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Arcipelaghi. Dal Tirreno al Pacifico. America mediterranea e Rinascimentalismo postcoloniale, tra vigneti, Missioni, sante, pionieri e schiavi

The Cantino Planisphere, 1502 (biblioteca Estense universitaria Modea9

The Cantino Planisphere, 1502 (Biblioteca Estense universitaria Modena)

di Roberta Morosini                                                          

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

 fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,

 e l’altre che quel mare intorno bagna (Inf. XXVI, 103-105). 

«Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria»(E. Glissant, Poetica della relazione). 

A conclusione del semestre presso l’Università di Berkeley con una cattedra in Italian Culture istituita nel 1928, a maggio di quest’anno intraprendo due viaggi sulla costa del Pacifico, il primo, verso Carmel a Nord di San Francisco e della città di Monterey, e l’altro verso Mendocino, per fermarmi al ritorno a Sonoma, un viaggio che sa di Mediterraneo, e di casa lontano da casa, tra vigneti che ci portano direttamente in Italia, anche nelle aree che non si affacciano sul mare come la città di Asti,  e Missioni francescane.

Chi percorre la Pacific Coast Highway sente l’Oceano e sa di non essere sul Mediterraneo per una esperienza sonora e visiva che diventa fisica. Lungo il Pacifico, in un viaggio che in fondo è ricerca di radici identitarie per andare oltre il mero dato biografico, visto che i miei parenti emigrati, la sorella di mamma Eutilia e suo marito, zio Carlo, sarto dei grandi attori e dell’allora sindaco Giuliani, sono a New York City. Dal Tirreno, da cui son partita, in provincia di Salerno, mi lascio alle spalle l’approccio continentale, il punto di vista è l’acqua, e per quelle “funi sommerse” che riconducono il Mediterraneo al Pacifico, tra vigneti e Missioni, si snoda parte di un viaggio che riconduce alla memoria personale e storica. Borges diceva che la mappa, tappa dopo tappa, dei luoghi dove abbiamo viaggiato offre il ritratto del nostro volto. Del resto, lo dice anche E. Glissant in Poétique de la Relation [1]: 

«Le radici non hanno da sprofondarsi nel buio atavico delle origini, alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami di una pian­ta, ad incontrare altre radici e a stringerle come mani» (Vivere significa migrare. Ogni identità è una relazione, «Corriere della sera», 1 ottobre, 2009). 

Comincio a pensare che sia proprio così come dicono Borges e Glissant.

Per molto tempo con le mie sorelle Nunzia, che ci ha lasciato nel 2022, e Giuliana e fino a quando son partita dall’Italia per Montreal per un dottorato presso McGill University nel 1995, l’autunno era scandito dalla vendemmia che preferivamo alla raccolta delle noccioline nella vigna di famiglia di un papà metalmeccanico, in agosto dopo il mese di vacanza ad Agropoli, perché la vendemmia era sempre all’insegna della gioia, una festa familiare che accoglieva amici che a gara si offrivano di dare una mano, e il pranzo di mamma, che a vendemmiare non veniva, per la sua salute sempre un po’ fragile.

È una passeggiata sulle foglie bruciate dal sole del Reynolda Park a Winston-Salem, in North Carolina dove ho vissuto per 22 anni, a fare da madeleine proustiana e  restituirmi l’odore e il suono dell’alba in montagna, e di un passato che non torna più, ma che ho il privilegio di raccontare. E il ricordo di quei panini con peperoni, melanzane e patate dell’orto con salsiccia che ti faceva dimenticare la lotta con le zanzare e le api. La salsiccia poi, quella di Sarno ha il finocchietto e un sapore che come il nocciolo d’oliva che uno rigira in bocca, sa di casa. Parte di questi filari son rotolati giù con la violenza della lava di fango che ha seppellito amici cari nel 1998, e che mio padre, con la cura di chi si appresta a soccorrere un malato, ha rimesso su alla maniera toscana, seguendo il modello di suo fratello, lo zio Umberto che a Scandicci aveva ricreato quell’agro-nocerino-sarnese che allunga le giornate, e la vita quando sei lontano da casa.

