di Massimo Jevolella
Quando Giuseppe Laras – allora Rabbino Capo della Comunità ebraica di Milano, grande studioso del pensiero di Maimonide 1 – mi recitò lentamente il versetto 3 del secondo capitolo dell’Esodo, dove si narra del salvataggio di Mosè neonato nella cesta sulle acque del Nilo, io ebbi un sussulto. E lo pregai di interrompersi, perché volevo porgli una domanda. Quella parola ebraica, tēvāt, (tēvāt gōme: תבת גמא), ossia “cesta di papiro”, subito mi aveva ricordato che nel Corano (XX, 39) la cesta di Mosè si era curiosamente trasformata in una “cassa”, o “cassetta”, presumibilmente di legno, e che il suo nome era tābūt (تابوت). Che in arabo vuol dire anche e soprattutto “cassa da morto”, “bara”, come nel siciliano tabbutu, nel napoletano tavuto, nello spagnolo ataúd, che dall’arabo appunto derivano. Dunque, come poteva una cesta galleggiante, strumento di salvezza e quindi di vita, essere diventata una bara? E quale mistero doveva celarsi dietro a quelle coincidenze linguistiche? 2
Con grande pazienza, l’amabile Rav Laras mi spiegò che una delle prime regole grammaticali dell’ebraico è quella del cambio di desinenza del femminile, che nel caso costrutto (come appunto nell’espressione tēvāt gōme) da he (ה) si trasforma in tau (ת). Ed ecco infatti che nello stesso capitolo dell’Esodo, al versetto 5, la famosa cesta diventa una tēvāh (תבה), e non è più una tēvāt. Insomma, per dirla in modo un po’ scherzoso, non è più un vero tabbuto, ma una specie di tabù, con una leggerissima h aspirata finale. Tornando seri: la vera radice trilittera del nome ebraico non è dunque t-b-t, ma t-b-h, che nell’equivalente arabo assume invece la forma più decisa t-b-t.
E tuttavia, a dispetto di quelle precisazioni e distinzioni, il dottissimo Laras rimase anch’egli colpito dalla chiara, inequivocabile coincidenza dei termini che definiscono la navicella salvifica di Mosè nella Bibbia e nel Corano. Ma in più, per pareggiare i conti, mi rivelò anche un’altra cosa, che mi riempì di ancor più grande stupore. Sfogliò le pagine della Tōrāh fino a fermarsi sul versetto 14 del sesto capitolo della Genesi, laddove si narra del diluvio universale, e mi indicò tre parole: tēvāt ‘atsē-gōfer (תבת עצי גפר), ossia “un’arca di legno di cipresso”. L’arca di Noè! Proprio così: nella Bibbia, la parola tēvāt (in realtà tēvāh, come s’è visto), ricorre per designare sia la cesta di Mosè, sia l’arca di Noè. Due strumenti di salvezza, due imbarcazioni provvidenziali, poste sulle acque per dare inizio a una nuova era nella storia del popolo di Dio.
Così il mistero cominciava a chiarirsi, e a illuminarsi di imprevisti significati. Eppure, qualcosa mancava ancora per dare un senso perfettamente comprensibile a quella coincidenza lessicale, che da una cesta, un naviglio, un’arca, conduceva fino alla cassa e al “tabbuto”. Ma bastò poco per colmare anche quel vuoto. Per stabilire un ponte anche concettuale fra la tēvāt biblica e il tābūt coranico. E quel piccolo elemento chiarificatore mi giunse inaspettato, poco tempo dopo, quando lessi il commento ai versetti 14-16 della Genesi nell’edizione curata da Emanuele Testa per le Edizioni Paoline 3. Scrive dunque il commentatore nella nota a quei versetti:
«Il nome dell’arca, tēbāh (greco: χιβωτός) che si ritrova solo qui e in Esodo 2, 3.5 dove indica la cesta entro cui fu salvato Mosè, si riallaccia con ogni probabilità all’egizio teb (t) “cesta, sarcofago” – cfr. Tebe, la città dei sarcofaghi – e forse all’accadico tabû, che raffigurerebbe la processionale barca degli dèi, oppure all’accadico elippu tibutu (una specie di nave). L’arca, nei racconti più antichi, doveva risultare una specie di cesta grande, rotonda, di vimini; nel testo biblico attuale è un galleggiante parallelepipedo, costruito con legno gōfer, probabilmente di cipresso (giparru), plasmato dentro e fuori con del bitume» 3.
Queste parole hanno qualcosa di stupefacente. Lasciano intuire, e immaginare, l’abisso temporale e culturale su cui s’affaccia e galleggia questa bizzarra parola siciliana, tabbuto, che sbrigativamente ci si limita a spiegare come un termine derivato dall’arabo: una cassa da morto, e nulla più. E invece… E invece ecco apparire, facendo luce in quell’abisso, non solo i racconti della Bibbia e del Corano, ma anche gli idiomi e i miti, ancora più antichi, dell’antico Egitto, della città di Tebe (t-b-h: la nostra tēbāh!) e delle civiltà mesopotamiche (del resto sappiamo bene come la vicenda biblica del diluvio, dell’arca e di Noè abbiano il loro antecedente nella storia archetipica di Utanapishtim narrata nell’epopea di Gilgamesh).
