di Viola Arinci
Da anni in Italia, soprattutto nel periodo estivo, ampie aree boschive bruciano a causa di incendi di vasta portata, talvolta di natura dolosa. Agevolato da una serie di condizioni metereologiche, fisiche e antropiche, il fuoco arriva a divampare con grande rapidità e a distruggere interi ettari di bosco. Nel periodo compreso tra gennaio e luglio 2022, ad esempio, il territorio della Toscana è stato interessato da 591 incendi boschivi, e gli ettari di superficie boscata percorsi dal fuoco, raggiungendo quasi i 2300, sono più che raddoppiati rispetto alla media degli anni 2015-2021 [1], tanto che nella stampa locale, nel linguaggio istituzionale e nei discorsi comuni si usa regolarmente la parola “disastro”. Spesso i “disastri” sono descritti come eventi solo parzialmente prevedibili, perché scollegati da una più ampia memoria storica del territorio e delle catastrofi (Falconieri, Dall’Ò, Gugg 2022), eventi improvvisi, impattanti, che si consumano in pochi attimi ma che cambiano in modo irreversibile il territorio e la vita degli esseri umani e non-umani che vi abitano.
L’antropologia come scienza sociale può sicuramente offrire approcci, prima ancora che conoscenze, utili per riflettere sul “disastro naturale” e sul continuum di cause e conseguenze che lo riguardano, permettendo di individuare “mappe dense” di attori, umani e non-umani, che abitano insieme il territorio e, insieme ad esso, fanno parte del “disastro” dai primi momenti della sua configurazione: essi possono infatti determinarne entità, caratteristiche, risposte; gli attribuiscono significati e si adoperano per ri-costruire spazi e modalità di vita nello spazio e nel tempo post-disastro. In tal senso, ogni disastro è un processo:
«una catena di eventi ed effetti generata da una relazione di lunga durata tra l’uomo e l’ecosistema, lungo le linee di frattura del corpo politico e sociale, e che, dunque, non termina con la conclusione del fenomeno fisico, ma può estendersi indeterminatamente e infiltrarsi nella vita quotidiana» (Gugg, 2021).
Se pensiamo il disastro come un nodo intermedio, per quanto problematico, parte di una lunga catena di eventi frutto della relazione e di veri e propri “intrecci” inter-specie su un determinato territorio, che si dipanano nella profondità storica e con tutta la portata politica del modo in cui si costituiscono, possiamo sicuramente arricchire lo sguardo sul tema, sottoponendolo a riflessioni che connettono e fanno dialogare diverse discipline, approcci e campi di ricerca. L’antropologia che si occupa dei “disastri” e della loro analisi ha colto come le «vere cause» delle catastrofi non vadano ricercate fuori dalla società ma al suo interno;
«era l’assetto sociale di un contesto storicamente determinato che, lungi dall’essere normale, mostrava il suo grado di anormalità quando rendeva disastroso, specialmente per alcuni luoghi e categorie di persone, l’impatto di un agente distruttivo» (Benadusi, 2015).
Alla luce di questo quadro introduttivo e teorico, possiamo analizzare le numerose trasformazioni avvenute in un’area boschiva nell’Appennino Tosco-Emiliano, in provincia di Firenze, attingendo tanto a fonti storiche sulla trasformazione del paesaggio appenninico, tanto a quelle prettamente tecniche sui cambiamenti di lungo periodo della vegetazione boschiva, e alle fonti di conoscenza locali ed emiche di persone che da molti anni attraversano e abitano il territorio. In particolare, tenere un approccio qualitativo di ascolto e restituzione etnografica permette di comprendere il dialogo e il reciproco ascolto inter-specie, denso di tutte le componenti umane e non-umane, che spesso si ritrova ad anticipare aspetti e segnali di crisi e di cambiamento, anche climatico, che possono sfuggire alla sola percezione umana: delle vere e proprie “sentinelle” (Lakoff e Keck, 2013; Dall’Ò 2022).
Qui i castagneti e le porzioni di bosco adiacenti, analizzati nelle loro trasformazioni, possono essere considerati sentinelle non-umane del cambiamento ecologico e climatico, ed hanno bisogno di decodificatori che le inquadrino come tali.
