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Realtà e finzione sillabati in un enigmatico alfabeto notturno

savina-d-massa-_cop-web_perche-il-vento_2024-599x1024di Costantino Cossu 

«La discrasia tra visibile e invisibile nelle mani di Savina Dolores Massa diventa duttilità generativa tra pensare e sentire, nel solco che da Cristina Campo fa sponda con Maria Zambrano. Lo dice bene Izta, protagonista di queste pagine, che, al pari di molte delle donne al centro dei romanzi di Massa – da Maddalenina di “Mia figlia follia” (2010) a Elsa di A un garofano fuggito fu dato il mio nome (2019) – ci interroga su quanto ignavi e stolti siano gli umani che non conoscono la forza di raccogliere e rilasciare il tempo. Perché in fondo è questo ciò che dà la stoffa nascosta della sua scrittura, conduce la parola al limite di un realismo magico ammonendoci si tratti dell’altra parte di un’esperienza diretta del mondo, fatto di spettri con cui fare amicizia, presagi poco indulgenti e ossessioni che ne slaccino la dittatura terrestre per aprirsi a una vista di presenze anarchiche sottilissime».

Così Alessandra Pigliaru sul quotidiano il manifesto nella recensione dedicata a Lampadari a gocce (2020). «Discrasia tra visibile e invisibile», «duttilità generativa tra pensare e sentire», la pratica della letteratura come «l’altra parte di un’esperienza diretta del mondo»: tutti tratti essenziali della scrittura di Savina Dolores Massa confermati dall’ultimo dei romanzi della scrittrice di Oristano, Perché il vento era nero, appena pubblicato dalla casa editrice nuorese Il Maestrale. Tratti che compongono la trama di una sensibilità di cui Pigliaru individuava antecedenti letterari molteplici:

«Nel corpo sontuosamente imperfetto di Izta gravitano, per altri continenti, quello della Blimunda di José Saramago, della figlia dell’insonnia di Alejandra Pizarnik, delle donne dagli occhi grandi “come un desiderio” di Ángeles Mastretta e infine di Aracoeli di Elsa Morante. Anche Savina Dolores Massa ci consegna una grande e definitiva storia d’amore, in cui il viaggio iniziatico delle sue protagoniste e protagonisti ha il peso solitario di una radice acquatica e l’intensità di una voragine di viscere calde, di nomi raddoppiati che sono montagne o divinità dal passato misterioso fino a ogni sillaba espunta al creato, inerme e originaria come una lallazione di bambino. Non si arriva da nessuna parte, come nel gioco di “Rayuela” di Julio Cortázar, anzi scomponendo l’ordine della lettura si possono riconoscere altri rintocchi del mondo. Accade alla letteratura quando diventa labirinto inquieto di anime notturne, perdute e ritrovate dopo milioni di anni».

s-l1600Savina Dolores Massa è al suo ottavo romanzo. Il primo, Undici, fu pubblicato nel 2008 ed entrò nella rosa del Premio Calvino. Tutti portano il marchio de Il Maestrale, che ha in catalogo tanti tesori, di scrittori sardi (Salvatore Mannuzzu, Giulio Angioni, Alberto Capitta, Giorgio Todde, Maria Giacobbe, Marcello Fois, Milena Agus, Salvatore Niffoi tra gli altri), ma anche di autori non isolani: Patrick Chamoiseau, Heman Zed, Matayoshi Eiki, Hibert Hadad, Luca Ciarabelli, Giulio Neri.

