione della Pescaia e Grosseto è avvenuta in tempi diversi, a cominciare dalla metà del Settecento, attraverso il sistema delle colmate: l’acqua dell’Ombrone, estremamente ricca di sedimenti in sospensione, veniva dirottata a est di Grosseto, attraverso la cosiddetta “steccaia”, verso la palude, dove era stata predisposta una cassa racchiusa da argini. Riempita la cassa dell’acqua limacciosa del fiume, e atteso il tempo necessario perché i sedimenti precipitassero, l’acqua veniva fatta defluire attraverso un reticolo di canali. A ognuno di questi passaggi il suolo si innalzava.

All’inizio delle bonifiche lorenesi, nel 1765, iniziò la costruzione della Casa Rossa, o Casa Ximenes, progettata dal gesuita ingegnere idraulico Leonardo Ximenes, su commissione del granduca Pietro Leopoldo di Lorena, per la regimazione delle acque attraverso un sistema di cataratte. Poiché sembrava che il progetto idraulico di Ximenes non funzionasse, il gesuita fu allontanato nel 1781, e dopo la parentesi del dominio francese, il restaurato governo lorenese, Leopoldo II nel 1826 incaricò l’ingegnere idraulico Gaetano Giorgini della costruzione di un ponte sulla fiumara di Castiglione che evitasse la miscela delle acque dolci e salate, ritenuta in quel tempo la causa principale della malaria. Il ponte fu dotato di tre cateratte che impedivano l’entrata dell’acqua dal mare in palude, lasciando però fluire quella stagnante verso il mare. Dopo un periodo di incuria successivo all’unità d’Italia, la bonifica della palude riprese negli anni Venti, abbandonando l’antico sistema della colmata, ritenuto troppo lento, e adottando il sistema dello scolo naturale e meccanico tramite idrovore. Con la riforma agraria degli anni Cinquanta la bonifica fu completata dall’Ente Maremma, con la conseguente assegnazione dei poderi e delle terre non appoderate alle cooperative.

81bl-dzjanl-_ac_uf10001000_ql80_L’uomo e l’ambiente

A cominciare dalla metà del secolo scorso si è consolidato l’interesse per i saperi popolari e i sistemi “indigeni” di classificazione. Si è imposto, sostituendo una visione dall’esterno, uno sguardo emico, nel tentativo di chiarire come gli uomini classificano, ordinano, percepiscono e utilizzano il mondo che li circonda. L’analisi delle classificazioni e delle categorie che emergono dai nomi degli oggetti, delle piante, degli animali, mostra come accanto alla classificazione ufficiale, esista una classificazione funzionale all’uso, all’utilità, alla conoscenza, alla maggiore o minore distanza, sia in termini di spazio che concettuale, fra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Diversi ordini logici possono determinare la comparsa di altrettanti sistemi classificatori: l’identificazione, le modalità d’uso, un ordine simbolico. Gli oggetti sono inseriti in insiemi sulla base della loro forma, oppure in base alle proprietà funzionali. Pur trovandoci, allo stato attuale, di fronte a sistemi di classificazione ibridi, che raccolgono allo stesso tempo una classificazione scientifica insieme a quel poco che resta dei saperi popolari, è ancora possibile recuperare, almeno in parte, l’equivalente indigeno della classificazione linneiana. 

L’acqua sulla terra

Le aree palustri costituiscono un luogo intermedio fra zona umida e asciutta, fra ambiente di lavoro e di svago, fra luogo di aggregazione e di fuga, fra terreno sterile e risorsa produttiva. Le zone umide, la cui importanza per l’equilibrio dell’ecosistema è sancita dalla convenzione internazionale di Ramsar [4], non sono mai elementi isolati e deserti, ma frequentati soprattutto per attività produttive. L’acqua, bene comune naturale ed elemento senza il quale la vita non sarebbe possibile, ha rappresentato un oggetto di riflessione importante, tanto in epoca storica che nella modernità. In Toscana le testimonianze sono numerose. Si pensi, ad esempio, fra le più antiche, al sistema di raccolta e captazione documentato a Murlo (Siena), di cui oggi è visibile un sistema di gocciolatoi e canali, che risale al VII-VI secolo a.C. Ancora in provincia di Siena, a Chiusi, che deve il nome alla sua posizione, essendo circondata da tre parti dalle acque palustri, in epoca etrusca l’acqua del laghetto sotterraneo filtrata da metri di tufo, fu ingegnosamente carpita grazie a un sistema di cunicoli di varie dimensioni, pozzi e cisterne, noto come “il labirinto di Porsenna”, perché tradizionalmente identificato con il monumentale leggendario sepolcro descritto da Plinio il Vecchio [5].

Ecomuseo del Casentino

Ecomuseo del Casentino

La presenza di mulini, ferriere e gualchiere nell’alta valle dell’Arno, documentata dall’Ecomuseo del Casentino (Arezzo), testimonia la conoscenza della rete idrica incentrata sul corso dell’Arno e dei suoi affluenti. A Buti, in provincia di Pisa, il Museo del Maggio è allestito all’interno di un ex frantoio a ruota verticale mossa dall’acqua in caduta, a dimostrazione sia della ricchezza di acqua di quel territorio, che del rapporto fra le attività produttive e quelle tradizionali [6]. Ancora in provincia di Pisa, a Calci, il sistema idrico che, posto a ridosso della Certosa fondata nel XIV secolo, collega le sorgenti situate sul colle di nord-ovest, con vasche e canalizzazioni sotterranee e a cielo aperto, testimonia dello stretto legame dell’acqua con la vita e l’economia. È inoltre da ricordare, a Santa Fiora (in provincia di Grosseto), la Peschiera, la grande vasca di epoca rinascimentale che raccoglie le acque delle antiche sorgenti del fiume Fiora. Intorno agli anni trenta del Novecento fu iniziata la costruzione dell’acquedotto del Fiora, per far fronte al crescente fabbisogno di acqua dovuto all’incremento demografico che si verificò nelle zone pianeggianti e costiere del grossetano, in seguito alle opere di bonifica e all’eliminazione del rischio di contrarre la malaria.

Fra le studiose e studiosi che, in Italia, si occupano dell’acqua dal punto di vista antropologico Nadia Breda, esaminando le zone liminali fra l’acqua e il terreno asciutto, individua l’esistenza di zone che non sono né asciutte né molli, ma presentano vari gradi di umidità e asciuttezza, con piante che allo stesso tempo sono igrofile e xerofile (Clemente-Breda, 1999). L’autrice affronta anche il tema dell’acqua e della sua conoscenza da un punto di vista emozionale, un aspetto ancora poco esplorato, analizzando i saperi manuali, tecnici, naturalistici, delle paludi venete (Breda, 2000). Si tratta di saperi sviluppati all’interno di una economia fragile, marginali ma importanti per l’esistenza delle comunità. Altrove Breda si interroga sul significato dei paesaggi palustri in Veneto, sul senso dell’identità inquietante di queste paludi (Breda, 2001). Si tratta di un ambiente ricco di dotazioni naturali, ma anche fortemente antropizzato, in cui la pratica della coltivazione dei prati e della regimazione delle risorgive fa riferimento a saperi che attraversano la storia degli uomini, dalla preistoria al medioevo ai giorni nostri. In ultimo, ma non meno importante, Breda affronta l’argomento dei manufatti dentro la palude, dai rispettosi selciati ai progetti, meno rispettosi, di cementificazione e asfaltizzazione dell’ambiente umido. Il paradosso, sottolinea l’autrice, è che la palude veneta del nord-ovest è addirittura difficile da vedere, da percepire, perciò difficile anche da tutelare nei confronti del cemento e dell’asfalto. 

