di Antonino Cusumano
Prima di essere un mare il Mediterraneo è un’immagine, anzi il luogo elettivo di uno storico e mitico immaginario. Una costellazione di simboli. Un universo sistemico di connessioni, di narrazioni, di rifrazioni. Un concetto “buono da pensare”: topos letterario e snodo geografico, coagulo di memorie e crocevia di utopie e distopie. Se il mare è metafora della mobilità e dell’irrequietezza, principio e fine nelle cosmogonie di culture e religioni, paesaggio e passaggio dell’alterità magmatica ed enigmatica rispetto alla terraferma, frontiera della paura e orizzonte della speranza, il Mediterraneo è esemplare compendio di tutto questo, spazio destinato a fondare le prime città e a coltivare le piante di eminenti civiltà, teatro iconografico di fughe e approdi, di migrazioni e diaspore, di asili e esili, di exodus e nostos. E comunque di flussi e riflussi di uomini e cose.
Tra tutte le definizioni e rappresentazioni che del Mediterraneo sono state date quella di Braudel, elaborata nella prospettiva della storia della longue durée, resta ancora la più convincente: «un insieme di insiemi» nella sua lapidaria sintesi descrive la complessità e la pluralità compositiva di questo “continente liquido” più simile ad un patchwork che a un contesto omogeneo e unitario. Un ecosistema polisemico e policentrico che, tra le terre attorno e le acque che le bagnano e le impregnano, ha tenuto insieme nella densa trama di connettività umane e culturali nord e sud, est e ovest, un mare stretto e raccolto come in un grembo materno tra tre continenti, un mondo che oggi chiamiamo Vecchio e che è stato a lungo il mondo.
L’unità mediterranea è un’invenzione fascista, ci ha insegnato Matilde Callari Galli (2018: 93), un’antropologa che ha studiato da vicino le strutture profonde delle rappresentazioni che modellano e costruiscono la realtà, essendo il rappresentare consustanziale alla storia esistenziale degli individui e delle comunità, alle esperienze e alle evidenze elementari della vita. Tra la datità fisica e la cartografia simbolica ci stanno le retoriche, le ideologie e le mitologie, le politiche e le poetiche, in altre parole, la cultura nelle sue diverse articolazioni, i modelli mentali e comportamentali che presiedono alla organizzazione delle grammatiche dello spazio e del tempo. A guardar bene, l’unità del Mediterraneo è categoria concettuale più spesso riconducibile allo sguardo etnocentrico, sia esso coloniale o neocoloniale, esotico o erotico, etico o estetico, romantico o postmoderno.
La verità è che il Mare Nostrum è costrutto solo apparentemente unitario essendo percorso e segnato da profonde linee di faglia, cicatrici storiche, scismi religiosi, conflitti politici, società stratificate. E tuttavia il Mediterraneo nel nome rivela e custodisce la sua intima identità, il suo essere fondamentalmente e per millenni medium tra le sue parti, via di comunicazione, di connessione, di circolazione, di uomini e di beni materiali e immateriali, una rete tenacemente ordita tra le opposte sponde, tra le diverse isole e penisole, tra le città e i porti che hanno accolto e messo in contatto mercanti, pescatori e marinai, pirati e contrabbandieri, pellegrini e guerrieri, convertiti e rinnegati. Da qui quell’ “aria di famiglia” che si può percepire viaggiando tra Marsiglia ed Atene, tra Tunisi e Palermo, tra Genova e Tangeri, tra Barcellona e Il Cairo. Un gioco di specchi che rende complementari le differenze e riconoscibili i nodi del fitto reticolo di relazioni tra i continenti. Tanto più che una navigazione prevalentemente di cabotaggio ha disegnato rotte migratorie che si sono alternate e incrociate, ha prodotto scambi anche asimmetrici ma pur sempre reciproci, occasioni dialogiche che hanno promosso conoscenza e ospitalità, commistioni e promiscuità, contaminazioni, ibridazioni, integrazioni senza integralismi, interdipendenze su scala intercontinentale.