G., un ragazzo di Firenzuola che gestisce il castagneto della famiglia, e D., un signore che vive nella frazione di Giogarello e che si occupa dei castagneti in suo possesso fin da quando era giovane, che conoscono il castagneto e i boschi e li attraversano da molto tempo sono in grado non solo di osservare i cambiamenti che si stratificano negli anni, ma di significarli alla luce di una analisi più ampia, che tiene conto della complessità e del contesto economico, storico, politico entro cui si realizzano. La costruzione del paesaggio-bosco e dei castagneti come sentinelle si compone, quindi, di vari livelli di indagine stratificati. Dal punto di vista storico, il paesaggio appenninico è stato interessato da vasti cambiamenti negli ultimi duecento anni, la cui portata si è però intensificata nel secondo dopoguerra. Storicamente, in Italia, l’avvento dell’industrializzazione prima, e l’offerta di lavoro qualificato poi, ha offerto a molti la possibilità di trovare impiego nelle città, abbandonando di conseguenza le aree montane e quelle rurali.
In Mugello, piccoli campi, ricavati nel mezzo dei boschi, sono stati i primi ad essere abbandonati. Specie arboree e arbustive hanno colonizzato i terreni in modo incontrollato, e spesso sono i rovi a ricoprire il terreno. Questa massa di vegetazione è diventata un enorme bacino di combustibile che, unito alla siccità dei terreni e alla secchezza dei fusti degli alberi, rende molto più agevole la propagazione del fuoco, ostacolando inoltre la possibilità di raggiungere il bosco per spegnere eventuali incendi [2].
La vegetazione boschiva nelle sue trasformazioni strettamente biologiche e di diffusione nel territorio è quindi sentinella di un cambiamento storico, culturale, politico a livello locale e di un cambiamento a livello globale, che in questa sede è stato considerato nei suoi aspetti più strettamente biologici e climatici: svela come l’intreccio di abbandono delle zone montane, conseguente allo spopolamento e a tutte le dinamiche storico-politico-sociali che lo hanno determinato, e dinamiche più ampie a livello globale come l’aumento della temperatura media mondiale e la diminuzione delle precipitazioni annuali, possa aumentare l’incidenza di grandi incendi, dalla portata “disastrosa”. In questa prospettiva, gli interlocutori e le interlocutrici che abitano o vivono il territorio, secondo diverse modalità ed interazioni, offrono un punto di vista che permette di tenere insieme tutti gli aspetti considerati, nella loro reciproca rilevanza e relazione: analizzare a livello micro la complessità e la profondità delle dinamiche che attraversano lo spazio di analisi permette di connettere saperi, pratiche, metodologie, per ri-pensare il nostro rapporto con l’ambiente, e immaginare percorsi e direzioni alternativi.
Per capire la connessione tra aumento delle temperature, abbandono delle montagne e incendi, le parole di D., un uomo che lavora nel castagneto da quando è appena un bambino, sono illuminanti:
«Attorno al perimetro del castagneto si deve mantenere ben pulito, serve il giusto spazio per far sviluppare il fiore il frutto eccetera. Se si tiene pulito è più affrontabile l’incendio, se si ha abbandono no. Oggigiorno ci siamo abituati e il bosco è stato abbandonato e chi lo fa (chi taglia gli alberi dentro al bosco e intorno ai castagneti) deve stare a regole di commercio basate sull’industrializzazione. Per il commercio quando il ramo è meno di 3 cm non viene accettato, e quindi viene lasciato lì. Sono le parti fini che si usavano per accendere il fuoco, sono le parti apicali che oggi sono lasciate lì, e nutrono incendi che possono formarsi».
Aumento delle temperature, leggi di mercato e conseguente abbandono delle zone di montagna non possono quindi che esser considerati co-fattori che si legano e che determinano il verificarsi di disastri.