Da emigranti si ricrea quanto si è lasciato, si sa, e si adotta il modello locale in una forma di meravigliosa convivenza e sinergia.  Il vino del resto, come dice Vittorio, un amico che dal Veneto agli USA di vino si è occupato “non è qualcosa ma qualcuno”, occuparsi delle viti ristora l’anima in frammenti, come quella di mio padre, prima per la lava di fango, e poi per la perdita di sua figlia Nunzia. Storia personale e la Storia si intersecano qui sulla costa del Pacifico, per me emigrante privilegiata, partita con le borse di studio e oggi professore Ordinario prima presso L’Orientale di Napoli e ora  UCLA. Dal Mediterraneo al Pacifico, quanta storia, e quante storie.

Ma cosa c’entra tutto questo con il vino, con il Mediterraneo e cosa c’entrano le Missioni? C’entrano le storie, quelle che mi hanno portato a innamorarmi della filologia romanza, anche per leggende della tavola rotonda. Di cavalieri che salvano donzelle dai draghi, o di Perceval che salva le ragazze schiave e sfruttate, dalla “pessima avventura,” non molto diversa dalle moderne schiavitù di giovani donne e bambine nei sottoscala dei nostri palazzi.

Andrew F. Rolle scrive che la cultura californiana originaria consiste nella cultura della missione, del ranch e della vigna [2]. La storia della Bassa o Vecchia California, è storia delle città, e dei vigneti e di Missioni procedono di pari passo, e procedono di pari passo con il colonialismo europeo, in particolare in questa area, con quello spagnolo. 

Carta di De Fer, 1720, La California o Nouvelle Caroline

Carta di De Fer, 1720, La California o Nouvelle Caroline

Come mostra la Carta di De Fer, già dal 1500 si pensava che la Baja California fosse un’isola che chiamarono La Nouvelle Caroline. Che le sorti dei territori della Bassa California fossero legate a quelle delle Missioni lo conferma la secolarizzazione di tutte le terre appartenute alla Missione nel 1833, in seguito alla Indipendenza del Messico nel 1821 quando tutta la zona divenne parte del nuovo Stato messicano. Il governo messicano temeva infatti che l’influenza delle missioni, che erano rimaste fedeli alla Chiesa cattolica spagnola, potesse minare dalle fondamenta il suo controllo della regione.

La mia prima visita a una Missione è stata nel 2019, quando occupavo la cattedra Speroni di letteratura e cultura del Rinascimento presso UCLA. Il mio amico britannico Gregory mi portò alla Missione di Santa Barbara fondata nel 1786 e da cui la città prende il nome. Una profonda tristezza mi assalì e da quella tristezza è nato un viaggio e una ricerca intorno al rinascimentalismo postcoloniale in una prospettiva che chiamo Mediterranocentrica, riferendomi ai colonizzatori che hanno fatto confluire e hanno traslato oltre lo stretto di Gibilterra quell’egemonia di supremazia culturale e continentale dell’Europa occidentale. Postcoloniale qui sta nei termini di Cristina Lombardi-Diop che scrive: 

«Postcolonial studies have opened a truly global debate on the links between different areas of the world connected by the experience of imperialism and neo-liberal exploitation, showing the connection between contact zones. Moreover, one of the central points of postcolonial criticism has been precisely to celebrate heterogeneity through the rescuing of local, subaltern subjectivities against the homogeneity of Italian and Western modernity» [3]. 

Si tratta di raccontare le soggettività locali e subalterne. Come ho scritto in Islands of the Aegean.Pages in a Sea of Paper. From Apollo to the Infidel Turk, Buondelmonti’s geopolitical Archipelago (in Spazi letterari del Mediterraneo per «Annali. Sezione romanza», vol, 65, 3, 2023: 31-62 http://www.serena.unina.it/index.php/aionromanza),ci aveva già provato il fiorentino Cristoforo Buondelmonti con il Mediterraneo Orientale, prima delle esplorazioni geografiche che seguirono al 1492. Alle prime avvisaglie  dell’arrivo dei Turchi Ottomani, il religioso Buondelmonti drizza le vele, e non metaforicamente come Giovanni (Boccaccio)  nella Genealogia degli dei gentili di cui ho parlato in Dialoghi Mediterranei, 46, 2020 (https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-mediterraneo-mare-salato-note-su-navigazione-e-civilta-dalle-genealogie-degli-dei-pagani-di-boccaccio/), e si imbarca verso l’Arcipelago dell’Egeo per salvare quel che rimane della cultura antica.