copertina-del-libro-la-casa-rossaLa ricerca

La ricerca sui saperi e le attività intorno alla palude di Castiglione della Pescaia, in provincia di Grosseto, realizzata negli anni 1998-99, è un esempio di proposta di analisi critica della società in trasformazione, che ha portato alla luce modalità di rapportarsi all’ambiente naturale, e di intrattenere rapporti di carattere sociale, di cui nel tempo si è affievolita la memoria. Lo scopo immediato dell’iniziativa era triplice: allestire una mostra sui saperi e le pratiche intorno alla palude, pubblicare un libro che riassumesse la ricerca svolta, girare un filmato documentario dell’ambiente palustre. Una delle problematiche emerse, dal punto di vista delle pratiche di rappresentazione, fu la divergenza dei percorsi: pensare alla mostra imponeva una concentrazione sugli elementi da esporre, sulla loro documentazione, reperimento e possibilità espositiva, sulla ricerca delle modalità di rappresentazione dello spazio, dei manufatti e delle costruzioni intorno e dentro alla palude; pensare alla ricerca, invece, ci consentiva un’operazione di più ampio respiro, una riflessione, innanzi tutto, su quale fosse la storia e la funzione della palude nella civiltà.

Questa riflessione avvicinava a una analisi delle coscienze e delle convinzioni di chi nell’arco del tempo ha contribuito a indirizzare la politica territoriale intorno alla palude. Suggeriva campi di ricerca non ancora esplorati, connessioni non ancora evidenziate, ad esempio intorno al problema delle attività venatorie e della gestione del territorio. Anche lo sfondo dell’immaginario e della rappresentazione si prospettava come fecondo di spunti di ulteriore riflessione: il problema del genere, ad esempio, sia nel senso della distinzione dei ruoli nelle attività produttive che si svolgevano dentro alla palude, sia in quello della rappresentazione dell’ambiente e dei suoi elementi, degli animali e delle piante, in un orizzonte antropologico molto ricco.

Le fasi

Lo svolgimento della ricerca metteva in evidenza l’importanza, e anche la necessità, della raccolta delle informazioni attraverso l’oralità, dato che ormai quelle attività produttive all’interno della palude non erano più praticate, e di quei saperi non restava che qualche ricordo. Dai rilevamenti emerse che le piante raccolte nella palude, nella tradizione popolare non si distinguono in base alla classificazione scientifica, ma in “piante maschio” e “piante femmina”, piante che sono “buone d’inverno” e altre che sono “buone d’estate”, quelle che crescono all’asciutto e quelle che hanno bisogno di un terreno sommerso dall’acqua, quelle che si sviluppano in acqua dolce e altre che invece per vivere hanno bisogno di un ambiente salmastro. Quelle infine, come la cannuccia palustre, che mutano le proprie caratteristiche a seconda che siano radicate in terreno sommerso da acqua salmastra o da acqua dolce, oppure all’asciutto. Questo aspetto dell’attribuzione del genere alle piante nella cultura popolare, come quello della differente bontà a seconda del diverso ambiente di radicamento, emergeva attraverso i racconti della vita e del lavoro degli abitanti delle località intorno alla palude. Così come ci sono piante da eliminare, con la falce o altri mezzi meccanici, oppure con il fuoco, e altre piante da mantenere in vita, perché benefiche per l’ambiente e per la vita stessa della palude, oltre che utili per l’uomo.

La ricerca metteva in evidenza anche le diverse modalità di svolgimento delle attività produttive intorno alla palude. E l’immagine primitiva, un po’ romantica di un “padule selvaggio e disabitato”, si dissolse, a favore di un ambiente pieno di gente che svolgeva le più disparate attività, ricorrendo a specifici saperi e competenze. La caccia, ad esempio, costituiva una fonte di integrazione delle risorse familiari per gli abitanti dei luoghi d’intorno. Molti, infatti, nei mesi invernali, cacciavano per mezzo di insidie, trappole, petraccole, pènere, che costruivano da sé, a partire dalla materia che la natura offriva spontaneamente: lunghi crini di cavallo, pietre dalla particolare conformazione, pezzetti di legno abilmente modellati, richiami costruiti con bacche cave o con i bossoli delle cartucce esplose. Ma non era sufficiente saper costruire una petraccola o una pènera: per poterli catturare era necessario conoscere le abitudini degli animali, i loro percorsi. Sapere la loro statura, la loro forza, per dimensionare la trappola. La caccia costituiva anche una fonte indiretta di reddito: i titolari delle postazioni fisse posizionate nell’acquitrino e nei chiari, le cosiddette “botti”, cedevano temporaneamente il loro diritto ai ricchi villeggianti provenienti dal nord della Toscana che trascorrevano qualche settimana in Maremma, durante l’inverno [7]. Qualche volta ospitavano questi cacciatori, da soli o con le famiglie, nelle proprie abitazioni, provvedevano ad accompagnarli alla postazione di caccia, con il barchino (l’apposita imbarcazione dalla forma particolare a fondo piatto, adatto al fondale basso dei canali e dei chiari), per tornare a riprenderli a sera. Per alcune di queste famiglie ospitanti, l’attività è diventata, col tempo, una professione: la casa si è trasformata in un piccolo albergo.

 cacciatori e barcaioli di ritorno dalle botti - anni 50 foto Folco Magagnini.jpg>

Cacciatori e barcaioli di ritorno dalle botti – anni 50 (ph. Folco Magagnini)

Anche la raccolta delle erbe palustri si presenta come una attività dalla complessa articolazione. Si dovevano conoscere le proprietà delle erbe per poterle raccogliere e utilizzare. Lo scarzolo, ad esempio, che è una pianta particolarmente impermeabile, veniva raccolta per essere utilizzata nella copertura delle capanne e dei grandi fienili del Centro Allevamento e Addestramento Quadrupedi dell’Esercito, situato ai bordi della palude. La cannuccia è la pianta che più di tutte presenta una molteplicità di caratteristiche a seconda delle diverse condizioni ambientali e del periodo stagionale, che si intersecano con le differenti modalità d’impiego. A primavera, prima della sfioritura, quando il pennacchio è particolarmente morbido, venivano raccolte le punte, utilizzate per la fabbricazione degli scopetti per spolverare negli ambienti domestici.

La raccolta costituiva una attività di carattere individuale: ognuno, tornando a casa dai campi, o in altra occasione, raccoglieva le punte delle cannucce più belle che crescevano sui bordi delle strade o sugli argini dei canali, ne faceva un fascio e lo portava a un commerciante che glielo pagava in base al peso. Gli “spazzolini” dovevano avere una determinata lunghezza, altrimenti venivano scartati, ed era tutto lavoro sprecato. Il commerciante, quando ne aveva raccolta una adeguata quantità, la spediva per mezzo di autocarri alle fabbriche del nord-Italia. Sempre la cannuccia veniva raccolta per la costruzione delle stuoie utilizzate dalle fornaci di laterizi. Si trattava delle piante che crescevano all’asciutto. Un altro scopo della raccolta della cannuccia era la costruzione delle arelle (paratie per delimitare zone di pesca in laguna) per la pesca dell’anguilla nella laguna di Orbetello. In questo caso venivano raccolte dall’ambiente umido.

