Stampa Articolo

L’intelligenza patrimoniale: etnografia storica intorno ad una cooperativa sarda

Museo Archeologico Villa Abbas

Museo Archeologico Villa Abbas

CIP 

di Nicolò Atzori

nel ricordo di Sandra Puccini

Sono 38 gli anni che separano la nascita della Soc. Cooperativa Villa Abbas, oggetto di questo contributo, dal tempo di chi scrive, ammaliato da un senso di rispetto che già spera una cifra tonda. Le righe che seguono, in effetti, intendono proporre una ricostruzione temporale nella quale si avvicendano fatti e persone, raccontati sulla base dell’intersecarsi di diacronie e sincronie che solo pensate insieme e organicamente consentono all’antropologo di approssimarsi al cuore dei fenomeni culturali. Soprattutto “dal didentro” come nel mio caso, quello dello specialista che tenta di restituire l’immagine di un organismo operante nell’ambito del patrimonio culturale e nel quadro del territorio di Sardara, paese di nemmeno 4000 anime situato nel cuore del Campidano centrale, verso le prime alture della silente Marmilla.

Non ci si dilungherà nella storia della prospettiva qui adottata, ovvero quella, se vogliamo, dell’antropologia storica o della “storia applicata all’antropologia” (o viceversa, per i più permalosi), che sembra sintetizzare, in un’efficace quanto affascinante espressione, la convergenza degli audaci bisogni delle due discipline, oggi dialoganti senza più troppo imbarazzo e l’una al servizio dell’altra grazie anche allo sforzo interpretativo di figure come quella, sulla scena italiana contemporanea, di Pier Paolo Viazzo [1] e, alle origini, fra gli altri, di Malinowski prima e di Evans-Pritchard poi. Una mediazione per noi efficace, tuttavia, sembra quella proposta dalla storica Renata Ago:  

«La cosa più importante, la nostra risorsa principale, a me sembra proprio quella che a prima vista parrebbe più inutile e più caduca, vale a dire quell’enorme patrimonio di “alterità” che è costituito dal passato, dalle sue società, le sue economie, le sue culture, le sue politiche: il passato è il nostro “altrove” ed è tanto più interessante studiarlo quanto più esso è al tempo stesso vicino e lontano dal presente» (Ago 2013: 159-162). 

Dal canto mio, ammetto di essere pervenuto agli studi antropologici da un’attenzione di tipo eminentemente storico verso la realtà, fin da subito orientata verso un’ermeneutica dei luoghi nella cui frequentazione ho cercato, in ragione dell’intero percorso universitario, di condensare le posture di geografia umana prima e – sulla scia della storia medievale – antropologia culturale poi, infine pervenendo all’antropologia sociale stricto sensu. Chi meglio di Sandra Puccini, che ricordiamo, ha contribuito all’incontro di queste così complementari materie e visioni del mondo? Alla sua memoria contribuiscano queste righe. 

Casa Pilloni, anticamera del sito archeologico di Santa Anastasia e spazio espositivo della Coop. Villa Abbas (ph.Nicolò Atzori)

Casa Pilloni, anticamera del sito archeologico di Santa Anastasia e spazio espositivo della Coop. Villa Abbas (ph.Nicolò Atzori)

Cos’altro avremmo potuto fare? La scoperta del futuro 

Il futuro come alternativa è il titolo di un paragrafo a cui, nelle pagine della mia tesi di laurea magistrale in antropologia culturale (relatore Felice Tiragallo) [2], demandai il compito di descrivere il rapporto tra le radicate consapevolezze di un paese del Campidano centrale, Sàrdara, e le nuove possibilità che andavano prospettandosi, in linea col cambiamento strutturale di metà secolo, tra la fine degli anni Settanta e il principio degli Ottanta, quando, complice una congiuntura economica positiva, cominciò a svilupparsi quella che potremmo definire come una prima forma di attenzione all’articolato mondo del patrimonio culturale, o meglio dei beni culturali (sebbene la Commissione Franceschini ne avesse già chiarito l’importanza [3]), assurto a concetto legislativo solo nel 2004 [4] e dimensione nella quale si cominciò a intravvedere un futuro nuovo per il paese.

Inventarlo, dunque, significò stabilire, per quelle società ancora così apparentemente impenetrabili e refrattarie un domani inedito, ovvero nuove forme di abitabilità del territorio che avessero il coraggio di svincolarsi da quelle imperanti, in apparenza culturalmente assolute; che si allineassero alle sensibilità e ai modelli (anche ecologici) che cominciano a trovare terreno fertile anche nell’isola. Si scoprì, insomma, anche una via professionale alternativa a quelle di matrice essenzialmente primaria e secondaria, e un nuovo sfondo per i progetti collettivi e le politiche locali tradizionalmente prudenti rispetto al tema dell’identità percepita. Innegabilmente, ciò avvenne sulla scia della “maturità” che gli anni Ottanta sembrarono conferire al movimento cooperativo, ora articolantesi in una fitta rete territoriale che dimostra anche una differente prospettiva politica: improntata, cioè, ad «una attenzione nuova, più matura, nei confronti delle questioni locali» e meno allo strutturale bipolarismo agro-edilizio, quantunque nelle evidenti criticità del primo settore il governo regionale individuasse l’impedimento cruciale allo sviluppo dell’artigianato, dell’edilizia, dei consumi e dei servizi sociali e civili (Accardo, Carta 1991 et al: 365 e ss.).