Liber insularum arcipelagi, Christoforo Buondelmonte

Liber insularum arcipelagi, di Christoforo Buondelmonte

Questo è quel che dice lui nella premessa del suo Liber insularum Archipelagi del 1418 circa, in realtà la sua descrizione delle isole dell’Egeo è un pretesto per testimoniare il declino e il degrado di queste isole: capitelli spezzati, incursioni a danno dei monasteri e delle città son dovuti alla barbarie degli infedeli. Cristoforo Buondelmonti inizia un nuovo genere letterario, quello degli Isolari e inizia anche la costruzione ‘artistica’, ma pur sempre costruzione e foriera di conseguenze, come si vede dall’Isolario di Benedetto Bordone nel 1528, per la percezione dell’altro e dell’altrove.

Bordone, difatti,  pur non avendo mai viaggiato nel “Nuovo Mondo”, dedica alle sue isole – perché isola si riteneva il Nord America subito dopo le esplorazioni geografiche oltre lo Stretto di Gibilterra – il primo capitolo del suo Isolario. A Bordone sto dedicando il mio prossimo libro nell’ambito di una ricerca sull’impatto delle isole “scritte” nel processo di mediterraneismo postcoloniale che prevede l’appropriazione dell’altro e l’espropriazione dell’altrove (A sea of paper. Encompassing islands and postcolonial Medievalism. From Boccaccio to Bordone’s New World), una cui anticipazione è La penna e il compasso: isole di carta, pagine di potere, il Novo Mondo nell’Isolario di Bordone (1528), in Il senso del mare, a cura di A. Musarra (Viella, 2024).

Parto da Berkeley. Per ore guido, e non penso a nulla. Mi dirigo verso Monterey per giungere a Carmel e visitare la seconda Missione, la prima è stata quella di San Diego, costruita a Carmel by the sea perché si trova lungo la costa della California, a nord del Big Sur e di San Francisco.

La costa della California sulla Pacific Highway.  Chi la percorre come me non può non sentire la forza dell’Oceano, il vento fragoroso che infrange i vetri della macchina, non può ignorare il racconto di quella costa che ti dice della costruzione delle Missioni spagnole al punto da prendere il nome di Camino Real. Un cammino ‘regale’ perché la conversione forzata degli abitanti locali da parte degli Europei che lì, come Buondelmonti nel Mediterraneo orientale, si ergono tramite l’evangelizzazione come portatori di civiltà, per il predominio spagnolo e le sue mire espansionistiche. Anche Buondelmonti aveva posto la questione della superiorità dell’Occidente in termini non strettamente religiosi, ma per amor di civiltà.

Ripercorrere il Camino Real significa ripercorrere tappa dopo tappa, quel mare dell’espropriazione di cui parla Iain Chambers (In rotta sui mari dell’espropriazione, in «Il Manifesto», 3 giugno, 2023), e lo sradicamento e la cancellazione dei luoghi e costumi delle popolazioni locali, come per esempio gli Indiani Ohlone, nel nome dell’umile santo di Assisi. Santo itinerante, contro ogni forma di schiavitù e in lode di tutte le creature, lui che nel 1219 si era recato dal Sultano in Egitto e con un libro, il Vangelo, ispira ora la cartografia un progetto di ‘civilizzazione’ ,  El Camino Real che mappa comunità che porta il nome di chi le ha fondate, ed  edifici che quel progetto ‘presidiano’.

Il progetto di  colonizzazione di Carlo III di Spagna era, difatti, di stabilire missioni in tre punti strategici: San Diego, la Baia di Monterey e il distretto di Santa Barbara, tramite 1. Le missioni a cui era affidata la conversione dei nativi americani, 2. i presidios, un fortino o guarnigione, per la difesa del territorio, 3.  i pueblos, le città dove risiedevano i coloni. Una di questi pueblos, il secondo dopo San Josè («14 famiglie colonizzatrici, per lo più soldati e le loro famiglie dal Presidio di San Francisco, 66 persone in totale, El Pueblo de  San Jose de Guadalupe, il primo insediamento civile – first civil settlement – viene fondato vicino alla Missione Santa Clara”, 1777), è Los Angeles, fondato nel 1781 come Il Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Angeles del Río de Porciúncula: «undici famiglie colonialiste, e quattro soldati, 48 in totale. Il pueblo di Nostra Senora de Los Angeles è fondato», 1781).

