Tutte le eroine pucciniane alla fine muoiono, in un crescendo emotivo che cede grandezza creativa. Tutte, eccetto Turandot…
Una storia si legge, interpreta e medita definendo l’inizio, il momento centrale e la fine che talvolta riassume, come in un rapido montaggio, il cammino percorso. Turandot, compimento dell’itinerario umano e artistico di Puccini, riprende, sviluppa e trasforma gli echi delle vicende delle eroine che l’hanno preceduta, specchio fedele dell’indole del compositore, ambivalente e per molti aspetti femminea. Questo ci sembra il senso, se mai ve n’è uno, della scelta delle storie da musicare [1]: ogni donna dà forma alla successiva, con le sue contraddizioni da sublimare, attraverso varie fasi, fino a Liù e Turandot; ognuna attiva una proiezione e ci offre lo spunto per un accostamento Puccini-alchimia-Jung ardito e molto suggestivo [2] e a Puccini, in quest’ottica, la possibilità di un percorso di maturazione psicologica, oltreché artistica.
Già in una lettera dell’agosto del 1898, mentre componeva Tosca, alcune immagini evocavano il linguaggio alchemico e «l’eroina Romana» dava simbolicamente forma alla materia da redimere attraverso un processo di trasformazione-coloritura [3].
Queste farfalle
possono servire
a darti l’idea
della volatilità
delle umane miserie
Come cadaveri ti
rammentino che tutti
dobbiamo soccombere
alla sera quando
il mio cervello si
distilla nel silenzio
per colorire l’eroina Romana […] [4] .
Certi “cammini” cominciano sempre «alla sera» quando l’oscurità crea un’associazione simbolica con lo smarrimento interiore. Ogni individuazione implica la necessità di una morte, all’inizio di una nuova vita nella regione dell’anima che giace in uno stato di oscura incoscienza («il mio cervello si distilla […]»). Le farfalle, evanescenti e corporee, sembrano simbolo dei contrari, come spirito che empie la materia o proiezione di contenuti psichici nell’Altro da sé. Quattro anni dopo Puccini incontrerà Madama Butterfly, nel cui nome forse, si annidano segrete, le immagini di una lettera d’agosto.
Per tutta la vita, dunque, le donne sembrano il prezioso alambicco nel quale distillare esperienze interiori e conflitti. Nel 1924, riferendosi a Turandot, Puccini scrive: «Io ci ho messo, in quest’opera, tutta la mia anima» [5]. Le lettere sono percorse da un’altalena di umori, preziose testimonianze della creazione. «Sono triste e sfiduciato! Penso a Turandot! È per Turandot che mi sento come un’anima perduta nello spazio nebbioso» [6]. È un’opera che ripropone impulsi contraddittori e speculari, e tormenta:
Gelo che ti dà foco! E dal tuo foco più gelo si prende! Candida ed oscura! [7].
Alle metafore del gelo e del fuoco si annoda l’anima pucciniana, le loro forze distruttive minacciano la creazione e, sebbene questa volta l’amore aspiri al trionfo, Puccini non riesce a mettere ordine negli appunti del finale. Nonostante l’opera sia incompiuta, Turandot e Liù occupano un posto di assoluto rilievo nel processo di maturazione creativo e personale di Puccini, oramai in prossimità della morte.
Significativa è la scelta della dimensione fiabesca, utile non solo al recupero del tema della lotta fra i sessi, come suggerisce Mosco Carner [8], ma anche alla comparazione fra la personale, dolorosa, dimensione mitica (binomio amore-morte) e un altro mito con cui si vorrebbe sostituire (binomio amore-vita, nel rapporto finale tra Calaf e Turandot). L’identificazione può essere favorita da armonie “primitive”, scale pentatoniche, melodie-parlate, ardue, gridate, ostinati ritmici e particolari timbri che ricreano l’atmosfera orientale e generano un effetto quasi ipnotico, uno stato di trance che agevola la proiezione delle voci interiori dell’autore nell’opera. Si pensi alla scena degli enigmi nella quale Puccini intona sulla stessa musica i quesiti di Turandot e le risposte di Calaf generando una monotonia musicale che ha un effetto ipnotico tanto per i protagonisti del dramma, quanto per noi ascoltatori. L’atmosfera rituale introdotta nella scena potrebbe servire al recupero dell’equilibrio e del «risorgere di una nuova coscienza reintegratrice. […] Le musiche rituali controllano, inoltre, la crisi mediante l’ostinazione e facilitano lo sviluppo di una coscienza unitaria che integra il conflitto» [9].. Nel caso in questione, la negazione dell’amore da parte di Turandot induce la principessa a decretare la morte di colui che potrebbe accoglierla, dandole nuova vita.