Costeggiare il Mediterraneo è stato il regime plurisecolare del viaggiare, di esperire il mondo, di raccontarlo negli esametri di Omero attraverso le rocambolesche avventure di Odisseo, da Ogigia a Scheria, la terra dei Feaci, dalla Sicilia a Itaca. È il periplo la figura che meglio interpreta la geografia mediterranea, questa mirabile circolarità di traiettorie, queste esperienze di traffici e di nomadismi in cui si intrecciano e si confondono emigrazione e immigrazione, flussi e riflussi tra frontiere mobili e porose, che si sfidano, si attraversano, sfumano o si spostano. In quel mare, laddove abitano gli dèi immortali e i leviatani più temibili, gli uomini – siano semidei, eroi o semplici mortali – ritrovavano le rotte già segnate, le storie già sperimentate, le memorie di altre vite precedenti, di altre comunità erranti. Che cosa sono in fondo le onde nel loro ciclico alternarsi di bonacce e mareggiate se non la riproduzione del respiro della storia, dell’eterno ed eguale ripetersi del flusso degli avvenimenti umani? Andare per tornare e restituire l’esperienza vissuta in forma di racconto è questo il paradigma che fa della navigazione la metafora letteraria e iconografica della narrazione, del percorso esistenziale che prevede un allontanamento, un viaggio, una prova da superare, l’epifania dell’incontro tra i misteriosi flutti della vita e infine il perenne anelito al porto, all’approdo, al riparo della riva.
«Il Mediterraneo è un insieme di vie marittime e terrestri collegate tra loro, e quindi città che, dalle più modeste alle medie, alle maggiori si tengono tutte per mano. Strade e ancora strade, ovvero tutto un sistema di circolazione. È attraverso tale sistema che possiamo arrivare a comprendere fino in fondo il Mediterraneo, che si può definire nella totale pienezza del termine, uno spazio-movimento» (Braudel 1992: 51).
Se rovesciamo lo sguardo dalla terra al mare, se guadagniamo una prospettiva talassocentrica, le traversate sono centrali nella costruzione e nella comprensione del mosaico mediterraneo, tessendo come le navette del telaio la trama delle relazioni tra popoli diversi e Paesi lontani, lo spazio reticolare delle transazioni, delle mediazioni, delle convivenze. Nella dimensione costitutivamente plurale delle culture, le differenze nel contatto e nel confronto non si compongono né s’ignorano ma si riconoscono e si rispettano, legando le città e le collettività delle rive opposte in un mutevole e inestricabile intreccio di percorsi e di approdi, di influenze e confluenze, collegando le società liminari forgiate dai migranti in un sistema transnazionale di interazioni, di affiliazioni e di mutualità.
Di questo Mediterraneo che accoglie le differenze fino a renderle imprescindibili l’una dall’altra, di questo mare che è anche terra, arcipelago, costa, bordo, limen, pontos, oriente e occidente, misura e grande orizzonte transcontinentale privo di un centro unico e radiante, di questo spazio libero di transiti e di passaggi frontalieri, di andirivieni e di scambi, oggi l’immagine è sfigurata da una violenta torsione politica che ha trasformato quella «piccola fenditura della crosta terrestre» di cui ha scritto Braudel in una terribile foiba, un fossato in cui precipita un’umanità senza nome, i naufraghi che tentano la traversata. Quanto era soglia liquida e frontiera permeabile è diventato cortina di ferro, barriera insormontabile, via di fuga senza riparo, presidio militare, campo di battaglia di una nuova guerra fredda tra il nord e il sud del mondo.