Santuario campestre di Santa Maria de is Aquas Sardara (ph.Nicolò Atzori)

Santuario campestre di Santa Maria de is Aquas Sardara (ph.Nicolò Atzori)

In questo clima, com’è auspicabile, trovarono terreno fertile anche i nuovi intendimenti politici di tante realtà locali che, come Sardara (Sardàra per i “continentali”), posero le basi per un’azione concreta nella direzione del riconoscimento e della gestione del proprio patrimonio; di quanto, insomma, venisse ritenuto un valore collettivo. Pertanto, ci si intende qui concentrare sulla Cooperativa Villa Abbas, costituitasi nel 1986 – a cento anni dalla nascita della Lega delle Cooperative – come deputata alla gestione del nascente museo archeologico omonimo (secondo una prima idea da intitolarsi al celebre archeologo Antonio Taramelli [5]) e, in prospettiva, dell’area archeologica di Santa Anastasia [6], cosiddetta dall’intitolazione della chiesetta bizantina che oblitera le sue tracce nel cuore del centro abitato [7].

In sede etnografica ho modo di rilevare alcune impressioni che Luigi M., 85 anni, storico vicesindaco e assessore (principalmente all’agricoltura ed ai beni culturali) per ben 5 legislature, a partire dal 1978, riferisce a quegli anni Ottanta: su tutte, un significativo impoverimento dell’agricoltura e un contestuale protagonismo proprio in senso associativo, «testimonianza di un rinnovato entusiasmo ma soprattutto di fiducia verso forme associative “formalizzate” che cominciano a offrire alternative ad una socialità improntata a meccanismi taciti, impliciti e dati a priori» (Atzori 2021: 197).

Su Meistu Melis, secondo un’etichetta di prestigio accordata a chi svolgesse professioni intellettualmente preferibili a quelle fisicamente usuranti, in tal caso la docenza, si sofferma sulla qualità del suo impegno politico, a cui ha potuto adempiere anche grazie al lavoro di insegnante, che gli consentiva più tempo libero: 

«Facevano tutti così quelli che avevano tempo… io ero insegnante, uscivo da scuola e non andavo di certo a casa, mi avvicinavo in comune a vedere…» (Luigi M.). 
Pozzo sacro di Santa Anastasia nel cuore di Sardara (ph.Nicolò Atzori)

Pozzo sacro di Santa Anastasia nel cuore di Sardara (ph.Nicolò Atzori)

«Se ti occupavi di un qualcosa, era più facile ottenere qualcosa»: Luigi ricorda una minore rigidità burocratico-operazionale come regolatrice di tanti meccanismi e procedimenti politici, la cui maggiore carica informale sembrò più facilmente consentire una traduzione concreta anche alle nuove suggestioni che si facevano strada fra i membri della comunità. Una parola data o una proposta anche provocatoria, quindi, non tardarono a divenire azione istituzionale e quindi invito pratico: come quello di costituire l’associazione per inserirsi nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale. A tal proposito, a Giuseppe G., classe ‘56, di famiglia contadina, fra i più inclini alla via alternativa al patrimonio culturale, chiedo come nacque l’idea di dar vita ad un organismo deputato alla gestione dei due siti nascenti: 

«Ricordo che, agli inizi degli anni Ottanta, appena terminai la leva militare, creammo un comitato di inoccupati e giovani entusiasti che era solito riunirsi con grande regolarità per confrontarsi e proporre soluzioni. Nacque durante quegli incontri, ai quali era solito partecipare anche qualche amministratore. Accadde, infatti, che da uno di essi fummo informati circa la prospettiva della costituzione di un piccolo gruppo di individui che potesse occuparsi dei luoghi di interesse che venivano resi fruibili in quel periodo. Così formammo una piccola associazione» (Giuseppe G.). 
Pozzo sacro e chiesa di santa Anastasia (ph. Nicolò Atzori)

Pozzo sacro e chiesa di santa Anastasia (ph. Nicolò Atzori)

Il lieve compiacimento, inevitabile, cede alla greve lucidità: l’entusiasmo di quegli anni doveva essere inscalfibile per superare quel che dice essere stato uno scoglio ideologico e culturale dietro il quale si trincerava l’opinione pubblica. Il patrimonio culturale fu una scelta specifica, ricorda, che fra gli articoli della legge n° 28 del 7 giugno 1984, proprio in materia di occupazione giovanile e delle categorie svantaggiate, trovò l’humus per il suo attecchimento. Galeotta, senza dubbio, fu la ripresa, dopo sessant’anni, degli scavi presso il sito archeologico di Santa Anastasia. Tre anni dopo, nel 1981, venne emanata la delibera per la costituzione del museo archeologico, oggi destinato ad ospitare il frutto delle campagne di scavo che hanno coinvolto l’intero territorio del Medio Campidano [8]. Nel triennio 1978-1981, dunque, sembrano porsi concretamente le basi per la valorizzazione del patrimonio culturale sardarese, a partire dal riconoscimento dei due siti più importanti del suo territorio: l’area archeologica di Santa Anastasia e l’attuale Museo Civico Archeologico Villa Abbas, aperto solo nel 1997 e che, nel frattempo, dal 1986, risulta in fase di allestimento.