Del tutto differente era la raccolta della paglia palustre. I prati, sommersi dall’acqua nel periodo delle piogge, dall’autunno alla primavera, dove cresceva quest’erba, venivano concessi anno per anno a un impresario, che provvedeva ad ingaggiare il personale (soprattutto donne) che si occupavano della raccolta. La paglia veniva caricata su un carro e trasportata al magazzino. Da qui, una volta ultimata la stagione di raccolta, veniva inviata alle cartiere, dove attraverso un processo di macerazione veniva trasformata in carta (la cosiddetta “carta-paglia”) e alle vetrerie (che la utilizzavano per il rivestimento dei contenitori in vetro), per mezzo di convogli ferroviari.

La palude rappresentava una risorsa importante per la gente del posto: bastava un po’ di intraprendenza per poter raccogliere qualcosa da proporre ai commercianti e ottenere un minimo ma prezioso compenso. C’era chi vi raccoglieva la pianta dalla quale si estrae la liquirizia, chi raccoglieva piante utilizzate nella farmacopea per l’estrazione di principi medicamentosi, chi gli steli giovani della carice per l’impagliatura delle sedie, chi l’infiorescenza (il pennacchio) utilizzato per l’imbottitura delle poltrone. Una particolare figura di lavoratore della palude raccoglieva le “mignatte”: le sanguisughe utilizzate in medicina per i salassi, che un tempo, grazie alla purezza dell’acqua, erano numerose.

Il venditore di mignatte, circa 1900 (ph. Adolfo Denci)

Le interviste

Fra gli intervistati, Valentino era un raccoglitore di cannucce e artigiano esperto nella costruzione di stuoie e di tettoie per i capanni. Durante l’intervista emerse che l’interlocutore era stato un animatore delle lotte per l’assegnazione delle terre bonificate, nel secondo dopoguerra. Con l’emanazione del Decreto Gullo [8], le vaste aree incolte o mal coltivate nella provincia di Grosseto fornirono un incentivo alla formazione di nuove cooperative di lavoro, e tutto il territorio provinciale, dalla montagna alla pianura litoranea vide il proliferare della forma associativa. Nella palude di Castiglione della Pescaia gli associati alle cooperative occupavano le terre incolte. All’occupazione seguiva l’intervento della polizia, per liberare dall’occupazione i terreni demaniali e le proprietà private. Alcuni occupanti furono arrestati e processati. Ma successivamente le terre venivano occupate di nuovo, e il ciclo riprendeva da capo. Finché, con la riforma fondiaria del 1952 [9] in una parte della palude furono costruite le case per i contadini, il terreno suddiviso in poderi concessi in proprietà (a riscatto trentennale) ai contadini stessi, mentre un’altra parte fu assegnata in concessione alle cooperative che si erano costituire nei paesi limitrofi.

Badilanti

Badilanti

Giacomo è nato in un podere ai margini della palude nel 1935. Suo padre era commerciante di prodotti palustri: acquistava dai vari raccoglitori le cannucce per le stuoie o per le arelle da pesca, oppure i pennacchi per la costruzione degli scopetti, per poi inviare questi prodotti in grossi quantitativi agli stabilimenti di trasformazione. Egli ha narrato la propria esperienza di vita in una famiglia numerosa, in cui tutti, grandi e bambini, in estate, avanti giorno, si recavano a raccogliere le cannucce o la paglia palustre, sempre immersi nell’acqua, con le sanguisughe che succhiavano il sangue sott’acqua, e le zanzare che lo facevano sopra. 

Ada, nata nel 1914, ha iniziato a lavorare nella palude alla fine degli anni venti del Novecento. Abitava all’Ampio, una località della bassa collina ai margini della palude; aveva lavorato come raccoglitrice di paglia. Racconta:

“Noi s’andava, si faceva queste manne, si tagliava col falcino, poi si faceva queste manne, così e si legavano e poi si buttavano lì in tera, poi quest’òmo, veniva il camio, veniva i barocci via allora”.

Ma come, quando?

“Eh, di luglio, di agosto in questi periodi caldi […] dalla mattina presto, s’andava in padule, poi si faceva questo lavoro”.

Ma che anni erano?

“Eh, ‘un me lo ricordo, ho ottantaquattr’anni che vole che mi ricordi! Allora ne avevo dodici”.

Caretta

Caretta

Paolino abitava a Buriano, era stato presidente della cooperativa terrazzieri, per lo svolgimento delle opere di bonifica, poi gestore del negozio di prodotti alimentari che la stessa cooperativa aveva aperto in paese. Paolino è piccolo di statura, ha l’aspetto di un uomo che la vita se l’è sudata tutta: è asciutto, ha la pelle raggrinzita. Parla della cattura degli uccelli palustri con le insidie:

“In padule le metteveno pe’ ruspo, c’era una beccaccia andava a ruspo, c’era un fagiano andava a ruspo […] A ruspo vol dì che cammini per terra e ruspi un pochino … e quelli trovavano per la su’ strada, trovavano questa pènera fatta di quattro anelli, ma non era la pènera del tordo, la pènera del tordo con cinque, con cinque filetti di cavallo si prillava e si faceva e invece quell’altra ce ne voleva dodici, tredici perché era più forte e l’animale che ci andava era più forte e la strappava”.

Poi racconta l’attività che sente più sua, quella di badilante con la cooperativa terrazzieri:

“Sì che si faceva noi, si pintava la caretta, si levava la terra dai fiumi, dai fiumi si levava si metteva i tavoloni e poi si camminava tutti su questo filo di tavoloni, poi quando si arrivava giù, allo scarico, si scaricava, si tornava a marcia indietro, la caretta di dietro e noi davanti. Poi si faceva la barella, la barella quella barella che c’è giù, du’ pezzi di legno davanti e di dietro, si piena, dove ‘n si pole andà co’ la caretta, con quella lì si deve andà”.

La palude rappresentava il luogo della fuga, ma anche una sorta di luogo franco, fuori da ogni giurisdizione, all’interno del quale nemmeno la giustizia era in grado di arrivare.

“Le Galere, so’ chiamate le Galere, c’è un fosso chiamato Montalcino, capito? Ora te lo faccio vedé di qui [indica un punto in una fotografia panoramica], si vede, Montalcino e chi era, a te t’avevano chiappato i banditi, eri riuscito a scappà e saltavi questo fosso, quando eri di là e chi t’ha visto t’ha visto, non ti facevano più niente, via. C’era un termine, hai capito? Dietro questo Montalcino, questo fosso, partiva di quassù verso Braccagni e andava al Deposito, alla Molla, qui e insomma succedeva così, niente via ti facevano”.

Quando Paolino era presidente la sua cooperativa ottenne la commessa di bonificare il fosso Salica, che scorre nei pressi di Roselle. Non fu un’esperienza positiva, perché lì il terreno è roccioso, il lavoro non procedeva come nel terreno argilloso, dove sì, è faticoso portare la terra in alto, ma almeno non si tratta di roccia da far esplodere con la dinamite. Forse questa fu la causa della divisione della cooperativa: alcuni soci restarono, mentre altri si staccarono e ne fondarono una nuova.