Tornato ad essere epicentro gravitazionale della storia mondiale, il Mediterraneo è teatro drammatico della rovinosa implosione degli equilibri geopolitici, degli esiti perversi della globalizzazione, degli effetti moltiplicatori di una crisi che investe in profondità gli assetti tra i continenti. Qui, nella trincea scavata dal Vecchio continente a protezione della Fortezza Europa si consuma una delle più grandi tragedie umanitarie dal dopoguerra ad oggi, una deportazione invisibile e uno stillicidio senza fine di morti per mare. Vittime di un mondo capovolto che fa la guerra a chi fugge dalle guerre e a chi li soccorre dai naufragi: un modo per stigmatizzare le diversità, per legittimare le disuguaglianze, per criminalizzare la solidarietà e incrementare paure e cinismi. Le politiche dei respingimenti, dei porti chiusi, delle detenzioni dei profughi, della costrizione al rimpatrio tradiscono la vocazione storica del Mediterraneo all’accoglienza, all’inclusione, all’asilo.
Uno scorcio di questo Mediterraneo – immagine di antiche civiltà e di drammi contemporanei – è visibile dalla finestra dell’atelier mazarese di Giuseppe Modica. Una presenza inquietante, pervasiva, seducente e ineludibile dal momento che le sue acque penetrano nelle vene della città attraverso le anse del vecchio portocanale, dove il fiume scorre lungo le banchine prima di offrirsi e di perdersi nel grande mare. Qui i confini tra le sponde di una Mazara liminare, posta sotto il segno di Hermes e del Satiro danzante, sfumano davvero e «somigliano – come scrive Matvejević (1991:18) – a quel cerchio di gesso che continua ad essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano e restringono». Il mare dunque non poteva non essere agente e referente del paesaggio della sua vita e della sua pittura, consustanziale allo sguardo e alla rappresentazione. Quelle acque per se stesse placenta, involucro protettivo delle prime forme creaturali, sono per l’artista memoria della sua infanzia, cosmogonia della città natale.
È noto che l’atelier ovvero lo studio è il luogo che meglio rivela epifanicamente il senso estetico ed etico dell’opera artistica, la composizione e l’organizzazione dello spazio in cui si dispiega il processo di progettazione, di sperimentazione e di concreta realizzazione. L’officina di Giuseppe Modica è parte costitutiva e centrale della sua casa di Mazara, in mezzo alla campagna e vicina al mare. Alte le pareti per accogliere le tele di estese dimensioni, grande e rettangolare la finestra che riceve la luce dalla terrazza che si affaccia sull’orizzonte del Mediterraneo. Qui l’abitare e il dipingere sono una cosa sola, risolvendosi nella quotidianità della dimensione domestica l’estro, l’invenzione, la creazione. Non una wunderkammer, un teatro di posa o un ambiente scenograficamente apparecchiato. Piuttosto una vasta e severa architettura essenzialmente pensata per le rifrazioni luminose e le vibrazioni cromatiche, una francescana o mondriana geometria che nella nudità e spazialità volumetrica, con piccole strategiche aperture in alto, sembra voler riprodurre la nobile astrazione metafisica dei suoi quadri.
«Qui – ha scritto lo stesso Modica (2021: 18) – si riordinano e chiariscono le idee, è in questo luogo magico che avviene la conversione alchemica dei pensieri, dei frammenti di memoria e delle annotazioni (schizzi, prove di colore, collage, foto eccetera) che si organizzano e prendono forma divenendo pittura, configurazione visiva».
Molto si capisce della particolare qualità delle iridescenze e dei giochi di specchi e di riflessi disseminati sulle sue tele a partire da questo osservatorio, da questa specola che guarda il Mediterraneo, da questo laboratorio di risonanze percettive e meditative. Tanto più che l’atelier – la Stanza della Pittura – irrompe nella rappresentazione degli interni e suoi riferimenti materiali e simbolici entrano a far parte dei soggetti illustrati, come per esempio lo specchio, il cavalletto e la macchina fotografica, la scala, il compasso etc. Se il segreto della pittura, di tutta l’arte figurativa, consiste in fin dei conti nell’uso sapiente della luce zenitale strappata all’ombra delle larghe campiture, allora l’opera di Modica può davvero definirsi una paziente e fiamminga “tessitura di fili di luce”, un palinsesto di visioni meridiane, il trionfo delle diffuse trasparenze attraversate da quel pulviscolo sottile e impalpabile che nel ricoprire ogni cosa allude all’eterno e implacabile trascorrere del tempo.