Anche il suo nome è un’intenzione in senso patrimoniale perché inerente ad una volontà di riconoscibilità identitaria: Villa Abbas (o villa de abbas, “città delle acque”) è l’evocativo toponimo che individua un centro demico situato dove oggi insistono le strutture ricettive termali, ad appena 3 km da Sardara, e forse abbandonato già verso la prima età moderna [9]. Il nome, evidentemente, richiama l’intimo rapporto tra l’acqua e il territorio di Sardara, del quale ha viziato, fin dalle epoche più antiche, le espressioni culturali e quindi la vitalità popolare [10].

Interno del pozzo sacro di Santa Anastasia con affioramento di acqua sorgiva (ph. Nicolò Atzori)

Interno del pozzo sacro di Santa Anastasia con affioramento di acqua sorgiva (ph. Nicolò Atzori)

Fu Giuseppe, dunque, raccolto l’incoraggiamento dell’amministrazione, a costituire il gruppo cooperativo, a divenirne anche il primo e unico presidente fino al dicembre del 2023, momento di grande cambiamento perché di revisione di assetti pluridecennali. Meritatamente in pensione da allora, Giuseppe è oggi considerato una sorta di decano dei beni culturali nel Medio Campidano, dove si è distinto come deus ex machina della Cooperativa Villa Abbas e garante del suo inserimento in una rete di organismi omologhi in cui amicizie, partnership e legami di ogni genere hanno contribuito in misura decisiva alla costruzione di un tessuto di gestione del patrimonio improntato al mutualismo, alla reciprocità e al costante confronto sui temi d’interesse culturale e civile.

Da simili condizioni ottimali scaturirà, durante la sua gestione, l’importante sodalizio con la cittadina bulgara di Pernik, mediato dal Circolo dei Sardi di Sofia Sardica e finalizzato alla valorizzazione coordinata di due siti che, seppure considerevolmente distanti, presentano evidenti affinità formali e culturali su cui effettivamente si basa il gemellaggio: su tutte, la presenza di un pozzo sacro come quelli di Garlo (nel distretto di Pernik) e di Santa Anastasia, nel cuore della nostra Sardara [11]. Oltre a ciò, il grande merito del presidente è stato quello di avere il coraggio, in prima persona, di considerare e assecondare una nuova prospettiva che – coinvolti dei giovani e nuove scritture di vita – significò produrre nuovo futuro; segnalare inedite soluzioni che, singolarmente, dessero un’impronta lungimirante al paese. 

Visitatori all'ingresso del pozzo sacro di Santa Anastasia )ph. Nicolò Agtzori)

Visitatori all’ingresso del pozzo sacro di Santa Anastasia )ph. Nicolò Agtzori)

Intelligenza patrimoniale, intelligenza cooperativa: saper fare per esistere insieme 

La storia di un organismo locale come quello della società cooperativa o di qualsiasi formazione improntata al mutualismo e all’integrazione delle competenze che sia orientata verso un obiettivo comune e condiviso è di certo anche il resoconto dell’evoluzione del pensiero di una microsocietà, in tal caso quella di Sardara, e dei modi che questa ha di intendere sé stessa. Le cooperative, infatti, sono anzitutto «una risposta imprenditoriale ai bisogni economici, individuali o collettivi» (Pancaldi 2002: 3), quindi ambienti estremamente complessi all’interno dei quali hanno modo di esprimersi individualità, tendenze generazionali, tradizioni formativo-pedagogiche e amministrative irriducibili all’interno di schematismi di ordine puramente operazionale.

Al proposito, da tempo mi ritrovo a ragionare sul concetto di intelligenza patrimoniale, che mi sembra meglio rispondere all’esigenza di chiarire i caratteri di un’agency del patrimonio culturale che, non esclusivamente vincolata alla dimensione delle formazioni collettive e comunitarie, come ad esempio le comunità patrimoniali nate con Faro, dia invece conto delle singolari e personali capacità di quante/i, agenti più o meno formalmente nell’ambito della gestione del primo, emergano quando si manifesti una volontà di rappresentazione identitaria e conseguente costruzione del sé (in quanto operatori generici, promotori, veri e propri evergeti [12]). Le intelligenze patrimoniali, insomma, possono dare conto dell’irripetibile vicenda degli innumerevoli ciascuno che, agendo nel mare magnum del patrimonio culturale, ne predispongono la valorizzazione anche secondo i propri personali intendimenti che – spesso indipendentemente e autonomamente – li portano a migliorare in esso e con esso, sviluppando nuove visioni del mondo e del proprio territorio, attivando relazioni e definendosi in quanto cittadini e professionisti; possono restituire, sulla base di un’attenzione anche di tipo antropologico, la complessità individuale che troppo spesso manchiamo di decifrare per amore del dato tendenziale o generale bramato per avere contezza di una realtà spiegabile; di una realtà, dico io, apprezzabile primariamente grazie allo svolgimento di vita che la persona [13], con la sua singolarmente complicata antropologia, offre all’osservatore specialista.

