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Che ore sono. Sospensioni d’ombre e di luce

da Che ore sono?

da Che ore sono di Marta Bossi e Tito Puglielli

di Valeria Dell’Orzo 

«Le prime teogonie ci mostrano Prometeo incatenato a una colonna, ai confini del mondo, Martire eterno per sempre escluso da un perdono che egli rifiuta di sollecitare» (Camus, 2016: 35), perché, pur nello strazio imperituro, di quelle colpe non è reo, quella condotta trova la sua rivendicazione in un sistema cieco e privativo.

Che ore sono è immagine di un ponte sospeso verso un mondo esterno, distante e limitato dalla sua eletta normalità, è un appiglio sulla rassicurante ritmicità dei tempi scanditi del centro di cura, uno squarcio sul vivere degli ospiti; è il manifestarsi dello stimming che si declina in molteplici forme per ottundere l’ansia del vivere, in una consolazione ripetitiva che rassicura.

Non sempre è possibile trovare il proprio posto in un mondo che non sa ascoltare altro da ciò che ha eletto a misura di sé, dell’adeguato, del “normale”. Non sempre si può essere impermeabili verso le innumerevoli brutture della vita. A volte si può trovare nell’alterità la propria lente di lettura del mondo, sia questa una protezione o una risposta indotta e Che ore sono ci mostra, con discrezione e franchezza, quanto labili siano i confini tra il conforme e l’alterazione, quanto imprevedibile sia, nell’intimo umano, l’esito del proprio sguardo sul mondo.

«Abbiamo constatato che l’attitudine più radicale del regime notturno dell’immaginario consisteva nel rituffarsi in un’intimità sostanziale e nell’installarsi, attraverso la negazione del negativo, in una quiete cosmica dai valori invertiti, dai terrori esorcizzati dall’eufemismo. Ma già tale atteggiamento psichico era gravido di una sintassi della ripetizione nel tempo» (Durand, 2013:.347). Le ore, personificazione classica delle stagioni, le troviamo moltiplicate su quattro orologi, fermate ai polsi nell’immobilità delle lancette, osservate nel loro scorrere quale espressione di un tempo asincrono e plurimo, non lineare, non omologato ma variabile e rassicurante, eppure liberamente disallineato dal canone convenzionale uniformante.

da Che ore sono?

da Che ore sono

D’incontro in incontro, di vita in vita, Che ore sono ci permette di muoverci «… da un orizzonte intraspecifico a un orizzonte interspecifico; da un’economia umana del desiderio – desiderio storico mondiale, probabilmente; […] e non desiderio familiare, personologico, edipico; ma desiderio comunque umano – a un’economia di affetti transpecifici che ignorano l’ordine naturale delle specie e le loro sintesi limitative, connettendoci per disgiunzione inclusiva al piano dell’immanenza», per usare le parole di Viveiros de Castro (2017:143).

Il film, di Marta Basso e Tito Puglielli, ci fa scivolare con delicata crudezza all’interno di una comunità psichiatrica, non ci sono picchi di esasperazione, non si denunciano condotte maltrattanti, gli ospiti conducono, sia pur nel ciclico sconforto di una limitata libertà, un quotidiano fatto di relazioni e cura reciproca. Eppure nei loro sguardi, nelle loro parole e nei loro silenzi c’è il soffrire, c’è il dolore che ciascuno si porta dentro, il rammarico di non aver risposto alle aspettative della società o di non aver sostenuto i macigni di vite troppo difficili per non lasciare il segno. Questo universo del sentire possiamo scorgerlo nelle tante sfaccettature che, silentemente, assume scorrendo. «Persino la geometria pura cui perviene talvolta la pittura astratta chiede ancora al mondo esterno i suoi colori e i suoi rapporti prospettici. Il vero formalismo è silenzio. Allo stesso modo, il realismo non può fare a meno di un minimo d’interpretazione e d’arbitrio. La migliore fotografia già tradisce il reale, essa nasce da una scelta e dà un limite a ciò che non ne ha» (Camus, 2016: 294).

Seguendo il filo intrecciato delle vite dei degenti, a tratti narrato, talvolta taciuto in un improvviso ammutolirsi, altre inteso dall’insieme di frammenti che abbozzano un profilo complesso, ci troviamo circondati dal dolore degli affetti negati, delle famiglie perdute, dei traumi mai risolti, della solitudine e di una speranza tanto agognata quanto spaventosa nella sua realtà inarrivabile.