Bisogna domandarsi allora cosa significhi il cambiamento di Turandot, prima gelida e divina, poi donna che si abbandona al sentimento, quale sia il ruolo della schiava Liù e, infine, quale legame potrebbe esistere tra queste due creature e Puccini. L’oggettivazione della personale sofferenza in due personaggi distinti, ricordo delle opere giovanili, potrebbe far pensare a un’involuzione psicologica dell’artista, a una regressione in termini di differenziazione psicologica. Niente affatto! Lo schema ora è funzionale all’elaborazione del conflitto e all’affermazione di un amore vitale in cui la lotta tra i sessi per la prima volta perde l’originaria natura distruttiva. Espressioni di un’unica anima femminile, Liù e Turandot ripropongono il tema dell’amore impossibile, sebbene all’umanità della prima s’opponga lo splendore sovrumano della seconda che la mette al riparo da qualsiasi contatto, anche solo visivo, con l’altro sesso. Ma come si percepisce Turandot? Come si pensa in relazione alla sua crudeltà e alla capacità di sedurre?
Un’analisi approfondita degli atteggiamenti di Turandot, così assolutistici e predeterminati, rivela in realtà un profondo bisogno d’amore e la necessità di un cambiamento che tuttavia la donna non ammette. Infatti, secondo la sua narrazione – l’alibi della violenza subita da un’antenata – non è lei incapace d’amare ma sono gli uomini colpevoli del suo destino privo d’amore. Si potrebbe sostenere che la coscienza di sé di Turandot, significativamente accresciuta rispetto a quella delle ‘donne pucciniane’ che l’hanno preceduta, si limiti alla dimensione dell’apparire e non includa quella dell’essere. Considerazione, questa, che ricorda Puccini, tormentato dai dubbi sui lati più nascosti della sua personalità, sull’essere troppo o troppo poco sensibile, amante della solitudine o della compagnia, ecc., e che attribuiva agli altri un “difetto” proprio quando lamentava di non essere amato, né compreso [10]. Anche Turandot è cosciente del modo in cui appare e dell’effetto che suscita sugli altri, ma non riconosce le reali ragioni per cui rifiuta l’amore e la sua stessa umanità. Da un punto di vista psicologico, la determinazione con cui annulla ogni sentimento svela la paura di non sapere gestire ciò che le è ignoto e rivela la volontà di rinunciare a ciò di cui, forse, non riuscirebbe più a privarsi. Sembra proprio che Turandot si sia troppo calata nel ruolo della divinità per scoprirsi umana. La sua crudeltà, tuttavia, dimostra il desiderio di riappropriarsi di un’umanità rinnegata. Perciò, mentre nel conflitto con Calaf difende le proprie certezze, duella con sé stessa:
Tormentata e divisa tra due errori uguali: vincerti o esser vinta [11].
Immagine speculare di Turandot, Liù è donna che salva – Timur, Calaf, il popolo, la stessa Turandot. Il candore contrasta con il gelo. A Liù è sufficiente un sorriso perché si accenda nel suo cuore una passione pura e duratura che prescinde da qualsiasi soddisfacimento terreno. Solo dopo la sua morte, Turandot rinasce nella sua pienezza e integra quel conflitto che nasceva dalla coesistenza di fuoco e gelo, passione e rifiuto, e la allontanava dalle emozioni – Gelo che ti dà foco! E dal tuo foco più gelo prende! / Candida ed oscura! [12]. Se è vero che la castità, come nota Sartori [13], appartiene a entrambe, le motivazioni sono profondamente diverse e sembra che sia proprio la morte di Liù a suscitare il dubbio nella mente di Turandot, a indurla a guardarsi dentro e a rendere pensabile l’amore con Calaf. Perciò Liù presagisce il cambiamento di Turandot – l’amerai anche tu [14] – e si attiva perché si verifichi. Con lei, l’atto liberatorio essenziale al gioco giunge a un compimento più alto: alla sua morte va via, e per sempre, l’immagine della donna che aveva ossessionato Puccini, fantasma della mente con cui aveva cercato invano di comunicare, che non comprendeva ma che aveva accolto le sue proiezioni. Liù è l’ultima eroina: stavolta nel restituirla a un mondo sublime qualcosa rimane, visibile. La sua morte consente infatti alla gelida Turandot di accogliere, appieno e consapevolmente, la sua umanità.