Visitatori che accedono al pozzo sacro e alla chiesa di Santa Anastasia (ph. Nicolò Atzori)

Visitatori che accedono al pozzo sacro e alla chiesa di Santa Anastasia (ph. Nicolò Atzori)

Secondo questo orientamento vorrei dunque si intendesse questo precoce resoconto di storie. All’interno della Cooperativa Villa Abbas, fin dapprincipio, non mancano le intelligenze e le più disparate attitudini, e giova notare come proprio da scenari di questo tipo – spesso costretti all’emersione interna di professionalità che ne garantiscano la sopravvivenza – si sviluppino contesti collaborativi e funzionali ben oltre i confini del proprio perimetro d’azione.

Gli inizi sono stentati ma entusiasti, ricorda Franco, 56 anni, entrato a fare parte del gruppo nel 1993, anno in cui al mandato per i servizi museali si aggiunse la gestione del parco pubblico comunale, protrattasi per quattro anni e fino all’apertura del Museo archeologico Villa Abbas, alla quale significativamente contribuisce il gruppo di lavoro della cooperativa. La turnazione era incessante, ricorda, a causa del sovrapporsi delle mansioni: la mattina da risolversi nei locali del deposito museale, allestito presso la rifunzionalizzata Casa del Balilla e consistente nel frutto delle indagini archeologiche condotte presso il territorio, e la sera al parchetto, immersi in una più articolata socialità conviviale. È rilevante notare, infatti, come il gruppo appena sorto si sia occupato in prima persona – affiancando gli archeologi della Soprintendenza e pur senza particolari competenze o strumenti scientifici – dell’allestimento del museo fin dalla catalogazione dei reperti nell’allora deposito, che quei giovani e meno giovani sardaresi abitano come presidio di alterità: in cui, evidentemente, essi si ritrovano al fianco degli archeologi, dei soprintendenti e degli “esperti” collaborandovi a stretto contatto; e ben vedere, penetrando codici professionali prima di quel momento semi-sconosciuti e guardati con sospetto o eccessiva idealizzazione, come spesso accade quando il panorama di conoscenze, saperi e mestieri di riferimento risulti maggiormente orientato verso la sfera tecnico-pratica e solo marginalmente verso quella intellettuale. 

Laboratorio di ceramica per adulti e bambini (ph. Nicolò Atzori)

Laboratorio di ceramica per adulti e bambini (ph. Nicolò Atzori)

Affezione, disaffezione, specializzazione 

Nello sforzo verso quella fedeltà particolarmente richiesta agli antropologi quando debbano restituire luci, certo, ma soprattutto ombre di formazioni e rappresentazioni sociali, sembra sempre problematico riferire delle criticità sottese all’universo che diciamo “culturale”; di cui, per una sorta di implicito sentimento di riconoscenza o fascinazione, risulta disdicevole notare esplicitamente i lati negativi. “Culturale è bello” è una seducente sciocchezza. La gestione italiana del patrimonio culturale, infatti, risulta essere un marasma di casistiche e livelli d’azione, intenzione e competenza nel quale i lati negativi, a seconda delle latitudini, sono spesso la regola. L’approssimazione nella tutela dei luoghi di interesse e primariamente dei musei, infatti, sfocia in una distanza talvolta incolmabile tra il corpo sociale che è chiamato ufficialmente a rappresentare e il sito in sé, refrattario o inadatto al confronto extra-museale.

A tal proposito, il patrimonio culturale sardarese non è estraneo a simile forma di impermeabilità sociale, storicizzatasi e soprattutto tradottasi in un senso di disaffezione verso la cooperativa, i suoi membri e i suoi presidi culturali, le cui attività apparivano indecifrabili per la vastità del corpo sociale, non abituato a simili forme di impiego e impegno e sovente incline alla loro svalutazione. In questo frangente credo che meglio si inserisca lo sforzo dell’antropologo sul campo museale e patrimoniale, del quale è chiamato a chiarire l’entità delle relazioni.

Come suggerisce Claudio Rosati, infatti, nel pensare il patrimonio culturale è utile riferirsi alla commistione di due componenti: in esso «è dunque implicita non solo l’eredità, ma anche un carico di soggettività», una sorta di «ingiunzione di responsabilità» (Derrida 1996) o di senso di appartenenza dalla forte carica civile la cui custodia egli accorda all’educazione al patrimonio, che credo possa estrinsecarsi positivamente in quanto definisco intelligenza patrimoniale. Particolarmente nella nozione francese di patrimoine, ad esempio, è possibile riscontrare sia il concetto di bene – vicino alle tradizioni inglese (property) ed italiana (beni), più legate al possesso ed all’avvaloramento – «che quello di eredità nel senso di un valore (il patrimonio, appunto) che deve essere conservato e protetto per poterlo trasmettere ai posteri» (Rosati 2016: 39 e ss.); dire patrimonio culturale, insomma, è intrinsecamente un esercizio di autodidattica.