“Il fosso della fame chiamato, il fosso di Roselle, c’è un fosso noi gli si diede nome fosso della fame, perché era tutto sassi, si faceva le mine, s’andava alle Galere, no alle Galere, alla Polveriera qui, sopra a Braccagni a piglià il tritolo questa roba qui. Là si divise, era una coperativa unica qui a Buriano, la Terrazzieri, si chiamava, noi si rimase co’ la Terrazzieri e gli altri andiedero co’ la Libera, la chiamonno la Libera”.

Raccolta di erbe palustri

Albano di Tirli (GR) viene da una famiglia di impresari della raccolta della paglia palustre.

“I lavori, il mi’ nonno prendeva l’estate, un so’ dall’Intendenza, il coso, davano i lotti all’asta, presepio […] L’asta non lo so’ perché i lavori iniziavano di giugno quando cominciava a ritirassi l’acqua. […] Sì, l’estate, sempre l’estate quando gli toccava i lotti, ma ci so’ sempre toccati, perché lui ha sempre fatto quel lavoro lì, d’inverno co’ la caccia e l’estate faceva il padule”.

L’annata del vecchio nonno di Albano si divideva in due parti: la caccia durante l’inverno e la raccolta della paglia palustre in estate. Del resto, questa non è l’unica fonte ad attestare che le risorse dei tirlesi si limitavano a questo e poco più.

Anche Paolino aveva conosciuto l’impresario di Tirli:

“[…] questo qui di Tirli […] ci concorrevano loro all’asta, quando c’era l’asta pe’ piglià Raspollino piccolo, noi si chiamava, e Raspollino grande c’è. Loro pigliavano Raspollino piccolo, prima lo giraveno e vedeveno su per giù quanti quintali ci poteva èsse di paglia, poi diceveno: – Qui c’è cento quintali di paglia a cento lire, ti do dieci lire lire – e quell’altro diceva: -Io invece di datti dieci lire ti do undici …– E con questo qui chi vinceva la gara […], chiamava le donne, non chiamava l’òmini, eh, chiamava le donne”.

Per la sua posizione di paese più prossimo alla palude, Buriano era il luogo dal quale più facilmente gli operai della cooperativa terrazzieri si dedicavano ai lavori di bonifica, insieme a quelli di Castiglione della Pescaia, di Grosseto. Continua Paolino:

“La bonifica perché l’ha fatta, l’ha fatta parecchio [gli abitanti di Buriano], Vetulonia era troppo distante, e a piedi ‘un ce la poteva fa’ a andà”.

E a proposito degli abitanti di Tirli, dice:

“Tirli per l’amor di Dio! Tirli poi campavano col sughero, co’ merli, co’ tordi, con questa roba qui, co’ le castagne, ma noi qui le castagne un ci s’hanno, il sughero un c’è, bisognava andà fino a Macchiascandona, s’andava a piedi, si lavorava fino alle 3, le 4, dopo si ripigliava su”.

Il vecchio impresario di Tirli, secondo la testimonianza del nipote Albano, si occupava esclusivamente della raccolta della paglia palustre da inviare alle vetrerie, che la utilizzavano per il rivestimento dei fiaschi.

“Ma io penso rinvestissero i fiaschi, non lo so, io penso i fiaschi ci rinvestissero, poi ci facevano anche altri lavori, ma io quello non lo so”.

E parlando del nonno impresario:

“Lui faceva esclusivamente, esclusivo la paglia, magari c’erano anche altri che facevano il giunco, facevano il biodolo, il biodolo quello che fa quei bischeri, quello si chiama biodolo, ma no quello che fa il bischero non è bono perché è maschio, quello femmina che era più tenero ci facevano le borse, ci facevano quella roba così, l’ho fatto anch’io quello, non so’ che dì”.

È un’attività alla quale lui stesso ha partecipato, da ragazzo, ma ne riferisce come una memoria lontana. Troppo forte è stato il cambiamento dalla sua giovinezza, perché percepisca ancora vicine, benché solo nella memoria, quelle attività. Eppure, nel parlare emerge il ricordo, e se è difficile ricostruire i processi più complessi, le forme organizzative, le reti di relazioni del nonno impresario, pian pianino affiorano i ricordi dei gesti:

“A volte, secondo come si prestava, a volte la facevano e la pulivano, perché questa paglia al piede cià la calza. Lo sporco, quando nasce, quando nasce, poi viene su, sviluppa e viene alta, quella più piccola che more […]  Resta attaccata, secca, resta attaccata, andava pulita, perché allora quando aveva fatto il manciato la donna, si chiappava in cima e bruuuuu e così e la metteva lì, e quando aveva fatto la manna tutta stesa, passava l’omo e la legava. Sempre co’ la paglia. Co’ la paglia sotto la legava, ci faceva il nodo e stendeva la manna, la buttava in terra, in cima un po’ di salicchio, un po’ di cannuccia che restasse, che restasse [sollevata]. E la spargeva così, perché quella era un’arte, èh! La chiappavano, pam bum, veniva tutta una rota […] Un ventaglio, e seccava, poi […] Dov’è fino veniva legato, la chiappavano così, la rizzavano e poi pam, gli davano il colpo co’ la mano, brrrrr faceva”.

Canale di bonifica

Anche Anastasio è stato presidente della cooperativa dei terrazzieri di Buriano, la cosiddetta “cooperativa rossa”, quella sopravvissuta alla scissione successiva all’esperienza del “fosso della fame” di Roselle. Anastasio parla della cooperativa, la cui fondazione risale ai primi anni del Novecento, elencando i presidenti che si sono succeduti, a cominciare da prima della seconda guerra.

“Questa è rimasta quella originale, questa è originale, da questa coperativa si staccò un gruppo, che era chiamata, perché si distingueva, “coperativa bianca” e “coperativa rossa”, questa era la “coperativa rossa” e quella che si staccò subito dopo guerra era la “coperativa bianca”, le fazioni quelle che erano, fecero confusione”.

Poi elenca luoghi in cui la sua cooperativa ha operato: Pian di Rocca, Pian d’Alma, oltre naturalmente alla palude di Castiglione della Pescaia. Per passare a riepilogare le vicende dell’assegnazione delle terre.

“[…] questa coperativa quando andò a conquistà le terre nel quarantasei, quarantasette, eccetera, andarono come coperativa, non è che si assegnarono io Anastasio du’ ettari, te un ettaro, lui un altro ettaro e mezzo eccetera eccetera questa coperativa andò, conquistò questa terra, la bonificò e l’assegnò alla coperativa Agricola Badilanti, tutti pari, e riconosciuta […]”.

A differenza di altri agricoltori, che ottennero assegnazioni individuali, la loro fu una azione collettiva, tesa a ottenere la terra “a nome della cooperativa”, e non dei singoli. Anche se oggi la funzione non è più quella delle origini: lo scopo della cooperativa non è più quello di far lavorare i soci, ma di ottenere una integrazione della pensione.

“[…] perché ora onestamente detto fra noi non è più una coperativa nel vero senso della parola, cioè non c’è più una persona che lavora, che vive in questa coperativa, oggi è diventata esclusivamente un’integrazione a quei pensionati che hanno sette, ottocento milalire al mese […]”.