E la musica? La musica, lungo tutto il dramma, è la strada che i personaggi percorrono, camminandosi incontro. Non è un caso che le arie In questa reggia e Tu che di gel sei cinta siano accomunate da un’evidente similarità melodica. Forse Puccini si serve, più o meno consapevolmente, della musica per suggerire l’idea che le due donne rappresentano due aspetti di una stessa femminilità. Non ci sembra improbabile che le melodie evochino quell’unione Turandot-Liù che si realizza dopo la morte di Liù. È un tentativo di conciliare gli opposti attraverso la musica, mentre le parole sottolineano la complementarietà [15]: non a caso Puccini stesso scrive i versi di Liù che ci sembrano la risposta dell’altra anima di Turandot e unisce intimamente le due donne. Prima nasce la musica, dunque, dopo le parole. La musica è il filo di seta che si tesse tra Turandot e Liù e tra loro e l’autore. Così, quando sentiamo Tu che di gel sei cinta la nostra memoria richiama le sensazioni che abbiamo provato al suo primo risuonare nell’aria di Turandot (In questa reggia) e in noi l’emozione presente si confonde con quella passata. Anche nel nostro pensiero avviene un’integrazione.
Che i motivi musicali pucciniani più che rispecchiare gli avvenimenti reali sembrino essere l’ombra di quelli inconsci, psichici, ci sembra lo confermi ancora Liù, quando nel I Atto, al principe che le chiede il motivo per cui ha diviso con Timur l’angoscia dell’esilio, risponde: Perché un dì… nella reggia, mi hai sorriso. Il culmine drammatico si raggiunge nella parola “sorriso”. Il tempo rallenta e i valori della melodia vocale si accrescono dando l’impressione di giungere quasi all’immobilità. La risposta di Liù si spezza nell’ultima sillaba della parola “sorriso” con un salto di ottava discendente tra i due Si bemolle che costituiscono anche gli estremi delle altezze tra le quali si è snodato il canto. Per quel sorriso Liù vivrà, incontrerà l’amore, morirà. Quel sorriso reca con sé un universo di significati. Col fluire dei suoni e dei silenzi a poco a poco scompare la connotazione propria della parola, quella che ci fa pensare al sorriso come legato a un sentimento di piacere e appare il senso più profondo che svela la vera natura di quel sorriso e ce lo presenta in realtà come un non-sorriso. Nell’ottava discendente del canto sull’ultima sillaba della parola “sorriso” sentiamo tutta la sofferenza di Liù per quel sorriso che allude a una felicità spezzata, interrotta, che volge verso un tragico destino. E tutto ciò sembra quasi emergere dal silenzio e poi svanire nel silenzio; i tromboni in sordina e il pp dei violini e della voce danno l’impressione che la musica si raccolga attorno al dolore della piccola schiava, e la conforti. È possibile scorgere nei due Si bemolle in cui si spezza il sorriso un valore semantico che li renda simboli drammatici di amore e morte? Se così fosse, potremmo cogliere nella loro unione, all’interno di quel sorriso, un tentativo di raggiungere quella sintesi unitaria degli opposti che abbiamo supposto essere meta desiderata, seppur non totalmente raggiungibile, dello sviluppo psichico di Puccini. La musica avrebbe allora il ruolo di svelare le profondità del pensiero, oltre quei imiti che la parola non riesce a varcare.
Allo stesso modo i due motivi associati a Turandot sono il tramite espressivo attraverso cui Puccini suggerisce il solitario e ambiguo ritratto della principessa. Il primo è il tema d’apertura che sentiamo spesso nel I Atto, compare due volte nel secondo e non si presenta più dopo la soluzione del terzo enigma [16]. L’altro motivo, la melodia cinese detta Mo-li-hua (Fiore di gelsomino) simboleggia l’innocenza e l’umanità di Turandot e, non a caso, la prima volta viene eseguita da un coro di voci bianche. L’opposizione fra i due motivi è descritta mirabilmente da Girardi che sottolinea come il gioco tematico sia volto a evocare la conflittualità di Turandot di cui Calaf si accorge perché quando è lui a intonare il nome della principessa riecheggia la melodia cinese, mentre quando è il principe di Persia a invocare Turandot riecheggia il primo tema [17], quello che Powers chiama “motivo dell’esecuzione”.