Un giovane agricoltore di Fiorenzuola osserva come l’aumento delle temperature a livello globale unito alle dinamiche di mercato competitive porti ad un ulteriore abbandono dei frutteti nei territori di montagna, creando un effetto a catena di eventi disastrosi:
«I cambiamenti climatici ci sono ovviamente, però io credo che siano molto legati all’intervento sbagliato e al non intervento dell’uomo, poi ovvio ci sono eventi come l’anno scorso che i miei genitori o zii non hanno mai visto. Le aziende agricole alla fine dell’anno devono avere un profitto: se per cambiamenti economici sociali e climatici il profitto si riduce, l’unica cosa che si può fare è andare via, il terreno viene abbandonato e per quanto si possa pensare che a livello naturale sia tutto facile, cioè che la natura si regoli, non è sempre così, perché la conseguenza dell’abbandono delle zone montane si vede poi nelle conseguenze delle città che sono a valle, e questo abbandono sempre più frequente e rilevante fa sì che la natura non riesca a regolarsi. I fattori sono cambiati alcuni troppo velocemente, alcuni troppo in sordina e non considerati, si arriva a un punto in cui è talmente tanta la quantità di variabili da ricalibrare che non ce la fai più, l’ambiente è cambiato così tanto che serve troppo per risistemarlo, perché devi mettere insieme tanti fattori economici, sociali… e la questione si fa davvero complessa».
Le persone che hanno riportato le loro esperienze dirette del cambiamento dei castagneti e dei successivi incendi sono in relazione con il bosco e lo sono da molto tempo. Questa relazione si è articolata secondo tempi e modi diversi, e ci hanno permesso di svelare tante chiavi di lettura per osservare il bosco da diverse prospettive, tutte indissolubilmente intrecciate tra loro e “dense” di informazioni. Parlare delle persone che sono in relazione con il bosco, e parlare dei boschi, in una prospettiva inter-specie, significa considerarli e ascoltarli come co-produttori di significati, specie compagne (Haraway, 2008) che possono essere realmente conosciute solo nel loro divenire insieme.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] La raccolta dei dati si può trovare su sito di Aib Pineta di Tocchi, una associazione che si occupa della formazione sull’antincendio boschivo, attiva in Toscana dal 2007. Oltre ad organizzare corsi sull’antincendio, l’associazione fornisce anche un monitoraggio annuale sugli incendi e sulla loro entità in tutto il territorio della Regione Toscana.
[2] Un’ analisi accurata delle trasformazioni del paesaggio appenninico toscano è stata condivisa dall’Unione Montana dei Comuni del Mugello e consultabile all’interno del Museo del Paesaggio Storico dell’Appennino di Badia a Moscheta.
Riferimenti bibliografici
A. Lakoff e F. Keck (2013), Sentinel Devices, in “Limn”, Vol.3.
D. Haraway (2007), When species meet, University of Minnesota Press.
Dall’Ò, E. (2022), ALPINE SENTINELS. Climate Crisis and its “Non-Human” Perceptions in the Mont-Blanc Area, JDA Journal des Anthropologues, in Socionatures Under Pressure. Anthropology and the Climate Crisis”, n° 168-169.
Falconieri, I., Dall’Ò, E., Gugg, G. (2022), (eds), La lunga durata delle emergenze. Prospettive di ricerca, dimensioni applicative e temporalità della crisi, in “Antropologia”, Vol 10, n°2, 2022, Milano, Ledizioni.
G. Gugg (2021), Tempi e memorie del disastro, in “Il Lavoro Culturale”.
M. Benadusi, (2015) Antropologia dei disastri. Ricerca, Attivismo, Applicazione. Un’introduzione, in “Antropologia Pubblica”, Vol.1, n° 1-2.
https://www.regione.toscana.it/emergenza-e-sicurezza/speciali/aib-antincendi-boschivi/statistica-incendi-boschivi
_____________________________________________________________
Viola Arinci, laureanda magistrale in Antropologia culturale ed etnologia presso l’Università di Torino, a seguito di una laurea triennale in Lettere Moderne a Firenze. Il suo interesse per il territorio toscano, in particolare per l’area mugellana, l’ha portata a condurre alcune ricerche antropologiche su ambiente, cambiamenti climatici, tradizioni popolari. Ha frequentato il laboratorio di antropologia dei cambiamenti climatici diretto da Elisabetta Dall’O presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Torino.
______________________________________________________________