Ed ecco rivelarsi, come nel mito di Iside e di Osiride narrato da Plutarco, l’assoluta equivalenza di senso tra la cesta-navicella-arca di salvezza e la bara: è la barca di Osiride, che conduce verso l’Egitto il corpo del dio morto, e dove si consuma lo hieròs-gamos tra Iside e Osiride 4. La bara è dunque una barca: perché la morte è salvezza, dal momento che conduce il defunto verso una nuova vita. E basti pensare, appunto, all’ampia iconografia delle “barche funerarie” (oltre che delle barche dei campi elisi, delle barche lunari e solari, e di quelle processionali) presenti nelle raffigurazioni egiziane 5. Il simbolismo della navigazione è perfetto e universale: la stessa Chiesa cristiana lo accoglie come immagine chiara della sua missione salvifica ed escatologica. E il tempio cristiano tradizionale cos’è se non una nave (suddivisa in navate) che conduce le anime verso la vera vita?
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] Il rabbino Laras è morto all’età di 82 anni il 15 novembre del 2017. L’episodio che qui rievoco si è svolto una mattina di primavera del 1984 nel suo studio, nella grande Sinagoga di Milano in via Guastalla, dove lui il venerdì di ogni settimana, tra le 11 e le 12, mi impartiva in quel tempo lezioni di ebraico biblico gratis et amore Dei. Della nostra intensa amicizia è rimasto come frutto anche un libro: una piccola e preziosa antologia talmudica, che gli commissionai negli anni ‘90 per le edizioni Red di Como nella collana “Spazio interiore” che allora dirigevo: Racconti dal Talmud, a cura di Giuseppe Laras, Como 1998; riedizione con Boroli Editore, Milano, 2003 (Maurizio Rosenberg, altro finissimo intellettuale dell’ebraismo italiano degli ultimi decenni, era stato il fondatore della Red, e ne era in quell’epoca l’Editore, prima di cedere la sua “creatura” a Silvano Boroli).
[2] Occorre precisare che la “v” di tēvāt è la forma di pronuncia addolcita della “b”, che è in effetti la consonante centrale della radice trilittera del nome, in ebraico esattamente come in arabo: ed ecco la ragione del mio sussulto di meraviglia.
[3] Genesi, Roma 1976: 106-107. La fonte del commento di E. Testa è sicuramente nel Grande lessico dell’Antico Testamento, Brescia 2009, vol. IX: 963-964, che ho potuto consultare solo di recente presso la Biblioteca del Seminario vescovile di Mazara del Vallo, e che alla voce tēbâ aggiunge molti altri importanti chiarimenti sull’argomento.
[4] Joseph Campbell, Le figure del mito, Como 1991: 23: «La dea rivelò allora la propria identità, ottenne il permesso di estrarre la bara dello sposo dalla colonna e la fece caricare su una barca regale. Navigando con il sarcofago dell’amato verso l’Egitto, Iside tolse il coperchio, si sdraiò sul corpo dello sposo morto, accostò il viso al viso di lui e, abbracciandolo e piangendo amaramente, concepì».
[5] Si veda: Boris de Rachewiltz, I miti egizi, Milano 1983: 50-56.
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Massimo Jevolella, si laurea in filosofia nel 1974 con Remo Cantoni con una tesi sull’utopia surrealista. Fin dal 1979 si dedica allo studio del pensiero islamico ed ebraico medievale. Negli anni ‘80 collabora con la rivista “Studi cattolici” e con l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano. Pubblica articoli sulla rivista “Acme” della Facoltà, traduce testi filosofici dall’arabo (come il Libro dei cerchi di Ibn As-Sid al-Batalyawsi, Arché Editore), ed entra in contatto con i professori Giuseppe Sermoneta e Shlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme (dove nel 1985 partecipa a un convegno internazionale su Maimonide, con uno studio sulle fonti arabe della profetologia nella Guida dei perplessi). Negli anni ‘90 dirige la collana di libri “Spazio interiore” della Red di Como. Nel 1991 pubblica il libro di saggistica-narrativa I sogni della storia (Mondadori Oscar). Seguono i saggi: Non nominare il nome di Allah invano (Boroli 2004, con postfazione di Franco Cardini); Le radici islamiche dell’Europa (Boroli 2005); Saladino eroe dell’Islàm (Boroli 2006); Rawà, il racconto che disseta l’anima (Red 2008); la traduzione dall’arabo e curatela del Collare della colomba di Ibn Hazm (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2010); l’antologia coranica Corano, libro di pace (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2013). La traduzione integrale in prosa e curatela del Romanzo della Rosa di J. De Meun e G. De Lorris (Feltrinelli UE 2016). Torna sul tema dell’utopia con uno studio sulla “città ideale” dei filosofi arabi, pubblicato nel 2012 sui “Quaderni di studi Indo-Mediterranei”. Intensa la sua attività di conferenziere, fin dai primi anni ‘80 e in molte città d’Italia, indirizzatasi sempre più sul versante del dialogo interreligioso e interculturale. Di recente, ha fatto dono degli oltre 700 volumi della sua biblioteca di cultura islamica ed ebraica alla Biblioteca del Seminario Vescovile di Mazara del Vallo (Fondo Jevolella).
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