Oggi la cooperativa, per i soci, non rappresenta più una reale fonte di reddito da lavoro, quanto un modo di rappresentare se stessi, la propria storia. L’essenza attuale della cooperativa è infatti costituita non più dal fattore economico, ma dall’aspetto socializzante e autorappresentativo. I soci si identificano nella cooperativa, che rappresenta per loro l’accesso a quella terra che loro stessi, e i loro vecchi, a volte a costo della vita, hanno strappato all’acqua. Quella terra è loro, perché loro l’hanno bonificata, l’hanno sollevata e spostata, dal basso all’alto, zolla per zolla; l’hanno calpestata e percorsa, amata e odiata, ne hanno conosciuto il gelo umido dell’inverno ed il caldo afoso dell’estate, ne hanno ascoltato i suoni e riprodotti nei richiami per i suoi uccelli. Ogni anno, il primo di maggio, la cooperativa si riunisce per una festa collettiva: viene offerto cibo e bevande. Vi partecipano i soci con le loro famiglie, vengono invitati anche gli amici, e chiunque si presenti è il benvenuto. È un momento conviviale di grande importanza, dove si incontrano gli anziani soci fra di loro e con i giovani. E intanto che consumano i panini con i salumi e il vino che viene offerto, parlano fra di loro, si rinfocolano le vecchie amicizie, si ricordano le esperienze di gioventù.

La casa Rossa o Fabbrica delle cateratte

La guida della palude

Incontro Sirio alla Casa Rossa Ximenes, al limite della palude che è rimasta, la parte terminale dell’antico lago Prile, che misurava circa dodicimila ettari. La Diaccia Botrona, le ultime due casse di colmata rimaste, misurano circa un decimo dell’antico lago. Sirio ha un’idea ben precisa di ciò che voglio sapere, sembra quasi che reciti una parte di cui ha memorizzato il copione. Anche in incontri precedenti si faceva notare per l’entusiasmo nel narrare la storia di se stesso e del luogo in cui ha vissuto per l’intera vita. Ebbi l’impressione che egli fosse abituato ad accompagnare visitatori curiosi lungo i percorsi che si snodano all’interno della palude, a svelare loro i piccoli segreti scoperti nel corso di una vita passata fra la caccia (più o meno di frodo – ma un tempo erano le stesse condizioni esistenziali che facevano diventare lecita ogni strategia per portare a casa qualcosa da mettere in tavola), la raccolta delle cannucce, della scargia, della paglia. Ebbi anche la sensazione che le sue mani callose enfatizzassero ogni gesto da “nativo”. Sirio, deceduto nell’ottobre del 2004: un “informatore professionista”, uno dei più bei personaggi che abbia mai incontrato. Mi rammarico di averlo incontrato solo poche volte.

“Si facevano e si vendevano un tanto al chilo, si facevano con questo sistema, ora ti fò vedé come si fa [taglia gli spazzolini] ormai so’ già tardi, no! […]. Queste si fanno a giugno nel momento prima, si vendevano, si tagliavano tutte co’ le falcette, co’ le falcette lunghe così, poi noi si faceva questo lavoro, vedi, ora così vengo, perché vengono male, si facevano tutti a mazzi così, si facevano dei mazzi, si legavano, poi si mettevano a asciugà, poi si vendevano un tanto al chilo, questa roba qui”.

Si passa a parlare delle altre erbe che crescono spontanee in grandi quantità nella palude, e che un tempo venivano utilizzate in agricoltura, sostituite poi dai materiali plastici (“i naili”, come li chiama lui).

“Fino agli anni sessanta, si faceva questa roba che è qui. Poi bisogna trovare i bischeri di padule, bisogna trovà lo scarzolo, no qui, bisogna andà un po’ in là ora […]”.

All’angolo della Casa Rossa, due piazzole, costruite in periodi diversi, una parte del pavimento del ponte preesistente, l’altra parte della fabbrica delle cateratte, sono messe in comunicazione per mezzo di una scala a pioli metallici infissi nel muro. Sono sette pioli, come le note musicali. E infatti, battendoli emettono il suono della scala musicale. Sirio mostra questo prodigio con grande enfasi. Cerca una pietra lì intorno e con essa percuote i pioli della scala.

“Uno che si intende di musica, queste sono sette, sono le note, senti [batte ripetutamente sui pioli] sentito? […] Ora ci vorrebbe [fa sentire di nuovo il suono] un pezzettino di ferro si farebbe ancora meglio”.

Riprende a parlare dei lavori nella palude.

“[…] qui da giugno fino a settembre, dentro ci lavorava, tra qui e il padule di sopra, ora è stato asciugato, ci lavorava qualche… quasi tutto il paese, quasi tutto Castiglioni, quasi tutti i castiglionesi e facevano tre o quattro specie di roba, facevano lo scarzolo, lo facevano a manate, lo scarzolo lo chiamavano mannelli, a mannelli, perché serviva, ora c’è i naili […]”

Chi glielo commissionava ai castiglionesi questo lavoro?

“Ai castiglionesi, il Deposito, il Centro Quadrupedi perché loro ci avevano delle grandi pagliaie, perché il padule era del Genio Civile, pe’ andà a lavoro là dentro invece di pagare l’affitto ti dicevano: mi fai 20.000 mannelli di scarzolo e poi quell’altra roba te, cioè gli si dava queste 10.000 manne di scarzolo, poi se ne faceva 60, 70.000 e si mandavano da altre parti, in quasi tutta la Toscana, ai contadini, a chi gli ci voleva”.

Ma la committenza non si limitava al Centro Militare di Allevamento e Addestramento Quadrupedi: alcuni commercianti castiglionesi compravano i prodotti della palude dai raccoglitori, e li rivendevano, in grandi quantità, agli impianti di produzione industriale.

“Sì, prendeva tutti i giunchi, prendeva le cose come si chiamano? L’ho detto dianzi, un mi viene in mente, le… gli spazzolini, prendeva la paglia di padule, veniva mandata alle vetrerie, si mandava su a coso, parecchia a Cecina e a… verso Empoli, lì e su dove c’era le vetrerie perché serviva pe’ rinvestire i fiaschi”.

Sirio s’inginocchia sul terreno asciutto, si protende sull’acqua, strappa con le mani una manciata di scarzolo, si allunga ancora, bagnandosi la mano e la manica, intanto una nuvola di zanzare, che se ne stavano quiete fra gli steli contorti di quella strana pianta, della quale solo ora noto la sezione triangolare, disturbate dal movimento, ci investe. Sulla divisione sessuale del lavoro:

“Salicchio, paglia, facevano l’omini più che altro l’omini, l’omini invece facevano anche la paglia, facevano il salicchio, ma facevano lo scarzolo, quello lì per coprire le pagliaie e facevano lo spazzolino, facevano i bischeri, le donne invece facevano i fiori, paglia e salicchio”.

E perché questa differenza così? Perché l’uomo faceva questi…

“Perché era più fatica perché dovevi andare, era più faticoso, le cannucce erano altissime, allora devi andà, ora qui un si vedono più, so’ sparite ma c’era delle canne che entravi dentro ti perdevi!”

Questo spiega forse, anche, la ragione, una delle ragioni, per cui un bandito, un fuorilegge, braccato, oltre un certo limite non veniva più rincorso, come raccontava Paolino: forse perché era inutile continuare a cercarlo, o forse perché addentrarsi in quell’ambiente era come eseguire la propria condanna a morte. E chi scampava era un graziato. Poi sulla divisione sessuale delle piante. Alcuni raccoglievano l’infiorescenza della carice, il “bischero”, quel cilindro che ha la forma e il colore del sigaro, che si forma sulle punte degli steli centrali, il cui contenuto di una miriade di peli, va a costituire l’imbottitura dei cuscini di tappezzeria. Altri raccoglievano i giovani steli laterali, morbidi e freschi. Sirio dice:

“Il biodolo non fa il bischero: è la femmina; il bischero lo fa il maschio”.