Ci immergiamo in un vissuto reale, concreto, non più distante e relegato ai margini, ma quotidiano e familiare, intimistico e non fenomenologico poiché «Ci sono […] “verità soggettive” più fondamentali per il funzionamento costruttivo del pensiero rispetto ai fenomeni» (Durand, 2013: 489).

1b6f309feda5f4bcd1abca7a21d5d378376c34c68e8044c4fde84cb49ce3c86bIl senso di abbandono diventa esso stesso malattia, cassa di risonanza del dolore di un’affettività negata. Si palesa il bisogno di ricostruire quei nuclei sentimentali che ai pazienti sono stati strappati o che, da loro, hanno preso le distanze, e attraverso un’assenza costante ne respingono i richiami.

Il telefono di Bianca chiama, chiamate alla figlia solo in uscita senza alcuna risposta, esasperando il silenzio dell’oblio che la comunità esterna manifesta nei confronti di vite fragili e preziose, che in se stesse hanno amplificato i dolori del mondo fino a diventare gangli serrati di un male profondo e inestinguibile dal quale non hanno trovato riparo, trascinati in un reale che li spaventa ma del quale con lucido spirito critico e analitico colgono orrori e bassezze, miserie e meschinità.

Rimasta sola senza la compagna di camera, Ursula, in un pianto che sgorga dalle profondità di un vissuto troppo duro per essere raccontato, fino a diventare soffocante, dice che allora è meglio andarsene da lì. Sente di essere rimasta sola, di avere ancora una volta perso qualcuno a cui vuole bene. Il senso intimo del ricovero era, per lei, racchiuso nella possibilità di creare e mantenere rapporti interpersonali ormai persi nel mondo esterno, ma se anche lì questi vengono a mancare, a cosa serve rimanere nel centro? A cosa serve cercare di supplire a quegli affetti mai avuti, o spezzatisi troppo presto, se si finisce ancora e ancora col perderli nel tuffo di un’illusione, di un altro strappo, di una stanza rimasta troppo vuota per arginare un baratro così profondo?

“Ho paura della gente” – sono le sue parole mentre in auto, con un operatore, attraversa la città – “È come se io… là dentro mi sento protetta. Appena vedo persone strane […] mi scanto”.

Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Edizioni Dedalo, Bari, 2013.

da Che ore sono

Che ore sono ci accompagna lungo lo scorrere di vite troppe volte invisibili, cancellatesi nel precipitare dell’oblio nel momento stesso della loro estromissione da quel contesto sociale che elegge se stesso a misura del mondo. Bolle sospese in uno stigma da sostenere, da ammortizzare nella ripetizione rassicurante di un frammento di conforto, di un momento che è pieno e reale solo se riempito e scandito, monitorato e circoscritto dalla sua definizione, ripetuto nella sua manifestazione fisica o verbale. Che ore sono sospende il tempo agito e rigonfia di senso il tempo del sentire, del ricordare, quello del volere dimenticare, esorcizzare, allontanare.

Dallo stupore per la scoperta di un registratore, la curiosità viva e esplorativa  di Giuseppe si manifesta con analitica e lucida critica sociale nell’ipotesi di intervistare solo i giovani, gli adulti no, un no secco, senza esitazioni, che mostra l’idea di una corruzione etica, di una vacuità matura che ancora nei giovani è inesistente, presi da quella scintilla vitale che risiede, in loro come in lui, nell’apertura alla scoperta, alla curiosità, alla visione delle cose del mondo e ancora scevra dalla corruzione.

