CIP
di Antonietta Di Vito
Nel piccolo centro di Palata, fra Campobasso e l’Adriatico, la cronaca di un’intensa assemblea cittadina durante la quale si è discusso di tutela del territorio, impoverimento dell’agricoltura e proliferazione d’impianti che snaturano l’identità locale. Un caso che ne racconta molti altri.
«La bellezza è importante»: così recita uno degli striscioni che hanno fatto da sfondo alla piazza che ha ospitato un’affollata e ricca assemblea pubblica cittadina a Palata (Campobasso) il 18 luglio scorso. L’occasione era offerta dalla notizia di un progetto di parco ovivoltaico di 43 ettari nell’agro del comune, in un sito non distante dalla valle del Biferno e reso noto da un servizio del Tgr Rai Molise pochi giorni prima, il 5 luglio. Un’assemblea durata oltre tre ore e mezza e che avrebbe potuto proseguire per altrettante, visti i temi sollevati, l’interesse suscitato, la densità delle voci intervenute.
Fra locale e globale
Una questione locale che evoca però scenari molto più vasti, di cui è effetto e conseguenza. Oltre agli interventi di Nicoletta Radatta (del Comitato Salvaguardia del Territorio), di Rossano Pazzagli e Luigi Mastronardi (docenti rispettivamente di Storia moderna e contemporanea e di economia presso Unimol), molte sono le considerazioni avanzate dal pubblico composto da cittadini, turisti ma anche amministratori locali e regionali, tecnici e funzionari di comuni limitrofi, operatori nel campo agricolo, avvocati, rappresentanti di associazioni ambientaliste. Segnaliamo per tutti Teresa D’Uva, di Slow food Molise, e Pina Negro, delegata WWF per il Molise.
Terreno di conquista
Rinnovabile, come è emerso dal dibattito, non equivale necessariamente a sostenibile. E l’abbandono delle campagne – frutto di politiche che sono state l’espressione di precisi modelli di sviluppo che datano sin dall’Unità d’Italia e che hanno sacrificato il lavoro agricolo della regione – non può diventare il pretesto per un assalto al territorio speculativo ed irreversibile. Il Molise, come viene ribadito da più voci, non si è ancora dotato di un Piano Paesaggistico Regionale con il conseguente abbassamento del livello di tutela che ne fa un facile terreno di conquista, compromettendo ambienti di coltura ma anche prospettive di sviluppo turistico. Questa situazione crea le condizioni per una mancanza di “equità territoriale” tra le Regioni, con aree il cui paesaggio e le produzioni agricole sono tutelate, ed altre il cui paesaggio sarà irrimediabilmente compromesso.
Regione spopolata
Il Molise è l’unica regione italiana che oggi ha meno abitanti di quanti ne avesse al momento dell’Unità. I dati devono essere problematizzati ed interrogati, perché anche aspetti apparentemente positivi possono nascondere in realtà il disinvestimento complessivo, con conseguenze sul dissesto del territorio e le vite dei cittadini: come l’aumento delle aree boschive passate dal 24% del 2014 al 34% del 2024. Suolo quindi come ecosistema, habitat complesso che svolge funzioni non solo di produttività agricola ma anche a garanzia della biodiversità e del benessere complessivo di un territorio: solo partendo da riflessioni che prendano in considerazione tutte le sue funzioni si può davvero valutare quale potrebbe essere l’impatto di opere che condizioneranno non solo le superfici occupate e che genereranno delle derivate di più ampia portata nello spazio e nel tempo a partire dalle alterazioni del ciclo degli insetti impollinatori con conseguenze difficilmente prevedibili.
Così, se un singolo terreno è un bene privato esso ha però effetti sul benessere collettivo e sul paesaggio come bene comune, frutto della storia e del lavoro di uomini e donne di cui è monumento e documento vivente.