Ancora Rosati, nell’evidenziare il rapporto tra appartenenza ed estraneità delle comunità all’oggetto culturale in Toscana, nota: 

«Si può dire che spesso la richiesta di un museo sia frutto di una domanda sociale che esprime bisogni di identità e di autorappresentazione. Il rischio dell’autoreferenzialità è, ovviamente, in questi casi, assai forte. Sarebbe utile rilevare come si percepisce il museo e quali funzioni gli vengono, in questi casi, attribuite dal pubblico» (ivi: 40-41). 

D’altronde, i musei sono oggi luoghi intrinsecamente biunivoci, distanziatisi dal loro originario carattere santuariale e il cui pubblico non debba intendersi e valutarsi come una massa omogenea e compatta, numericamente data, bensì, come nota Pietro Clemente, sulla base della sua reale composizione: «famiglie, adulti, bambini, il cui cursus honorum museale si lega alla vita di tutti i giorni […] perché il pubblico, se lo si vede dal punto di vista delle storie di vita, dei curricoli culturali, siamo proprio noi nella nostra faccia rivolta al futuro (il museo è l’esperienza nuova che il visitatore sta per fare)» (Clemente 2006: 155, 171).

Se appartenenza ed estraneità sembrano potersi assumere come validi indicatori, un terzo mi sembra quello della specializzazione delle competenze, spesso in grado di gettare ponti verso il contesto sociale e territoriale in cui, ad esempio, un museo e chi lo gestisce si trova inserito. In taluni casi, la specializzazione degli operatori risulta interpretabile come una reazione – anche a posteriori – all’inedia lavorativa derivante da attività e mansioni non gratificanti sia in senso individuale e sociale (ad esempio non ben considerate dalla comunità) che economico (auto-sostentamento e investimento), e dunque rispondenti ad esigenze di più efficace inserimento dell’ente nel dinamismo locale anche in termini remunerativi.

Laboratorio di ceramica per adulti e bambini (ph. Nicolò Atzori)

Laboratorio di ceramica per adulti e bambini (ph. Nicolò Atzori)

Nel caso specifico, alla cooperativa può attribuirsi la formazione – mediante corsi di patrocinio regionale – di diverse figure di ceramista, come Fabio (51 anni), Sandro (51) e Walter (67, oggi in pensione) – “i più portati”, a detta dei colleghi – e l’attivazione di una filiera produttiva dedicata alla realizzazione e alla riproduzione di manufatti realmente restituiti dall’archeologia e conservati in gran parte nel Museo archeologico Villa Abbas, del quale contribuiscono – io credo – a ridurre le distanze financo con il membro della comunità meno edotto, che nell’acquisto dell’oggetto si rende più o meno inconsapevole ambasciatore della scrittura patrimoniale evocata dal sito. Oggi è Alessia, 47 anni, ad apprendere da Sandro, unico degli artigiani “della prima ora” rimasti nell’organico della cooperativa, i rudimenti del mestiere, che dimostra di interpretare liberamente e autonomamente in maniera mirabile e del tutto originale, conferendo alla produzione – incentrata su alcuni particolari oggetti – diversificazione e varietà formale, in piena armonia con la necessità di ogni singolare e irripetibile intelligenza patrimoniale.

La specializzazione in senso artigianale della cooperativa (che non esaurisce ovviamente i suoi servizi), inoltre, risulta suggellata e concretata dall’ideazione di percorsi didattici e laboratoriali per bambini e adulti, garantiti tutto l’anno e attraverso i quali tanti membri della comunità possono tradurre materialmente le conoscenze pratiche apprese, realizzando direttamente, sotto la supervisione degli operatori, dei manufatti ceramici; questi, disponibili al ritiro solo al termine della fase di asciugatura, attivano un processo duraturo di interlocuzione con l’ente che, nella consegna dell’oggetto, non mi pare improprio sostenere ricorra – implicitamente – ad un dispositivo d’affezione e distribuzione di valore di sicura efficienza. 

Ingresso mostra etnografica "La rivolta nell'oggetto" (ph. Nicolò Atzori)

Ingresso mostra etnografica “La rivolta nell’oggetto” (ph. Nicolò Atzori)

Aprirsi al mondo: il digitale nell’agency del patrimonio 

Al momento, una delle sfide principali delle imprese e principalmente delle imprese culturali è sicuramente quella della “presenza digitale”, con ciò intendendo la predisposizione degli strumenti e degli spazi utili a promuovere e costruire la propria immagine, il proprio brand e la propria attività, mantenere contatti e comunicare rapidamente ed efficacemente con la più vasta utenza principalmente consumatrice dei social media. Proprio questa dimensione di sovrapproduzione della socialità ha catalizzato quella condizione di ipertelligenza che si pretende da tanti lavoratori – spesso non diretti professionisti del settore – così costretti ad avocare a sé più compiti e più onerosi sulla scorta dello tsunami delle incombenze e delle capacità che gli apparati di comunicazione richiedono per garantire ad aziende e generici agenti nel mondo del marketing digitale una presenza costante o quantomeno costantemente disciplinata all’interno dell’ecosistema digitale.