E col salicchio che ci facevano?

“È uguale, ci rinvestivano anche con quello le seggiole, ci rinvestivano i fiaschi, normalmente parecchio lo lavoravano, io ‘un no so che ci facevano…”.

Sirio è abituato a fare la “guida del padule”. Lo immagino narrare la vita, il lavoro, quell’ambiente presentato come “naturale” e allo stesso tempo prodotto dall’uomo, di fronte ai turisti che lo guardano con occhioni grandi, e lo ascoltano senza battere ciglio. Con i bambini increduli e meravigliati.

Ed è sorprendente la sua capacità di progettare un ritorno alla vecchia palude, com’era un tempo, al tempo della sua giovinezza. La sua progettualità denota una conoscenza pratica della palude, integrata da qualche teoria acquisita negli anni della pensione: la conoscenza dell’acqua, del suo movimento, della sua fisicità. Il programma pare semplice e lineare.

“[…] allora da lassù a quaggiù ci sono diciassette centimetri di dislivello, questi sono i rilievi si so’ fatti noi negli anni sessanta o settanta col geometra […]. Dunque da lassù a quaggiù ci sono soltanto questi diciassette centimetri di differenza. Che succede? Succede che come fa un po’ di riempifondo se ci ha le sfoci aperte l’acqua del mare viene dentro, e invece se noi si riuscisse a fare delle cateratte e a aprire su a i Ponti di Badia, in cima al Canale Unico, mettere una tura bascolante, cioè sa’ che vòl dire bascolante? Che invece che alzassi, che si move in questa maniera. Quando fa la piena, quando c’è parecchia piena, che succede, chiude, basta che sia sopra l’acqua venti centimetri, l’acqua salata non passa, perché arriva fino ai Ponti di Badia l’acqua salata, da quel fosso là. E invece di sopra che viene giù da San Martino, il fosso si chiama di San Martino, ci ha l’acqua dolce che viene dalla montagna, lì c’è questa tura, fargli degli sbocchi e buttalla qua dentro, allora che fa? L’acqua entra dentro, circola e riesce quaggiù a Castiglioni, ci mette del tempo perché sai diciassette centimetri di livello so’ pochini. In questo modo domani dovesse fa’ una piena pe’ ‘un allagare, con questa bascola pe’ ‘un allagare i campi di sopra, con un sistema automatico scatta, si apre perché s’abbassa l’acqua, va via no? Quando è passato la volata dell’acqua, ritorna a posto. Ecco in quel modo si potrebbe, fra qualche anno, riavere il biodolo, riavere la paglia, riavere anche delle piante della tamerice, vedi?”. 

È una palude viva, quella che racconta Sirio, incontrata tante volte e vissuta nelle occasioni più disparate. Sirio, come molti degli abitanti dei paesi intorno alla palude, ha fatto mille lavori, nella palude e nella macchia, sotto l’acqua e sotto il sole. 

La palude e il pericolo

Nella narrazione di tradizione orale, come ogni spazio al di là del domestico, la palude costituisce un luogo di pericolo. E il pericolo maggiore era costituito, fino a un recente passato, dalla diffusione della malaria. Su questa malattia, che presentava diversi gradi di intensità e di rischio letale, sono stati spesi fiumi di parole. Basterà qui accennare al fatto che solo appena alla fine del XIX secolo si è scoperta la vera causa, costituita da un parassita del plasmodio trasmesso all’uomo dalle zanzare femmine del genere anofele. Prima di allora si riteneva che l’infezione malarica fosse dovuta alla insalubrità dell’aria (da cui deriva lo stesso nome della patologia: “mal-aria, cattiva aria”). Il mischiarsi delle acque salmastrose e dolci, con il loro ristagno, si riteneva producesse i miasmi che avrebbero fatto ammalare. In alternativa, o come concausa, sembrava che fosse una pianta igrofila, la tamerice (tamerix africana), molto presente nelle zone acquitrinose, a provocare il flagellante morbo. La tradizione popolare, poi, ricama sui fatti di difficile spiegazione, collocando personaggi immaginari laddove quei fatti si verificano. Tirli è un paese in mezzo al bosco, sulla collina che “guarda” alla palude; lì è stata raccolta una leggenda eziologica che attribuisce a una strega la causa del diffondersi della malaria. Scrive Marco Viti (1999: 209):

Fucecchio, Padule

Fucecchio, Padule

A Tirli raccolsi la seguente leggenda da un informatore:

… La storia della strega che s’innamorò d’un omo… me la raccontava ‘l mi’ nonno e dice che ancora vide ‘l foco del processo. E mi diceva che ‘na volta c’era ‘n omo che s’innamorò d’una strega. Questa qua era ‘na strega, no ‘na ragazza normale, però e s’innamorarono, allora dato che ‘n si poteva, le altre streghe… pe’ la legge de le streghe… fa’ certe cose co’ l’omini, no… dico d’innamorassi come di giovani da moglie… o da marito, allora la processarono e il mi’ nonno mi diceva sempre di avere veduto questo foco che fu acceso per il processo. ‘Nsomma questa strega fu condannata a esse trasformata dalle streghe in un tronco co’ un occhio che tutti gl’omini che vedeva li faceva ammalà, poi venne buttata… no buttata nella palude e da quel giorno a quelli che andavano in palude gli veniva la malaria, perché… e erano guardati da questa strega.

La leggenda ci fornisce molte informazioni. Prima fra tutte la separazione fra umani e streghe: ciascuno doveva vivere nel proprio mondo. Chi avesse contravvenuto a questo precetto, soprattutto sul versante delle streghe, sarebbe stato processato e condannato. L’“informatore” le cui parole sono riportate da Viti, riferisce anche d’aver udito dal nonno che questi avrebbe visto il fuoco del processo: evidente condizionamento della pratica di epoca remota, più narrata che realizzata, di bruciare le streghe. Ma evidentemente quella strega ebbe una riduzione di pena, se fu dal “tribunale delle streghe” semplicemente condannata a essere trasformata in un albero palustre, la tamerice, appunto. Prosegue Viti: “nel gergo contadino il termine occhio, di cui si parla nella leggenda come causa dello sguardo che fa ammalare di malaria, indica il nodo di una pianta ed anche le sue gemme”. Dunque chi frequentasse la palude sarebbe stato soggetto allo “sguardo” della strega, che condannata a essere rinchiusa nel tronco di una tamerice, avrebbe trasmesso la malattia semplicemente “guardando” il malcapitato. Il nodo della pianta, o anche la sua gemma, a seconda della stagione, rassomiglia effettivamente a un occhio. 

Fenicotteri alla Diaccia

Fenicotteri alla Diaccia

La palude oggi: ecologia e produttività

La parte più a “monte” se così si può dire, quella più distante dal mare, della antica palude che occupava il terreno fra Castiglione della Pescaia e Grosseto, completamente bonificata, è suddivisa in due parti: una parte è occupata dai poderi, i terreni sono coltivati, spesso l’attività agricola è integrata da quella agrituristica. Una seconda parte è ancora gestita dalle cooperative di lavoro che si erano formate a suo tempo. La parte restante, circa milleduecento ettari, è occupata dalle due casse di colmata, la Diaccia, a est del canale che costeggia alla sinistra il fiume Bruna, e la Botrona, a ovest, rimasta zona palustre. Nessuna delle attività storiche (raccolta di essenze palustri, caccia e pesca) è consentita oggi nella palude, interamente compresa nella Riserva Naturale Provinciale “Diaccia Botrona”, gestita dalla Provincia di Grosseto e dal WWF.