“Il mondo è sporco”, lo ha visto coi suoi occhi gonfi e buoni, Giuseppe, con quegli stessi occhi che con cristallina meraviglia si illuminano sentendo la propria voce registrata, sentendo un profumo elegante o di fronte a un cappellino di lana vinto giocando a tombola, quegli occhi che si bagnano in un abbraccio di congedo e che hanno assistito al pregiudizio e alla negazione, che lo hanno visto respinto come un disturbo da risolvere. Quando ciò che ti circonda non ti vuole, non ti riconosce nell’unicità irripetibile del sé, «il rumore isola», così quella musica ad alto volume che lo ha reso oggetto di segnalazioni e allontanamento, «[…] moralmente dispensa dall’attenzione nei confronti degli altri. La difesa psicologica, l’indifferenza tattica che aiutano a affrontare l’aggressione si rivelano a lungo termine un ostacolo per una migliore integrazione sociale» (Le Breton, 2018: 129). In Giuseppe troviamo l’educazione affettiva auto-costruita, tessuta di dolori mai sopiti eppure appena accennati nella stilizzazione della sua vita, incontriamo la gratitudine di fronte a ciò che è immagine di accudimento, l’importanza di una gioia esternata e la discrezione di dispiaceri lasciati scivolare nel racconto dell’io senza enfasi.

Scena dopo scena, il mondo esterno continua ad apparire, allo spettatore come ai degenti, dietro una cancellata, dietro persiane lasciate appena a filtrare la luce, dietro i vetri di una finestra o quelli di una porta che si apre come una veranda sull’aria esterna, su una proiezione del reale vicino, quasi tangibile, eppure distante, scisso da un diaframma fittizio che segna il margine di un’esclusione incidente, ingombrante, ma iniziamo a vedere la sua evidenza di limite, la cecità del fuori verso il dentro.

da Che ore sono?

da Che ore sono di Basso, Puglielli

Il film di M. Basso e T. Puglielli ci mostra una nuova prospettiva del mito della caverna: è il mondo esterno che appare incapace di decifrare le ombre di ciò che ha enucleato in quanto difforme e che distorce, nella narrazione di ciò che non conosce, quelle vite invisibili. I degenti invece, sfidando le proprie ritrosie, affronteranno il mondo esterno per dar vita a una rappresentazione teatrale, si tufferanno con libertà del sentire nello stordente flusso umano della più sentita festa religiosa della città. Superate le paure di un labile confine si riverseranno fuori dalla caverna che li accoglie per festeggiare, con quella comunità esterna e escludente, un momento collettivo di condivisione dell’entusiasmo, del senso di appartenenza racchiuso tra i colori della bandiera di una squadra di calcio cittadina. Nel farlo, fuori da quel cancello, si sporgeranno su una strada semideserta di periferia, ad ascoltare in lontananza l’esultanza della città distante che volge altrove il suo sguardo, che passa distrattamente di fronte a ciò che non ha compreso.

Lo scorrere di Che ore sono lo mostra chiaramente: è la società dei sani che mantiene il volto verso la parete della grotta, vacuamente impegnata a dare una forma e un senso a quella realtà altra così complessa e intimamente risonante da non riuscire a essere colta, a essere catalogata, se non nella stilizzazione deformata di una sua ombra piatta. Eppure i due mondi continuano ad attraversarsi, a separarsi con diaframmi forati ma densi e intensi, a intrecciarsi e fuggirsi, vicendevolmente spaventati dall’alterità dei disturbi psichiatrici o dalla brutale repulsione del mondo.

Attraversiamo, seguendo le parole dei protagonisti, la profondità dell’emarginazione sociale, gli abissi di una sessualità respinta, dell’abbandono familiare, della privazione degli affetti più insolubili, della marginalizzazione spaziale in una periferia brulla vista dalla ritmica sequenza delle sbarre di un cancello, lo spaesamento e il disorientamento per la de-radicalizzazione periodica cui si trovano soggetti nel ciclico passaggio della quotidianità, dentro e fuori dal centro, con o senza quei compagni di percorso che con loro condividono il tutto di una vita respinta.

La paura di andare fuori, di tornare a quel mondo che ha voluto estrometterli si incastra, in un’umana mutevolezza del sentire, con l’esasperazione del restare, delle relazioni strette e non scelte, capitate e talvolta irritanti, dalla distanza con gli affetti esterni, coi propri luoghi o con le routine di una vita passata.