L’ipertelligenza, dunque, non va intesa nel senso utopisticamente umanoide in cui la pensò James Lovelock chiamandola iperintelligenza [14], bensì riferita alle possibilità funzionali e strumentali concretamente concesse ad ogni lavoratore nell’esercizio di una quotidianità pratica nella quale sempre più robustamente attecchiscono nuove forme di saper fare legate alle spire di quella che, con fin troppo entusiasmo, chiamiamo transizione digitale. Ciò che si richiede loro, insomma, è un tipo di intelligenza “nuova” e distante dalle forme del fare, del dire e del sentire possibili e concesse fino a pochi anni fa e ancora derivanti da una concezione analogica del comunicare.

Questa premessa, certo personale, è ad uso di chi intenda orientarsi con più informazioni nelle condizioni in cui versano anche tante realtà impegnate, come la Cooperativa Villa Abbas, nella gestione e valorizzazione del patrimonio culturale, costrette a fare di necessità virtù ed inventarsi ex novo servizi e professionalità che, prive di congrui inquadramenti contrattuali e nella peggiore delle ipotesi specifiche competenze, vedono avocare a sé compiti a cui la cultura digitale impone di ottemperare per quella esigenza di esser-ci prevista dal mondo virtuale; costrette, per quanto attiene al nostro caso, allo sviluppo autonomo e autodidattico di quella intelligenza patrimoniale che, nel caso del ricorso agli strumenti digitali, fatto salvifico nel mondo del patrimonio, impone di padroneggiare dei canali e delle metodologie indubbiamente necessitanti di una conoscenza approfondita e di un tempo del lavoro estremamente dilatantesi rispetto ai crismi ufficiali. Un problema, questo, che mi sembra dare contezza dello iato tra le condizioni di un articolato operaiato digitale del tutto impotente e le nuove prospettive del rapido cambiamento in atto. Scrive Umberto Eco: 

«[…] esistono dei mezzi di comunicazione che, a differenza dei mezzi di produzione, non sono controllabili né dalla volontà privata né dalla collettività. Di fronte ad essi noi tutti, dal direttore della CBS al presidente degli Stati Uniti, da Martin Heidegger al più umile contadino del delta del Nilo, siamo il proletariato» (Eco 2023: 33-34). 

D’altra parte, credo abbia ragione anche Maria Elena Colombo quando nota, riguardo alle questioni inerenti al rapporto tra digitale e musei in ambito particolarmente scientifico e accademico, che «chi aveva un minimo di competenze se le era costruite sul campo facendosi domande e interrogandosi, ma non aveva voce o peso accademico; chi quel peso museale o accademico lo aveva mancava di dimestichezza con i confini della materia o con la sua consistenza in generale, e specificatamente sul versante culturale» (Colombo 2020: 22). Ho la fortuna di chi si sia potuto posizionare nel primo caso, vivendo e partecipando dello sforzo, per i professionisti del settore, di orientarsi in una cultura ibrida che alle canoniche incombenze della gestione dei servizi museali – per così dire “civici” – aggiungesse quelle di stampo strettamente comunicativo: consistenti nel concedersi, sulla base di nuovi linguaggi ma non meno rigore, ad una utenza di amici e affezionati (“comunitaria”, potremmo dire) a cui rendere conto di tappe e novità e ad una, invece potenziale, ancora da intercettare e avvicinare ai siti; decisivo, a ben vedere, è stato l’apporto dei new media per raggiungere gli stessi sardaresi meno coinvolti nei processi di produzione del patrimonio locale.

Concretamente, l’apertura dei principali canali di comunicazione come Facebook, Instagram, Twitter e YouTube [15], inaugurata coi primi due e risoltasi in circa un triennio (2018-2021), culminato con l’attivazione del nuovo sito web, ha proiettato l’impresa di un mondo altro, da scoprire giorno dopo giorno e passo dopo passo con una osservazione attenta e costante del fatto digitale; da tradursi, soprattutto, in un’immagine di coesione e affiatamento che fosse concretamente tale fra i suoi membri, chiamati a mostrarsi “nella veste migliore” dal punto di vista umano e operativo. In tal senso, non mi pare improprio rilevare come l’assunzione dei nuovi canali di comunicazione abbia catalizzato, in una buona misura, la qualità delle presenze individuali (in senso demartiniano) e di queste nell’economia della cooperativa: farsi vedere è importante, riconosce l’intelligenza patrimoniale del gruppo secondo l’ottica del marketing digitale. In tal modo, nel seno della società hanno potuto germinare figure e professionalità in grado di adempiere ai doveri della comunicazione, me per primo, e instaurarsi le condizioni per una trasmissione efficace dei nuovi saperi tecnici fra i membri.