L’area è considerata di grande importanza per la sosta, lo svernamento e la nidificazione dell’avifauna acquatica. Infatti è l’habitat ideale per circa duecento specie diverse di animali. Fra queste una miriade di uccelli migratori come fenicotteri, falchi pescatori, aironi bianchi, cinerini e rosa, nibbi, ghiandaie marine. Inoltre vivono nella palude testuggini terrestri e palustri e altri animali selvatici come volpi, istrici, tassi, ricci.

L’habitat è ideale per una flora estremamente diversificata in base alla zona più o meno umida, alla salinità dell’acqua, all’esposizione. Si trovano canneti, salici, olmi, giunchi, limonio, frassini, salicornie, rosmarino, pino domestico e cespugli di macchia mediterranea. A cominciare dagli anni Settanta, anche a causa del cambiamento climatico in atto, per l’abbassamento della falda che ha favorito l’ingresso di acqua di mare, oltre che di interventi umani, il tasso di salinità è aumentato, modificando la vegetazione della palude. Le vaste estensioni di cannuccia palustre (phragmites australis) hanno subìto una riduzione, e hanno lasciato spazio alla vegetazione con salicornia e limonio.

Gita in palude Diaccia Botrona

Gita in palude Diaccia Botrona

La Casa Rossa oggi è la sede di un Museo Interattivo di carattere naturalistico che propone un documentario sulla palude, integrato con proiezione ad effetto tridimensionale sulla mappa relativa a quest’area, che mostra come l’ambiente attuale sia il risultato dell’evoluzione naturale e degli interventi umani nel corso della storia. È inoltre possibile osservare gli uccelli acquatici sia all’interno della Casa Rossa, su schermo, attraverso una serie di telecamere posizionate all’interno della palude, sia dal vivo accedendo ad alcuni punti di osservazione approntati lungo il percorso esterno. La gestione del museo, inoltre, propone una gita in barca lungo i canali.

Ultima ma non meno importante, è la presenza nella palude di una azienda di allevamento del pesce. L’impianto fu realizzato per la prima volta nel periodo fra le due guerre, per l’allevamento della gambusia (gambusia affinis) allo scopo di combattere il proliferare della zanzara anofele, vettore della malaria, delle cui larve questo pesce è vorace. Verso gli anni sessanta l’azienda si è convertita nell’allevamento dell’anguilla, ma l’iniziativa non ebbe molto successo, e una ventina d’anni dopo, iniziò l’allevamento di spigole (dicentrarchus labrax). L’attività è svolta facendo uso delle acque salmastre derivanti dal mescolamento dell’acqua proveniente dalla palude e dal fiume Bruna, insieme a quella marina ottenuta dai flussi di marea. La qualità dell’acqua viene migliorata con l’aggiunta di ossigeno liquido e trattamenti di fitodepurazione. L’acqua viene immessa in un bacino di lagunaggio, dove viene arricchita di ossigeno, per poi essere immessa nelle vasche di produzione.

Azienda ittica Il Padule

Azienda ittica Il Padule

Le vasche destinate all’allevamento sono di grandi dimensioni (da un minimo di mille metri quadri per gli avannotti ad oltre cinquemila metri quadri per gli adulti) e consentono ai pesci di nuotare con una certa libertà. La bassa densità di pesce per metro cubo nelle vasche di allevamento, rende l’impianto simile alle naturali lagune salmastre costiere. Al termine del ciclo l’acqua viene fatta defluire nei bacini di decantazione per la depurazione dai residui organici, e infine restituita alla palude. Una parte dell’acqua delle vasche di allevamento viene rimessa in circolo, attraverso un sistema di riciclo interno.

Il pesce prodotto dall’azienda viene prelevato dalle vasche di produzione e lavorato dal personale dell’azienda stessa. Periodicamente il personale dell’Unità di ittiologia e acquacoltura dell’Università dell’Insubria, svolge controlli finalizzati a rilevare i marcatori biologici di stress del pesce e a migliorarne le condizioni di vita.

L’azienda fu impiantata ai margini della palude della Diaccia Botrona da Argo Fornaciari, che è stato un esperto itticoltore, con una lunga esperienza di allevamento e riproduzione del pesce. La sua azienda ha rappresentato e rappresenta ancora un esempio di attività produttiva inserito in modo sostenibile in un ambiente protetto, realizzando una iniziativa in grado allo stesso tempo di produrre crescita economica e salvaguardia dell’ambiente.