La luce che eccede e che abbacina fino all’illusione del miraggio, la luce che si flette in mille sfumature e si moltiplica in mille variazioni, la luce che disvela e dissimula indugiando sui punti di fuga prospettica e sulle superfici riflettenti. Nella luce, come nei più grandi artisti di tutte le epoche, è la grazia dell’arte di Giuseppe Modica. Una luce che capovolge cieli e mari stemperandone i confini, fino a sfidare la fisica per farsi metafisica, fino a cadere sull’incerto crinale che separa la realtà dall’artificio, la percezione dall’astrazione, il vero dal verosimile. La pittura di Modica si colloca in questo magico margine, in questo spazio evanescente tra visibile e invisibile, tra immagine e immaginario. Nessun compiacimento vedutistico ma piuttosto l’ispirazione mediterranea alla visione, priva di eccedenze sentimentali e di tentazioni contemplative fine a se stesse, l’assiduo esercizio di uno sguardo impegnato su ogni centimetro quadrato a scavare nella dimensione simbolica dei paesaggi fino a produrne altri, più reali della realtà, più visibili di quelli che l’evidenza empirica ci impedisce di vedere.
Agli effetti luminescenti e iniziatici del mistero concorrono gli specchi, presenze costanti nelle tele dell’artista, che presentificano le assenze, esaltano le rifrazioni, riflettono i riflessi, sono complici del raffinato gioco del dentro-fuori, della circolarità dello sguardo, della dilatazione dello spazio, del decentramento dei punti di vista.
«Lo specchio – ha scritto Umberto Eco (1985:10) – è un fenomeno-soglia, che marca i confini tra immaginario e simbolico. È una protesi dell’occhio, consentendo di cogliere lo stimolo visivo dove l’occhio non potrebbe pervenire con la stessa forza ed evidenza. La magia degli specchi consiste nel fatto che la loro estensività-intrusività – non solo ci permette di guardare meglio il mondo ma anche di guardare a noi stessi così come ci vedono gli altri: si tratta di un’esperienza unica e la specie non ne conosce di consimili».
Se la fotografia è memoria figurativa del tempo coagulato in un clic, la pittura è specchio di questa memoria, alchimia della luce, investigazione e scrutinio della quintessenza delle cose, immagine “riflessa” del mondo, pedagogia del “vedere” e del “riflettere”, nella duplice accezione semantica che sia arte e grammatica dello sguardo e dei sensi, oggi inquinati e compromessi dalla tirannia dell’effimero mediatico. Il tempo abita nei quadri del maestro siciliano come straordinaria velatura di ruggine e polvere che allude alla forza irriducibile dell’usura, della consumazione, della corrosione, della ossidazione, ovvero della caducità delle umane cose. Alla pietra, che intride l’aria e si offre nuda architettura ed enigmatica scultura di bastioni e contrafforti aggrediti dalla erosione salmastra, l’artista affida il senso profondo del tempo che è memoria e destino, mistero e attesa, tensione e sospensione.
Rotte mediterranee e visione circolare è il titolo dell’ultima mostra personale di Giuseppe Modica che inauguratasi presso la Casa Museo Hendrik Christian Anderson a Roma il 23 aprile si chiude il prossimo 15 settembre 2024. Una esposizione, a cura di Maria Giuseppina Di Monte e Gabriele Simongini, che raccoglie una ventina di olii su tela quasi tutti inediti realizzati negli ultimi anni. Protagonista è il mare, il suo inquieto orizzonte, la sua permanente mobilità, la strutturale ambivalenza della sua doppia latitudine di superficie e di fondale, di emerso e di sommerso, di piano d’acque scintillante e di oscuro e perturbante abisso. Una ambiguità che come lo specchio assimila la natura fisica del mare alla natura fondante della pittura, pur sempre, spazio tattile e materiale da una parte e rappresentazione immateriale e allusiva dall’altra. Alterità sfuggente ed enigmatica, il mare di Modica entra nelle Stanze del pittore con la potenza concettuale di un segno altamente simbolico, di un paesaggio denso di qualcosa di ineffabile, di arcano.