Il percorso di crescita intrapreso in questa specifica direzione, mediante un’azione coordinata e condivisa, ha quindi trovato ‘un’importante legittimazione e riconoscimento: inserita dagli operatori nella Mappa delle comunità, sviluppata a partire dal 2022 dalla Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali come propedeutica alla predisposizione della ricerca La partecipazione alla gestione del patrimonio culturale. Politiche, pratiche ed esperienze [16], tradottasi in un’opera di recente edizione (vedi bibliografia), la cooperativa (e i siti da essa gestiti) è stata annoverata fra le realtà «di maggiore interesse e con un notevole grado di innovazione» fra quelle censite, entrando a fare parte, nel novembre del 2022, di un primo tavolo di lavoro a livello nazionale finalizzato all’approfondimento dei casi selezionati.  

Visitatori alla mostra "La rivolta dell'oggetto" (ph. Nicolò Atzori)

Visitatori alla mostra “La rivolta dell’oggetto” (ph. Nicolò Atzori)

A innantis, Villa Abbas! 

Il politichese si sofferma particolarmente sulla necessità di conferire valore a cose e persone, arbitrariamente individuate come risorse perché spiegabili, alla luce di quegli assetti, come produttrici di economia o rispondenti a visioni semplicistiche di una realtà idealizzata. Il patrimonio culturale, scelta invero intrinsecamente politica, viene ovviamente obliterato da simili tendenze, ma sembra spesso discostarsene particolarmente sul piano locale, come emerge dallo studio delle tante realtà impiegate – in termini più o meno formali – nella gestione del patrimonio culturale, che è sempre valorizzazione e tutela di un corpo sociale che vi si riconosce e dell’unicità dei suoi apporti.