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] Definizione della Convenzione di Ramsar (vedi oltre).
[2] Nature.com, articolo pubblicato l’8 febbraio 2023: Extensive global wetland loss over the past three centuries, consultato il 31 luglio 2024 (https://www.nature.com/articles/s41586-022-05572-6).
[3] Federazione italiana della caccia, Perdita di zone umide. La situazione in Italia richiede un cambio di passo, articolo pubblicato il 14 Febbraio 2023 consultato il 31 luglio 2024 (https://www.federcaccia.org/perdita-di-zone-umide-la-situazione-in-italia-richiede-un-cambio-di-passo/).
[4] La Convenzione di Ramsar, ufficialmente Convenzione sulle zone umide di importanza internazionale è un atto firmato a Ramsar, in Iran, il 2 febbraio 1971 da un gruppo di governi, istituzioni scientifiche e organizzazioni internazionali, con l’obiettivo di garantire la conservazione e la gestione degli ecosistemi naturali.
[5] Il labirinto deve il suo nome alla descrizione di Plinio il Vecchio (che cita Terenzio Varrone) del mausoleo di Porsenna, il leggendario sepolcro del sovrano etrusco protetto, secondo gli storici latini, da un labirinto. Più probabilmente si tratta del sistema di approvvigionamento idrico, scavato dagli Etruschi in epoca arcaica, ed erroneamente definito “Labirinto di Porsenna” dagli archeologi che circa un secolo fa trovarono le prime gallerie. Infatti gli studiosi credevano di avere trovato il mausoleo descritto da Plinio.
[6] Il Maggio Epico o Maggio Drammatico, infatti, diffuso nella Toscana settentrionale, si cantava, fino a circa la metà del secolo scorso, oltre che nelle piazze e negli spazi aperti, negli ampi locali dei frantoi. Il regista Paolo Benvenuti girò la sua Medea dentro a un frantoio, a Buti (PI): Medea, un maggio di Pietro Frediani. Italia, 1972, regia e sceneggiatura di Paolo Benvenuti. Il Maggio Epico o Drammatico è una forma performativa quasi sempre imperniata sul dualismo fra i principi oppositivi del Bene e del Male, rappresentati nei copioni più antichi da due popoli e da due eserciti rivali: il cristiano e il pagano (Maria Elena Giusti, Etnografia sul teatro dei Maggi. Un bilancio degli ultimi 30 anni, in Duilio Caocci e Ignazio Macchiarella, Progetto Incontro. Materiali di ricerca e di analisi, Edizioni ISRE, Nuoro, 2011, pag. 445).
[7] Fino alla metà del Novecento, il turismo in Maremma era prevalentemente invernale e, a differenza di quello attuale, l’attrattiva non era la balneazione, ma l’ambiente di caccia sia nelle zone paludose che nelle aree boschive delle ampie tenute. Più in generale, sulle forme di turismo, le trasformazioni nel tempo e le diverse modalità di realizzazione, le attrattive, si veda Alessandro Simonicca, Antropologia del turismo. Strategie di ricerca e contesti etnografici, Carocci, Roma, 2000 (prima edizione La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997); Id, Turismo e società complesse. Saggi antropologici, Meltemi, Roma, 2004; Id, Viaggi e comunità. Prospettive antropologiche, Meltemi, Roma, 2006; Marco Aime (a cura di), Antropologia del turismo, in “La Ricerca Folklorica”, n. 56, Editrice Grafo, Brescia, ottobre 2007.
[8] Il D.L. del 19 ottobre 1944, n. 279, noto come “Decreto Gullo”, prevedeva la possibilità per i contadini di ottenere in concessione terreni, sia pubblici che privati, non coltivati o insufficientemente coltivati, in subordine alla formazione di società cooperative. L’applicazione della norma trovò, in Maremma come nel resto del Paese, l’ostilità dei grandi proprietari terrieri.
[9] In applicazione del D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 66, Norme per l’applicazione della legge 21 ottobre 1950, n. 841, a territori del Lazio, della Toscana e dell’Abruzzo.
Glossario
Arella: porzione di palude racchiusa da una recinzione di cannucce, per la pesca delle anguille.
Biodolo o tifa (thipha latifolia o thipha angustifolia) erba palustre utilizzata per la tessitura di cannicci, nasse, per impagliatura di sedie, per rivestire contenitori in vetro (fiaschi) anche di grandi dimensioni (damigiane).
Bischero: infiorescenza dalla forma e dal colore di un sigaro, che sormonta il biodolo o tifa. È formato da una miriade di pelucchi utilizzati nell’imbottitura di cuscini.
Botte: postazione fissa di caccia in palude. Spesso si tratta di una vera e propria botte, ancorata al terreno, in ambiente allagato.
Carice: pianta del genere carex, famiglia delle cyperaceae. È una pianta palustre che forma fitti ciuffi di foglie sulle rive dei laghetti.
Falàsco: cladium mariscus, famiglia delle cyperaceae; pianta perenne, con fusto robusto cavo, cilindrico in basso e trigono in alto, frondoso all’apice.
Giunco: essenza palustre dallo stelo a forma conica che può raggiungere la lunghezza di due metri, utilizzato per l’intreccio della cannuccia.
Manna / Mannella: quantità di paglia o altra erba palustre, raccolta a formare un cilindro, tenuto assieme da uno o più legacci, della stessa erba.
Pènera: sorta di tesa per la caccia ai tordi, ai merli e altri volatili, costituita da una serie di lacci di crini di cavallo che, fissati a un ramo, vengono collocati tra le frasche in modo che gli uccelli, in cerca di bacche, vi infilino la testa e così restino presi.
Petraccola: trappola formata da legnetti e pietre piatte, con un’esca, tese per la cattura di piccoli volatili.
Ruspo: l’azione dei volatili (fagiani, germani, tordi o altri), tesa a catturare piccoli animali di cui si nutrono, nel fondo fangoso della palude o del bosco.
Sala: carex riparia, carice a foglia larga, utilizzata per attività artigianali di intreccio.
Salicchio o sarello: carex elata, carice a foglia stretta, utilizzato artigianalmente per l’intreccio del sedile delle sedie.
Scarzòlo: carex pendula, utilizzato nel rivestimento dei fiaschi e nell’impagliatura delle sedie. Trovava ampia applicazione nella copertura dei depositi all’aperto di fieno e della paglia, prima dell’invio ai magazzini di stoccaggio.
Riferimenti bibliografici
Breda 2000
Nadia Breda, I respiri della palude, CISU, Roma.
Breda 2001
Nadia Breda, Palù. Inquietanti paesaggi fra natura e cultura, Cierre Edizioni, Verona.
Clemente-Breda 1999
Pietro Clemente e Nadia Breda, Pensare le paludi, ri-pensare radicalmente, in La Casa Rossa. Memorie d’acqua e di vita, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province di Siena e Grosseto, Grosseto, 1999.
Cappellini 1985
Bianca Maria Cappellini, Cooperative contadine e lotte per le terre incolte nella Maremma grossetana, Bollettino della società storica maremmana, XXVI, 4, Grosseto.
Fusi 1988
Flavio Fusi, Il movimento contadino nel secondo dopoguerra, in Le nostre orme. Contributi per una storia sociale, Ediesse, Roma.
Archivio 1999
La Casa Rossa. Memorie d’acqua e di vita. Genti, lavori, saperi del padule maremmano
, Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana, Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici per le province di Siena e Grosseto, Grosseto.
Ochs 2006
Elinor Ochs, Linguaggio e cultura. Lo sviluppo delle competenze comunicative, Carocci, Roma.
Terrain 1986
Terrain – carnet du patrimoine etnhnologique. Les hommes et le milieu naturelhttps://journals.openedition.org/terrain/.
Viti 1999
Marco Viti, L’immaginario della fuga nel padule, in La Casa Rossa, cit.
Zagli 2006
Andrea Zagli, Le antiche “economie degli incolti palustri” nella Toscana occidentale, in Aqua/Aquae. I vari usi di una risorsa preziosa nel territorio dell’ATO2. Dal Medioevo ai nostri giorni, a cura di C. Torti, Pisa, Felici Editore.
 _______________________________________________________________________
Paolo Nardini, laureato in filosofia con indirizzo demo-etno-antropologico presso l’Università di Siena, è giornalista dal 2006, scrive per Il Tirreno. Ha pubblicato su Maremma Magazine, il Manifesto e La Nazione. Dal 2015 al 2020 ha organizzato con cadenza annuale i “Laboratori di musica popolare”, a Grosseto, in collaborazione con il Circolo ARCI Khorakhanè. Nel 1986 iniziò una collaborazione con il Comune di Grosseto per la realizzazione del Museo della Maremma di Alberese, con la guida di Maria Luisa Meoni e il coordinamento di Pietro Clemente. Da allora, e fino a oggi, si occupa dell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma, un centro di ricerca e di riproposizione delle attività tradizionali. Negli anni 2009-2011 ha partecipato alle iniziative del progetto transfrontaliero INCONTRO (INterventi CONdivisi Transfrontalieri di Ricerca sull’Oralità), che metteva in relazione, per uno scambio culturale sull’oralità, le province costiere della Toscana, la Sardegna e la Corsica. Fra le pubblicazioni, tutte edite da Effigi di Arcidosso (Grosseto), si segnala: Improvvisar cantando: Atti dell’incontro di studi sulla poesia estemporanea in ottava rima, a cura di, con Corrado Barontini (2009); Monticello Amiata. Una ricerca etnografica intorno alla Casa Museo (2011); Il Cerchio Magico: Atti del convegno sulle figure magiche nelle narrazioni di tradizione orale in Maremma (2011); Don Luigi Rossi e il rifugio Sant’Anna (2013); Il Sessantotto in Maremma: un figlio dei fiori non pensa al domani (a cura di, con Flavio Fusi) (2018); Sant’Antonio Abate. La benedizione degli animali a Castell’Azzara (2019).

_____________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>