61v7oylu08l-_ac_uf10001000_ql80_Se da una parte assistiamo a una realtà assistenziale capace di dare uno spazio di accudimento e di riformulazione delle relazioni affettive, nella quale il centro appare come un guscio normalizzante di un nuovo vivere sociale fatto di condivisione, conflitti, alleanze, affetti e considerazione, dall’altra non possiamo non cogliere quanto la progettualità, troppe volte burocraticamente vincolata e ostacolata, risulti essere assente o socialmente carente tanto da annichilire quegli slanci propositivi e vitali, forieri di un nuovo impegno nel vivere. Lo stallo, l’attesa di un impiego esterno che non arriva, di una trasformazione del proprio quotidiano che come un miraggio appare e scompare ai loro occhi stanchi, non fa che esacerbare il percepito senso di inutilità sociale di uomini e donne dall’universo interno ricco, sensibile e martoriato.

Ciascun individuo, immerso nella società e parte di differenti reti relazionali comunitarie, è il magma inscindibile di percorsi, relazioni, traumi e conquiste, caratteristiche individuali e alterazioni dell’io indotte, esacerbate o attutite nell’incontro del sé col mondo circostante. 

«I disturbi sociopsicopatologici che riguardano il singolo uomo non sono altro che disturbi di adattamento e della libertà, in quanto limitazione del poter-essere-liberi per una pretesa che ci reclama: non è un venir meno dell’apertura originaria, un non-essere rispetto all’essere dell’uomo sano, una negazione della condizione psicosomatica dell’uomo, ma un disturbo dell’esser-sano. “La malattia è un fenomeno di privazione”, è un “modo privativo dell’esistere” […]. Ogni soffrire ed essere malati è un fenomeno di privazione, che è possibile chiamare una configurazione difettiva dello esser sani”. Ed ancora con le parole di Boss che si richiama alla delineazione del modo di essere dell’uomo in Essere e tempo: “Sana può venir detta una persona […] alla quale il suo mondo-prossimo (Mitwelt) ha permesso di appropriarsi di tutte le sue essenziali possibilità di comportamento nei confronti di ciò che si fa incontro, di raccoglierle in un esser-se-stessa autentico, conforme alla sua natura, e di disporre liberamente del loro eseguimento. Malata, invece, è una persona, non appena le manchi qualcosa di tale libertà”. […]  L’esistenza è totalmente assorbita da una estasi temporale che inficia il distendersi temporale originario, rendendo manchevole e carente il rapporto con in mondo e con gli altri che si incontrano nel mondo» (Vicari, 2012: 28-30). 

9788806219192_0_536_0_75L’imperfezione rispetto al canone convenzionalmente pattuito come adeguato, tacciata nella difformità all’usuale si trasforma nella dichiarazione di una spaccatura scomposta, una rottura col mondo collettivo esperita attraverso la marginalizzazione di quelle parti della società giudicate non funzionali, dei pezzi rotti del noi sociale, spaventosi e indesiderabili nel loro mancato adattamento allo schema diffuso, nella loro espressione della pluralità dell’io pulsante che si manifesta nella sua alterità vivida, costretto a scivolare lungo «[…] il margine sistemico, il luogo in cui si estrinseca la dinamica chiave dell’espulsione dai diversi sistemi in gioco: l’economia, la biosfera, il sociale.» (Sassen, 2018: 227).

La distanza immobile di affetti forse mai avuti si traduce in echi sommessi per quegli scompensi individuali che, seguendo vie differenti, tessono la trama della maschera sociale dell’alterità, mutano la percezione del relazionarsi al mondo, creano ansie e paure, meraviglia e scoperta che si annodano e si confondono, in un alternarsi limpido nella sua franchezza quanto nella tumultuosa e trascinante volubilità, nella proiezione dei propri spettri su un reale innocuo o delle proprie speranze su uno spaccato di esclusione.

Che ore sono ci rende testimoni di un tempo da definire. «Ma il tempo è troppo vasto, non si lascia riempire» (Sartre, 2014: 36), e le vite che ci vengono svelate sono universi troppo densi per un tempo tanto rarefatto. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Riferimenti bibliografici 
A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Bergamo, 2016.
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Edizioni Dedalo, Bari, 2013.
D. Le Breton, Il spore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina editore, Milano, 2018.
J.P. Sartre, La nausea, Einaudi, Torino, 2014.
S. Sassen, Espulsioni, Il Mulino, Bologna, 2018.
D. Vicari, La frontiera abitabile. Per una psicoterapia con gli immigrati, Sensibili alle foglie, Rende, 2012.
E. Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre corte, Città di Castello, 2017.

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 Valeria Dell’Orzo, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.

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