A innantis (Avanti) è uno slogan che, fatto proprio da Andrea, 49 anni, nuovo presidente della Cooperativa Villa Abbas dal dicembre del 2023, e contestualmente dalla comunicazione digitale dell’ente, racconta tanto dell’intenzione del gruppo in questa direzione, sulla scia dell’enorme sforzo profuso dal suo predecessore. Due nuovi inserimenti nell’organico, quello di Alessia e di Elena (26), arrivate a dicembre 2023, hanno salutato il “nuovo” corso che nuovo non è nei principi ma sicuramente nell’orientamento degli sforzi, anche in senso genericamente inclusivo. Otto persone, di cui 5 uomini e 3 donne, compongono oggi un gruppo legato e reciprocamente disponibile, in cui altrettante intelligenze patrimoniali si protendono verso un unico obiettivo: fare insieme ed affermarsi facendo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] Cfr. Viazzo P. P., Introduzione all’antropologia storica, Laterza, Bari, 2004.
[2] Ad ispirare il mio approccio rispetto ai fenomeni incontrati fu proprio l’opera di Tiragallo Restare paese. Antropologia dello spopolamento nella Sardegna sud-orientale, edita da CUEC nel 1999 e a cui rimando.
[3] Commissione d’indagine istituita con la legge 26 aprile 1964, n. 310, per la Tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, la quale così testualmente recitava: «Appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggettati alla legge i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà».
[4] Si allude al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, denominato Codice dei beni culturali e del paesaggio e meglio noto come Codice Urbani.
[5] Antonio Taramelli (Udine, 1868 – Roma, 1939) è stato un archeologo e senatore italiano, noto soprattutto per le sue ricerche in Sardegna. Allievo di Luigi Pigorini, fu autore di studi determinanti per l’indagine dell’età protostorica in Sardegna, dove ebbe occasione di assumere la direzione dello stesso Museo archeologico nazionale di Cagliari.
[6]   Nostasìa in sardo, variante campidanese.
[7] L’area, aperta nel cuore del centro abitato, consiste nella parte di un più vasto insediamento di cultura nuragica oggi celato dall’impianto urbanistico moderno, che la oblitera. Interessante risulta la presenza della chiesetta altomedievale di Santa Anastasia, appunto, che insiste sulle antiche vestigia e a ridosso della quale si trova il pozzo sacro omonimo, di cui sancisce la continuità di culto. Altresì interessante risulta la Casa Pilloni, dimora rurale del XVII secolo che introduce al sito archeologico e che oggi consiste nello spazio espositivo della cooperativa, adibito all’allestimento di mostre di ogni tipo, artistiche e non. Segnalo, al proposito, la prima mostra etnografica ivi visitabile, da me curata e aperta al pubblico dal 7 giugno al 15 luglio 2024, come qui descritto: https://www.ilsardingtonpost.it/new/cultura/3141-la-parola-agli-oggetti-viaggio-tra-storia-ed-ecologia-a-casa-pilloni
[8]  Definiamo comunemente Medio Campidano la lingua di territorio che, estesa idealmente fra Marrubiu e Monastir, risulta fisicamente delimitata a est dalle prime alture della collinare Marmilla (altra subregione storica che prelude alla più interna Barbagia) e a ovest dalla costa occidentale (guspinese, arburese e sulcitana).
[9] Cfr. Ibba 2012.
[10] Merita sicuramente menzione, a tal proposito, la bellissima festa di Santa Maria de is Aquas, celebrata nel penultimo lunedì del mese di settembre e dedicata alla Vergine delle Acque, dal 1982 patrona della diocesi di Ales. Rimando ad Atzori 2021 (p. 72 e ss.) per qualsiasi chiarimento nel merito. 
[11] https://www.unionesarda.it/sardi-nel-mondo/notizie/gemellaggio-tra-sardegna-e-bulgariaprotagoniste-sardara-e-pernik-mlxqy20z;  http://www.massimorassu.it/portal/secondo/13Bulgaria.htm
[12] Di matrice culturale ellenistico-romana, il termine evergete stava ad indicare gli appartenenti alle élite che, in virtù della loro posizione di privilegio socioeconomico, ero chiamati a compiere pratiche di beneficenza nei confronti della comunità cittadina (Treccani). Nel nostro caso, faccio mio l’uso del termine attribuitogli per il mondo museale da Krzysztof Pomian e ripreso da Pietro Clemente in riferimento alla figura di una «autorità locale che raccoglie dei beni culturali e che, infine, lascia alla comunità come traccia di sé, e questi beni spesso danno luogo a un museo» (Clemente 2023: 18).
[13]   Per una ampia definizione del concetto antropologico di persona si rimanda a Clemente P., Persone, in Cersosimo D., Donzelli C. (a cura di), Manifesto per riabitare l’Italia, Donzelli, Roma 2020: 183-188. 
[14]h ttps://ilmanifesto.it/leta-delliperintelligenza 
[15]S i forniscono i principali riferimenti del palinsesto comunicativo della Cooperativa Villa Abbas. Facebook:  https://www.facebook.com/villaabbas; Instagram: https://www.instagram.com/villa.abbas.beni.culturali/; YouTube: https://www.youtube.com/@cooperativavillaabbas3560; sito internet: https://ceramichevillaabbas.it/; Twitter: https://x.com/villa_abbas
[16] https://www.fondazionescuolapatrimonio.it/la-mappa-delle-comunita/
 Riferimenti bibliografici 
R. Ago, Storia sociale, antropologia sociale, antropologia storica, in “L’Uomo Società Tradizione Sviluppo” 1-2/2013: 159-162;
Atzori N., Forme e rappresentazioni della comunità contadina tra continuità e cambiamento: usi dello spazio, segni del vissuto e memoria della comunità. Il caso di Sardara, Corso di Laurea Magistrale in Storia e Società, Università di Cagliari, 2020-21;
Clemente P., Antropologi fra museo e patrimonio in “Antropologia”, n°7 : Il patrimonio culturale, 2006: 155-171;
Clemente P., Turci M (a cura di), I musei della DEA. Storie, pratiche e pensieri intorno al patrimonio demoetnoantropologico (1982-2008), Pàtron Editore, Bologna, 2023;
Colombo M. E., Musei e cultura digitale. Fra narrativa, pratiche e testimonianze, Editrice Bibliografica, 2020;
Eco U., L’era della comunicazione. Dai giornali a WikiLeaks, La Nave di Teseo, Binasco, 2023
Ferrighi A., Pelosi E. (a cura di) et al., La partecipazione alla gestione del patrimonio culturale, Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali, Tipografia Negri, Bologna, 2024;
Ibba R., Luoghi e identità: ricostruzione storica dello spazio agrario, sociale e politico della baronia di Monreale nella Sardegna dell’età moderna, Dottorato di ricerca in storia moderna e contemporanea Scuola di Dottorato in scienze storiche, politiche, geografiche e geopolitiche. Ciclo XXV, a.a. 2011/2012 2012
Pancaldi E. (a cura di), Il movimento cooperativo. Cronologia e cenni storici, Pubblicazione della Lega Provinciale Cooperative e Mutue di Modena, Nuovagrafica, Carpi, 2002: 3
Rosati C., Amico Museo. Per una museologia dell’accoglienza, Collana di Museologia e Museografia “Le Voci del Museo”, n. 36, Edifir Edizioni, Firenze, 2016;
Tiragallo F., Restare paese. Per un’etnografia dello spopolamento in Sardegna, CUEC, Cagliari, 2008;
Tore G., Ortu G. G., Pisano L., Cardia M. R., Accardo A., Carta L., a cura di Sotgiu L., Storia della cooperazione in Sardegna. Dalla mutualità al solidarismo d’impresa 1851-1983, Lega Sarda Cooperative e Mutue, CUEC, Cagliari, 1991;
Viazzo P. P., Introduzione all’antropologia storica, Laterza, Bari Roma, 2000-2021.

_____________________________________________________________

Nicolò Atzori, dottorando di ricerca in antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Sassari, è una guida museale e didattica (CoopCulture) attiva a Sardara, paese del Campidano centrale. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’antropologia del patrimonio – con particolare riferimento all’antropologia museale – all’antropologia digitale, ma non manca di una prospettiva d’indagine incentrata sul paesaggio e sulle tradizioni popolari. Formatosi, fra le altre cose, nell’ambito delle digital humanities, tenta di coniugarne l’approccio a quello della ricerca etnografica ed etnologica in senso classico, secondo l’orientamento dell’antropologica storica. Sta frequentando il master di Antropologia Museale e dell’Arte della Bicocca.

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>