Proprio nel “motivo dell’esecuzione” Puccini sembra voler mostrare tutta la sua maestria nel conciliare la verità espressiva con la verità costruttiva: sempre secondo Girardi «l’ampia discesa dall’acuto al grave è quasi una macabra imitazione della testa [dei pretendenti di Turandot] che rotola dal ceppo».[18] Aggiungiamo che il tema non solo è discendente ma è costruito sulle note Do-La-Re-Mi che proprio in quest’ordine, secondo la notazione alfabetica, corrispondono alle lettere C-A-D-E. La parola “cade” così simbolizzata e ripetuta tre volte contiene l’idea della testa che rotola giù dal ceppo. La stessa brevissima cellula melodica, isolata dal tema dell’esecuzione, la si sente d’altra parte diverse volte nel I Atto, fin dalle primissime battute, durante la proclamazione dell’editto da parte del Mandarino, e proprio quando sentiamo Ma chi affronta il cimento e vinto resta, porge alla scure la superba testa! è sulla parola “testa” che l’ottavino, il flauto, l’oboe e il clarinetto eseguono il macabro motivo. La stessa idea musicale compare nella scena degli enigmi [19] a evocare l’ombra della decapitazione che minaccia Calaf.
Il bacio finale apparentemente sembra sortire l’effetto di un incantesimo. È pur vero che già da prima Turandot aveva espresso le sue esitazioni; più ammoniva Calaf più pareva invitarlo a liberarla dal suo destino. Psicologicamente si può ipotizzare che il desiderio si traducesse in rifiuto e che la minaccia sottendesse l’invito a sciogliere l’enigma e dunque a demolire una struttura costruita, nel tempo, su una serie di meccanismi di difesa dell’Io. Si comprende, da questo punto di vista, il valore risolutore del bacio che rappresenta il primo contatto con la corporeità, sino a quel momento negata, nonché la prima occasione di valorizzazione della femminilità da parte di Turandot. Ergendosi a divinità, la donna si era rifugiata nella condizione di essere asessuato, eppure, incontrollabilmente seduttivo nei confronti delle sue vittime. L’accettazione finale dell’amore da parte di Turandot, ci sembra mostri un’avvenuta maturazione e l’acquisizione dell’autonomia psichica necessaria a considerare il rapporto amoroso non più come pericolo, ma come occasione di crescita e parità. Quest’ultima opera segna, dunque, una netta demarcazione rispetto alle precedenti per l’insolita concezione di amore che emana. Questo il mondo delle idee che aveva ossessionato Puccini e le immagini di questo mondo sono state le donne, creature ambivalenti, contraddittorie come lui. Perciò dovevano morire e bisognava sempre cercare di salvarle, perché con loro avrebbe salvato sé stesso.
Nel finale, Puccini sembra volerci dire che l’amore non coincide con la dipendenza egoistica e infantile e, al contrario, si basa sulla reciprocità. Ma la verità è un’intuizione ‘mentre l’ora fugge’ e Turandot rimane incompiuta. Turandot è il compimento. Ora Puccini avverte che la difficoltà di comprensione – nel senso di cum-prehendere, accogliere, e di capire – non è un fatto personale ma una condizione profonda dell’essere umano. Il percorso è compiuto. Calaf risolve gli enigmi e Puccini, dinanzi allo specchio, può domandare alla sua immagine riflessa: Siamo veramente noi? [20].
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] «La musica? Cosa inutile. Non avendo libretto come faccio della musica? Ho bisogno dei miei burattini che si muovono sulla scena». Così scrive Puccini a Adami nel marzo del 1920, in Michele Girardi, G. Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Marsilio, Venezia 1995: 443. Dalle lettere ai librettisti affiorano euforia e disperazione, le riflessioni sulle trame sono interminabili ma se l’impresa riesce Puccini è felice perché quei burattini, disegnati da altri, sono tutto ciò di cui ha bisogno. Forse proprio perché in qualche modo si ‘riconosce’ nelle loro vicende, può comporre la musica. «Una ‘proiezione’, a rigore, non viene mai fatta: ‘avviene’. In essa ci s’imbatte. Nell’oscurità di un fatto esteriore scopro, senza riconoscerla come tale, la mia vita interiore, o psichica». C. G. Jung, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino 2006: 242.