Tutti i quadri dell’artista mazarese sono finestre, varchi, porte che si aprono su quel Mediterraneo che l’artista può osservare dalla terrazza dell’atelier, nei meriggi assolati, nei tramonti incendiari e nei notturni trasparenti. Ogni tela dipinta, in realtà, rappresenta per se stessa, in quanto tale, una finestra. Ma in quelle di Modica le finestre sono dentro la cornice, finestre dipinte che danno sull’esterno e finestre che lasciano intravedere gli interni in un vertiginoso gioco di slittamenti e rifrazioni. Finestre che nella dialettica tra superficie e profondità simulano un moto prospettico circolare. Finestre decentrate che riflettono interni ed esterni sovrapposti e confusi nella rarefazione cromatica. Finestre che sono luce e dirigono la luce, squarci su pareti verticali che aprono lo sguardo sul mare o lo invitano ad entrare in casa. Finestre che – come dicono i poeti – sono gli occhi delle case.
Da questi interni domestici, vuoti, desolati, devastati, l’artista si sporge sulla linea dell’orizzonte e vede ciò che la nostra paranoia ci impedisce di vedere, quella strage quotidiana sotto le nostre coste, i morti in mare, i dispersi senza nome, le cento Lampedusa, Pozzallo, Cutro, invisibili, indicibili e dimenticate, le altre cento consumate senza testimoni al largo della Tunisia, della Libia, del Canale di cui nulla si sa perché il mare non sostiene nulla e nulla trattiene e, come nel deserto, non vi restano in superficie né tracce né impronte del passaggio dell’uomo. Per migliaia “il mare fu sopra lor richiuso”, come un sepolcro di un vasto cimitero che accoglie popoli in fuga, uomini, donne e bambini scomparsi tra i flutti, caduti in questa guerra alla frontiera, corpi senza identità, senza sepoltura, di cui non potremo mai stabilire il numero e di cui la storia ci chiederà ragione negli anni a venire. Che nulla rimanga delle loro speranze e delle loro esistenze, delle loro immagini e delle loro storie, fa ancora più debole la nostra capacità di indignarci, più inconsapevole l’assuefazione all’orrore dello scandalo.
Giuseppe Modica sa che nel mare di fronte alla sua città i pescatori tirano, di tanto in tanto, nelle reti qualche cadavere. Sa che nelle loro carte nautiche a sud di Lampedusa hanno contrassegnato con il simbolo di una croce i punti di rilevamento dei relitti. Sa che sono impegnati in prima fila nell’opera di compassionevole soccorso e di generoso asilo dei migranti sopravvissuti ai naufragi, L’antico diritto presso i Romani sanzionava in modo particolarmente severo non solo che si appropriava dei beni dei naufragati ma anche chi ne ostacolava le operazioni di salvataggio. I pescatori ripetono dunque antichi gesti che sono nei codici umanitari non scritti della gente di mare e, più in generale, della storia mediterranea. Navigano su quei tratti di mare non per presidiare i confini ma se mai per rimescolarli. Nessuno sa meglio di loro quel che accade sopra e sotto le onde e quanto sia “traditore” quel movimento incessante di acque, quel fragore di marosi. Modica sa bene che la marineria mazarese nella sua storia ha conosciuto le rovinose tempeste vissute a bordo dei pescherecci, ha memoria delle tragedie in mare, dei drammi familiari che hanno accompagnato le vicende locali della pesca dal dopoguerra ad oggi.