Le proposte dell’assemblea
Emerge dall’assemblea la proposta di una moratoria di 18 mesi che potrebbe permettere di individuare superfici alternative (fabbriche o capannoni dismessi, per esempio), insieme alla necessaria condivisione di tutte quelle conoscenze complesse e crescenti che uniscano saperi tradizionali e aspetti normativi interagenti e che consenta a territori e cittadini di intervenire nel loro reale interesse condiviso rispetto a un bene comune. Appare così necessario rivalutare quell’“intelligenza contadina” troppo spesso ed erroneamente svalutata ed abbandonata, che permetteva di selezionare, piantare, coltivare prodotti che si rivelavano saporiti al gusto e nutrienti, mentre la coltivazione delle piante, con radici meno superficiali, era anche cura e manutenzione di territori che oggi appaiono violentati quando non sono abbandonati. La questione agricola appare il cardine di molte analisi, ed è strettamente connessa a quella alimentare, ma anche alle possibilità di valorizzazione turistica.
A chi conviene?
Chercher l’argent si è tentati di dire: a fronte della riduzione del potenziale alimentare del territorio, e del sacrificio di un territorio deprivato del suo potenziale di naturalità, chi trae davvero beneficio economico da queste opere? E davvero la posta in gioco è il miglioramento delle condizioni energetiche e non invece una speculazione ammantata di termini accattivanti (come quello di “parco”)? E tra il serio e il faceto si fanno strada altre riflessioni non meno pertinenti: in che modo l’introduzione di sistemi “ovivoltaici” in un’area non a vocazione pastorale indurrà le greggi a brucare sotto i pannelli prima di una sufficiente valutazione dell’alterazione dei pascoli che questi ultimi produrranno?
Sapere contadino
Un’agricoltura in crisi che rende appetibili le proposte di conversione di aree agricole in aree destinate alla produzione di energia: ma la crisi dell’agricoltura non è una fatalità, è invece l’esito di precisi modelli di sviluppo. Le politiche – quelle nazionali e quelle locali – non hanno davvero perseguito la tutela dell’agricoltura anche attraverso misure di stabilizzazione dei redditi (se non in maniera apparente, come l’immissione sul mercato di macchine agricole sempre più grandi e costose che però hanno favorito più l’industria che le produce che l’agricoltura e i territori) e quindi la produzione del cibo locale condannando a morte l’economia rurale: a partire dal mancato utilizzo di prodotti locali nelle mense scolastiche a favore di produzioni industriali (malgrado la retorica del “km zero”). Teresa D’Uva, presidente di Slow Food Molise illustra con chiarezza questo dato: se cinquant’anni fa il grano veniva pagato agli agricoltori circa 60.000 lire a quintale, oggi la cifra rimane per lo più invariata, ed un quintale viene pagato 30 euro e anche meno. Il cibo deve essere buono, pulito e giusto, recita lo slogan di Slow Food, e “giusto” lo è a partire dal fatto che deve essere pagato in modo equo il lavoro agricolo. Il lavoro contadino deve essere “onorato”, dice nel suo intervento Patrizia Manzo, già consigliere regionale.
Il valore del cibo
Oggi abbiamo ancora la scelta del cibo che possiamo consumare, che sia a km zero o biologico, o perfino industriale, ma cosa ne sarà quando a coltivare i terreni non ci saranno più i contadini, il cui lavoro è reso di fatto impossibile? Potremo ancora scegliere quale tipo di cibo consumare? Dal punto di vista dei territori, bisognerebbe inoltre riconoscere il valore che essi hanno nelle vite delle persone. E Pina Negro, presidente del WWF Molise chiede l’apertura di un tavolo con le Regioni anche sull’eolico a mare, per l’ovvio ancorché non facilmente stimabile impatto sugli ecosistemi marini, paesaggio e benessere complessivo.
I territori ed i suoi abitanti devono quindi tornare protagonisti, soprattutto se a trarre vantaggio da opere che avranno ricadute nel tempo con alterazioni non reversibili non saranno i territori stessi interessati.