[2] C. Calabrese Puccini, le sue contraddizioni psicologiche nelle opere e nei personaggi, in Dialoghi Mediterranei Periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo (Trapani), luglio 2023 https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/puccini-le-sue-contraddizioni-psicologiche-nelle-opere-e-nei-personaggi/; id., Puccini, le sue creature: “Manon Lescaut”, il conflitto interiorizzato, in Dialoghi Mediterranei, cit., settembre 2023 https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/puccini-le-sue-creature-manon-lescaut-il-conflitto-interiorizzato/ e Id., Puccini, le sue creature: Tosca, verso un’elaborazione più matura del conflitto, in Dialoghi mediterranei, cit., gennaio 2024 https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/puccini-le-sue-creature-tosca-verso-unelaborazione-piu-matura-del-conflitto/
[3] L’ipotesi è che l’arte sia stata per Puccini uno strumento di elaborazione esterna a sé di contenuti psichici caotici e non integrati da elaborare man mano e reintegrare in una personalità più equilibrata. «La metafora è un riferimento teorico e uno strumento clinico per addentrarsi nelle ‘oscurità’ della psiche (nigredo), verso la chiarezza della coscienza riflessiva (albedo), fino all’integrazione consapevole dei vissuti di rigenerazione psicofisica, che provengono dal Sé e dallo “spirito di vita” che ci abita (rubedo)». Cfr. https://martatibaldi.com/2020/09/21/jung-e-la-metafora-viva-dell-alchimia/ Cfr. Jung e la metafora viva dell’alchimia, Simona Massa Ope, Arrigo Rossi e Marta Tibaldi (a cura di), Moretti & Vitali, Bergamo 2020; C.G. Jung, Psicologia e alchimia, cit.; Id., Tesori dell’inconscio, Ruth Amman, Verena Kast, Ingrid Riedel (a cura di), trad. it. Maria Anna Massimello, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
[4] Lettera di Puccini a Alfredo Caselli (agosto 1898), in Quaderni pucciniani, a cura dell’Istituto di studi pucciniani, Milano 1998: 298.
[5] Così G. Puccini a Gilda dalla Rizza (agosto 1924), in Carteggi pucciniani a cura di E. Gara, Ricordi, Milano 1958: 552.
[6] Lettera di Puccini a Renato Simoni (settembre 1921), in E. Gara (a cura di), Carteggi pucciniani, cit., p. 514.
[7] G. Adami, R. Simoni, Turandot, libretto, Atto II.
[8] M. Carner, Una biografia critica, Il Saggiatore, Milano 1961: 624.
[9] Cfr. D. Carpitella, Conversazioni sulla musica (1955-1990), Società italiana di Etnomusicologia (a cura di), Ponte alle Grazie editori, Firenze 1992: 166-204.
[10] M. Carner, Una biografia critica, cit.: 241.
[11] G. Adami, R. Simoni, Turandot, libretto, Atto III.
[12] G. Adami, R. Simoni, Turandot, libretto, Atto II.
[13] Cfr. C. Sartori, Puccini, Nuova Accademia, Milano 1958: 41.
[14] G. Adami, R. Simoni, Turandot, libretto, Atto III.
[15] Nella prima aria, In questa reggia, Turandot afferma il suo razionale rifiuto dell’uomo, e quindi di Calaf sebbene gli archi proiettandosi verso l’acuto generino uno slancio enfatico che comunica la sensualità della protagonista; nella seconda, Tu che di gel sei cinta, Liù presagisce a Turandot un futuro d’amore, nell’unione con Calaf. Cfr. M. Girardi, G. Puccini. L’arte…, cit.: 473.
[16] H. Powers, Le quattro tinte di Turandot, in V. Bernardoni (a cura di), Puccini, Il Mulino, Bologna 1996: 246.
[17] M. Girardi, «Turandot»: il futuro ininterrotto del melodramma italiano, in «Rivista italiana di musicologia», XXVII/Q, 1982: 155-181.
[18] M. Girardi, G. Puccini. L’arte…, cit.: 472.
[19] G. Puccini, Turandot, partitura ed. Ricordi, Atto I, 2, p. 6 e Atto II, 7, 8, 9, 10 dopo 56: 278.
[20] «Nelle indimenticabili serate nelle quali il Maestro amico mi raccontava la sua vita, mi diceva che in quell’epoca, quando gli avveniva di vedersi allo specchio, chiedeva con gioconda voce a quel giovinottone gagliardo che lo guardava: – Di’, Giacomo, sei veramente tu? Siamo veramente noi?». A. Fraccaroli, La vita di Giacomo Puccini, Ricordi, Milano 1925: 49.
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Claudia Calabrese, dottore di ricerca in Storia e analisi delle culture musicali all’Università La Sapienza di Roma, studiosa di musica e letteratura, docente di lettere. Attratta dagli studi interdisciplinari, si è occupata di Giacomo Puccini e di Pier Paolo Pasolini. In Alchimie pucciniane (Accademia di Scienze lettere ed arti di Palermo, 1999) e Manon Lescaut, presagio di una trasmutazione (Avidi Lumi, rivista della Fondazione del Teatro Massimo, 2000) si è accostata all’opera e alla vita del compositore toscano con gli strumenti della psicoanalisi junghiana. Il suo Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances (Diastema Studi e Ricerche, Treviso 2019) ha ricevuto la menzione speciale per l’originalità e il rigore analitico dalla Giuria del XXXIV Premio Pasolini bandito dal Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione della Cineteca di Bologna.
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