Nel Mediterraneo di Modica il mare è una mappa capovolta, come quella di Idrisi, il geografo arabo che ha disegnato il sud in alto e il nord in basso, la Sicilia a sud e il l’Ifriqiya a nord. La rappresentazione geografica allude al senso rovesciato della storia, al nonsenso del nostro tempo che trasforma le tragedie in mare in condanne ineluttabili e fatali per chi ha la spericolata ambizione di aspirare a nuove vite. Una necropolitica che dichiara di combattere i trafficanti in tutto l’orbe terraqueo mentre patteggia ipocritamente con le milizie colluse con i criminali. Una ragione di Stato che avalla le deportazioni e i regimi dispotici dei cosiddetti “Paesi terzi sicuri” pur di difendere i sacri confini minacciati dalle orde dei poveri cristi che annegano a un passo dalle nostre case sicure.
L’arte, nelle sue migliori produzioni – cinema, musica, teatro, letteratura, pittura, fotografia – testimonia, documenta, racconta, rappresenta la tragedia che si sta consumando nel Mediterraneo e non si sottrae dal denunciare le responsabilità che ognuno di noi si assume rispetto all’aberrante assuefazione del “lasciar morire”. Giuseppe Modica esprime per segni, simboli, metafore, presenze minimali, piccoli indizi, la propria indignazione per quanto accade in quella striscia di mare dove si innalzano le vecchie trincee in nome di quelle “comunità immaginate” che una retorica di enfasi e omissioni ha inventato sui tragici miti del sangue, della stirpe e del suolo. Su queste acque l’artista dipinge l’inquietante scenario del pattugliamento di navi militari, eco delle guerre in corso e dei fili spinati delle frontiere. Dissemina nel trittico intitolato Le rotte della tragedia una serie di piccoli teschi o croci a segnare simbolicamente le vittime dei naufragi, e nell’altro Navi da guerra in transito incide i numeri su muri, speroni, profili di piramidi, geometriche figure, reminiscenze di antiche civiltà mediterranee. Numeri vicari dei nomi. Trittici che hanno la gravità e la sacralità di un polittico, la spazialità di una composizione rinascimentale, i tratti miniati di un paesaggio della pittura cinquecentesca.
Inconfondibile e stupefacente è il colore del mare di Modica, un blu cobalto che stinge i cieli, le nuvole, le architetture, i vetri delle finestre, gli intonaci scrostati degli interni, il pulviscolo dell’aria. Un mare che si intravede tra le strette pareti di rupi e muraglie, tra scorci di vigneti, tra bagliori di specchi e il sole radente. Sfumature di blu più o meno luminescente, tonalità stratificate e screziate di un colore che sembra dispiegare una patina diafana e trasparente su tutta la tela. «Il blu è un contrappunto necessario alla luce» – dichiara l’artista in un’intervista – e di Glauco è il nome in cui è identificato l’enigmatico colore del mare.
«Le coste mediterranee non sono né Europa, né Asia, né Africa sono il Mediterraneo. Prendete genti provenienti dai quattro angoli più lontani e sparpagliateli lungo le rive del Mediterraneo, in breve soccomberanno al fascino del sesto continente e diventeranno mediterranei fino al collo. Il Mediterraneo, come le sue acque, è una storia blu e fluida dell’umanità».
Così Halikarnas Balikçisi (2014:15), il Pescatore di Alicarnasso, il grande scrittore turco, attribuisce a questo mare e al suo colore blu il potere di rimescolare e ibridare le diverse identità dei popoli e delle città che bagna.