In Perché il vento era nero la storia è quella di un gruppo di bambini senza famiglia che cercano di fuggire da un orfanotrofio – istituzione totale separata dal mondo come un incubo dalla veglia – gestito dalle suore nelle campagne di Aristànis  (il nome vecchio di Oristano). Il tentativo avrà un esito infausto. Soltanto un ragazzino e una ragazzina, Tommaso e Lisabè, riusciranno a farcela. Agli altri toccherà una sorte terribile. Conquistata la libertà, i destini di Tommaso e di Lisabè resteranno divisi per anni, sino al compimento, per entrambi, della maggiore età. Quando le loro vite finalmente si riallacceranno, accadrà ancora nell’orfanotrofio in cui domina, dispotica e tragica, Suor Dolores degli Angeli.  E sarà per una nuova fuga, un viaggio allucinato negli antichi sotterranei (la “città di sotto”), che correvano sotto Aristànis e che ancora segnano di cavità la moderna Oristano. Il vento nero che batte queste viscere oscure alza il velo sull’irrimediabile assenza di senso che, ieri come oggi, inaridisce la vita degli abitanti della “città di sopra”. 

Salvina Dolores Massa

Savina Dolores Massa

È dunque un romanzo onirico, Perché il vento era nero.  L’immaginazione è sovrana e viene messa al servizio di uno sguardo sulla realtà privo di qualsiasi intento consolatorio, fermo nella sua lucida capacità di analisi anche quando prende la via dell’ironia e a volte del sarcasmo, con un narratore, in aggiunta, che arriva a discutere delle scelte narrative con i suoi ipotetici lettori e spesso con essi polemizza. Lo sguardo che esplora l’oscurità dei sotterranei del mondo – orfano della luce ingannevole della comune ragione cui sono asserviti gli abitanti della “città di sopra”, ciechi perché dimentichi di ogni memoria – è il solo che può forse aspirare a una qualche parziale verità:

«E dunque, sono davvero i ciechi della città di sopra a lanciare i segnali di allarme? O io che ho deciso di scriverne armeggiando con la confusione? Forse sarebbe meglio dare alle fiamme tutta questa mia verbosità spesa parlando di cunicoli, occhi, matti e passato da tutelare. Purtroppo non so esimermi dal pensare che nessun trascorso è mai da considerarsi concluso».

La cieca smemoratezza degli abitanti della “città di sopra”; la chiaroveggenza nutrita di memoria degli esploratori, giovani e folli, dei meandri oscuri della “città di sotto”. Il confine tra reale e irreale si fa allora, nel racconto, progressivamente indistinguibile, in un crescendo in cui tutto, alla fine, ha la consistenza niente di più che di un fuoco fatuo. Una fiammella che torna dal passato per illuminare, ma appena di una luce debole ed evanescente, il presente. E se nel buio dei sotterranei lo sguardo diventa allucinazione, è perché soltanto l’immaginazione può accogliere in sè, com-prendere, il mondo e riscattarlo (chissà se poi davvero e in quale misura) dall’inautenticità e dal dolore.

Svelando, con un colpo di scena finale, la sua vera identità, il narratore confida ai i lettori:

«Credo, sforzandomi di comprendere questo malloppo di parole, di essere capitato casualmente in un vero inferno, appartenente ai vivi quanto ai morti. Una deliziosa mescolanza di fascinazione nella quale sono rimasto intrappolato: non ho altre ragioni da servirvi con gran lusso. Sono mortificato dalle mie stesse gesta di scrivano, afferrato per il collo dal costante e infinito riflettersi delle immagini, spose per sempre della fantasia. I baratri delle cecità sono il cuore di questa storia».

Realtà e finzione indistinguibili; vivi e morti, presente e passato, memoria e oblio tenuti insieme da un enigmatico alfabeto notturno. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024

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 Costantino Cossu, giornalista, ha studiato a Sassari al Liceo Azuni e a Urbino alla Scuola di giornalismo e alla facoltà di Sociologia dell’Università “Carlo Bo”. Dal 1993 al marzo del 2022 ha curato le pagine di Cultura del quotidiano La Nuova Sardegna. Dal 2004 collabora con il quotidiano Il Manifesto. Ha collaborato con il settimanale Diario diretto da Enrico Deaglio e con la rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi e collabora con le riviste Gli Asini e Doppiozero. È stato docente a contratto nel corso di laurea in Scienze della comunicazione dell’Università di Sassari. Per la casa editrice Cuec ha curato il libro Sardegna, la fine dell’innocenza; e per le Edizioni degli Asini il libro Gramsci serve ancora?

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