Quale modello per la transizione
Un lavoro contadino deprezzato che impedisce di fatto alle nuove generazioni dei figli dei contadini di proseguire il lavoro dei padri a favore di progetti che non lasciano spazio ad altri modelli di sviluppo, speculativi e ricattatori attraverso la morale del “rinnovabile” ed ecologico, come se chi si oppone a questo rinnovabile sia a favore del fossile, bloccando sul nascere la possibilità di una discussione in materia. E poiché gli impatti sui territori non sono facilmente reversibili, invece, bisogna riflettere bene sui modelli di transizione. Un’alterazione del paesaggio che oltre ad avere un impatto fortissimo, come si è visto, sul lavoro contadino e sulla produzione di cibo, diventa un vero e proprio elemento di degrado, un “detrattore ambientale”, come ricorda uno dei tecnici intervenuti: insomma un elemento che fa allontanare il turismo, una sorta di Pietà di Michelangelo al contrario.
Ricominciare dalle comunità energetiche
La situazione del Molise da questo punto di vista è emblematica di quello che accade anche in altre aree e Regioni: senza un consenso condiviso gli impianti per l’energia rinnovabile rischiano di essere un attacco violento e antidemocratico, in cui l’economia speculativa e predatoria appare dotata di un potere indiscusso e indiscutibile. La rinascita deve partire dai territori, anche attraverso la creazione di comunità energetiche che possano fare scelte davvero sostenibili e condivise. Così come deve essere perseguito l’efficientamento energetico accanto, se non in alternativa, a realtà di consumo illimitato e vieppiù crescente.
Se rinnovabile non significa sostenibile
Modelli di sviluppo e modelli energetici quindi. Rinnovabile infatti non è sinonimo di sostenibile. Se rinnovabili sono le fonti (sole, vento) non altrettanto rinnovabili sono le materie prime necessarie per la costruzione degli impianti (né sostenibili). Più adeguata appare invece una transizione “dolce” che preveda la compresenza di più opzioni energetiche, anche in considerazione di nuovi sviluppi in materia di ricerca che potrebbero rendere velocemente desueti gli impianti attuali rendendone necessaria o opportuna la dismissione con i conseguenti costi di smaltimento.
La voce di Palata
Per questo la voce che si leva da Palata è importante. «Il Molise non esiste» potrebbe smettere di essere un simpatico tormentone per invitare a visitare una bella regione da scoprire, rappresentando invece la mera descrizione di una realtà di fatto. Da Terra promessa, quasi luogo di primigenia naturalità, a cui guardare in cerca di autenticità, a territorio da saccheggiare. Sostituendo all’abbandono la speculazione.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Antonietta Di Vito, specialista in antropologia e didattica dell’italiano come L2, lavora nel campo della ricerca sociale e della formazione. Si è occupata di questioni classiche legate all’antropologia economica, dall’antiutilitarismo al dono, di etnografia scolastica e temi di antropologia della salute e della malattia. È autrice di diversi saggi e monografie. Si segnalano: Dono ed economie informali. Saggi di Antropologia economica, Roma, (2008) “Un antropologo nella scuola: dall’assimilazionismo all’intercultura” in AA.VV. Identità mediterranea ed Europa. Mobilità, migrazioni, relazioni interculturali, CNR-ISSM Istituto di studi sulle società del Mediterraneo, (2009); “La smart city come nuova utopia urbana”, nel volume collettaneo, Abitare insieme. Living together, Napoli, CLEAN Edizioni (2015). Ha inoltre tradotto inoltre Alfred Métraux, La commedia rituale nella possessione (Antropologia, anno I, n. 1, 2011) e Marc Abélés, Politica gioco di spazi, per Meltemi, Roma. (2001). Nel 2021 ha pubblicato per i tipi de La Bussola La teoria della carruba. Con brevi accenni a come non ho imparato a cucinare, a carattere narrativo.
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