Al mare rappresentato o immaginato resta sempre associata un’aura di minaccioso mistero, di incantati miraggi, in una parola, di metafisicità. Non sappiamo se Modica sia l’ultimo dei metafisici ma potremmo dire con Cacciari che la sua metafisica è “concreta”, dal momento che ogni cosa fisica rimanda ad un fine invisibile, non osservabile, non calcolabile, ad un limite ultimo del possibile. L’insistito simbolismo richiama con la presenza di parallelepipedi, sfere e rocchi di colonne, poetiche e modelli del mondo classico ma in questo teatro di rarefatto immobilismo introduce elementi della contemporaneità, della quotidianità, della comune vita materiale: un termosifone, un contatore del gas, una serranda calata a metà, una mattonella di ceramica scheggiata. Un dialogo tra passato e presente, tra tradizione e modernità, che si dipana sul filo dell’enigma che, come ha osservato Antonino Buttitta (2016: 39),
«non diversamente dall’oracolo, dal presagio, dalla profezia, dal sogno, se può apparire espressione di una non lingua oppure di una lingua segreta, di un gergo, in realtà segnala uno slittamento isotopico del linguaggio. È un’altra lingua che appartiene a un’altra realtà: un mondo altro, capovolto rispetto al mondo visibile».
E questo mondo ‘altro’, per certi aspetti ‘oltre’, è quello visionario che Modica insegue e inventa, quello invisibile che appare e dispare come Fata Morgana all’orizzonte ma anche quello perturbante dei presagi di guerra, delle tragedie del nostro tempo. L’assenza di ogni presenza umana è altro segno allusivo che aggiunge simbolo a simbolo, ulteriori elementi di mistero e di inquietudine, forse la metafora dell’eclissi dell’umanità e della sua coscienza collettiva naufragati insieme ai corpi dei migranti inghiottiti nel mare dell’indifferenza.
Il Mediterraneo è oggi più che mai un ideogramma., una imago mundi, la grande metafora della vita e della morte, sentimento prima di essere un’idea, qualcosa che nel suo ostinato andirivieni non può stare dentro i confini delle nostre convenzioni, delle nostre costrizioni. E l’arte che non è mai riproduzione della realtà né il suo banale doppio, è scrittura di sogni, poetica di interrogazioni e di visioni, testimonianza che è possibile un’altra realtà, un altro ordine sociale ed esistenziale. E Rotte mediterranee e visioni circolari di Giuseppe Modica si conferma opera di un pittore la cui sensibilità etica e civica lo fa diventare suo malgrado – come scrive Roberto Gramiccia (2008: 68) – «un giacobino della pittura, della qualità e dello stile intesi come contributo personale al grande cammino che l’umanità ha intrapreso da Altamira». Un giacobino che sovverte la realtà osservata, ne sfuma e contesta i confini – quelli determinati dalla fisica euclidea e quelli innalzati dalla xenofobia politica –, rivela accostando numeri e teschi cosa si celi dietro la statistica dei morti in mare (30 mila circa negli ultimi dieci anni, un vero e proprio bollettino di guerra): persone, famiglie, relazioni, progetti, speranze, vite. Alza il sipario sulla militarizzazione del Mediterraneo tracciando all’orizzonte nere sagome di navi da guerra schierate contro quelle delle organizzazioni umanitarie impegnate nei soccorsi dei naufraghi.
La pittura con pochi tratti allusivi – simboli, citazioni, figure di luce e segni in controluce, ombre intangibili di cose invisibili, risonanze e dissonanze – si fa stupore, epifania, indignazione, dissenso, pietas. Mostra e dimostra che l’arte pur interrogandosi non basta a se stessa, non è un sistema chiuso, incestuoso ed autoreferenziale ma è piuttosto aperto e permeabile ad altri saperi, ad altre pratiche umane, ad altre rappresentazioni. Non è luogo estraneo ai conflitti politici ma è ineludibile e irresistibile parte di essi. A fronte di un mercato subordinato alle logiche finanziarie e al dominio del capitale, l’artista può riscattare la sua libertà se ci aiuta a leggere la complessità del nostro tempo, se contribuisce a liberare gli occhi dall’effimero e rutilante velame mediatico, a ripensare e riorganizzare la grammatica dello sguardo reso sempre più opaco dalla iterazione e proliferazione che sottraggono senso alla insensatezza delle stragi. Tra visione e cognizione Modica connette immaginario, memoria e realtà in una mappa figurata che è anche un palinsesto di rifrazioni simboliche, concettuali, emozionali. Così da inventare e costruire il mondo che ci aiuta a conoscere e vedere meglio, spingendo il pensiero visivo al di là della soglia della comune umana percezione, restando l’immaginazione lo spazio elettivo della creatività artistica.
Lo scrittore Daniel Pennac (2024) ha affermato di recente in un’intervista: «Guardiamo la gente annegare nel Mediterraneo e intanto continuiamo a parlare dei nostri valori democratici. Me ne vergogno». Un clamoroso ossimoro in cui sembra implodere la nostra cecità davanti al naufragio della nostra stessa umanità. La pittura di Modica è un invito a tornare a guardare al Mediterraneo non come ad un mare di guerra e di morte ma come ad un orizzonte di speranze e di pace. Perché torni ad essere quello che è sempre stato: aperto e libero spazio dialogico di connessione e di interazione se non di integrazione, arteria di circolazione, teatro elettivo del viaggiare, del migrare, dello scambiare, del conoscere. «Alle genti di una riva – ha scritto Claudio Magris (2003: XIII-XIV) – quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo. “Dov’è la frontiera?” chiede Saramago sul confine fra Spagna e Portogallo ai pesci che, nello stesso fiume, nuotano, a seconda che guizzino vicino ad una sponda o a un’altra, ora nel Duero ora nel Douro»
Dov’è la frontiera nel mare? si chiedono i migranti che fisicamente, umanamente e dolorosamente ogni giorno avvicinano tra loro i popoli delle rive del Mediterraneo, costruttori di quel laboratorio del futuro in cui i confini sono destinati a spostarsi e le appartenenze a sfumarsi. Se è vero che è il mare che disegna la terra e gli dà forma e vita, se è vero che l’Europa è nata nel Mediterraneo, allora possiamo davvero leggere l’opera pittorica di Giuseppe Modica non soltanto come un monito della cattiva coscienza europea ma anche come una promessa, l’auspicio che la via mediterranea torni ad essere la strada maestra della navigazione sicura, dell’approdo protetto, dell’accoglienza e dell’asilo. Quell’intenso andirivieni in forma di periplo che è scansione millenaria della storia, sistole e diastole dei destini degli uomini, respiro insopprimibile della vita delle città mediterranee.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Riferimenti bibliografici
Balikçisi Halikarnas, cit. da Edhem Eldem, La Turchia e il Mediterraneo: una ricerca sterile?, in Cicekoglu, Eldem, Lo sguardo turco, Mesogea, Messina 2001: 69.
F. Braudel, Il Mediterraneo, Bompiani, Milano 1987
A. Buttitta, Mito fiaba mito, Sellerio, Palermo 2016
M. Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi, Milano 2023
M. Callari Galli, G. Harrison, L’alternarsi delle civiltà in un mare di culture, in “Storia, antropologia e scienze del linguaggio”, anno XXXIII, fascicolo 2-3, maggio dicembre 2028: 91-118
V. Consolo, Il viaggio di Odisseo, a cura di Mario Nicolao, Bompiani, Milano 1999
U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1987
F. Gambaro, Daniel Pennac: vi spiego perché non faccio più il bagno nel Mediterraneo, in Repubblica Robinson, 30 marzo 2024
R. Gramiccia, in Modica. La realtà dell’illusione. Opere 1083-2007, Catalogo Ente Mostra di Pittura Contemporanea, Marsala, dicembre 2007- febbraio 2008, Il Cigno GG Edizioni, Roma 2008.
C. Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori, Milano 2005
P. Matvejević, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano 1991
G. Modica, Atelier, 1990-2021, Catalogo della mostra tenutasi a Roma, Museo Hendrik Christian Andersen, 23 giugno- 24 ottobre 2021, Silvana Editoriale, Roma 2021
G. Modica, Rotte mediterranee e visione circolare, Catalogo della mostra tenutasi a Roma, Museo Hendrik Christian Anderson, 23 aprile-15 settembre 2024, Manfredi edizioni, Roma.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).
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