Presidi veri e propri, come quello fondato a San Francisco nel 1776, e a Sonoma city nel 1823 – la San Francisco Solano Mission che è l’ultima delle 21 Missioni Francescane della California, e sebbene piccoli come quest’ultima, sarebbero serviti alla Spagna per rivendicare il predominio su questa regione in particolare verso le mire espansionistiche, e possibili incursioni militari, dell’Inghilterra, della Russia e di qualsiasi altro potere imperiale [4]. Nel 1836 il General Vallejo vi fece erigere le barricate per le truppe che resero Sonoma il centro di traffico e commercio a nord di San Francisco, la chiesa-capanna per le famiglie e i soldati del pueblo.

516vkevxwllSecondo Mitchell Postel, la Corona Spagnola con Carlo III pretende di prendere le distanze da una colonizzazione selvaggia di cui si erano tristemente resi protagonisti nelle Indie occidentali, in  Messico e in Sud America  conquistando e schiavizzando le popolazioni native, e per migliorare la propria immagine provano a mostrare di avere a cuore gli interessi delle popolazioni native. Per questa ragione affidano al francescano di Maiorca Junipero Serra «la visione di offrire in dono una utopica comunità cristiana agli Indiani della California» [5].

Questo progetto di colonizzazione dell’altro culturale, in nome della civiltà, generato dalla supremazia dei cristiani per la Nuova California in nome della Nuova Spagna, venne strategicamente messo nelle mani di religiosi, l’Ordine più itinerante quale è quello dei francescani, e al più Mediterraneo dei frati: Junipero Serra di Maiorca. Dal 1769 al 1784 Junipero crea dal nulla, «A mission System», un vero e proprio “Sistema delle Missioni”: 

San Diego – 1769
Carmel – 1771
San Antonio -1771
San Gabriel – 1771
San Luis Obispo – 1772
San Juan Capistrano – 1775
San Francisco – 1776
Santa Clara – 1777
San Bonaventura – 1782 
Targa commemorativa

Targa commemorativa (ph. Roberta Morosini, 2024, 4 maggio)

L’intreccio di questo frate che porta il nome di Fra’ Ginepro (1190-1258), diventato alfiere del progetto di espansione coloniale di Carlo III, insieme a un capitano di fregata, Don Gaspar Portolá, mi lascia sgomenta. L’intreccio militare e politico-economico con il frate di Maiorca a cui viene affidato il Sistema delle Missioni viene siglato nella targa commemorativa che accoglie il visitatore all’ingresso della Missione di Carmel. In inglese e in francese si legge:  

«In commemorazione dell’arrivo a Monterey  il 14 settembre  1766  dell’esploratore conte della Perouse comandate delle fregate “Bussola” e “Astrolabio”. Questo ha costituito la prima visita ufficiale di una potenza europea agli insediamenti spagnoli di una costa ancora misteriosa, nella Cappella della Missione di Carmel. Padre Lasemn in onore di questo evento ha celebrato la messa del Te Deum il 16 settembre 1766, Presentato dal Governo della Repubblica Francese» (traduzione mia)

 Missione di San Carlo Borromeo, Carmel by the Sea. California.


Missione di San Carlo Borromeo, Carmel by the Sea. California (ph. Roberta Morosini)

Carlo III, come si vede dalle foto che ho scattato in occasione della mia visita, omaggiato sull’altare costruito con il legno proveniente dal Messico, come le  statue dei santi, con un Cristo trionfatore che con il braccio destro alzato in segno di saluto, assomiglia più a uno di quei re colonizzatori, che al figlio di Dio morto in croce,  mi lascia una forte impressione. 

Alle conquiste e riconquiste europee in Asia, basate sui criteri di umanità e razionalità dell’altro non-cristiano secondo un paradigma medievale di salvezza, subentra la moderna missione civilizzatrice con leggi e forme organizzate di governo. Come era successo per le Canarie dove il principe Eugenio il Navigatore (1394-1460) chiese al papa Eugenio di sostenere la sua missione non solo per battezzare, ma anche per civilizzare i nativi con leggi civili e forme di governo. Ancora prima con la Candia veneziana. Anche Paolino Veneto, frate dell’Ordine minore dei Francescani, come ho osservato altrove [6], aveva scritto in dialetto veneziano un trattato per il buon Rettore di Candia, odierna Creta. In tre libri, al Rettore spetta la formazione liberale per poter reggere la colonia: non di conversione si tratta ma di egemonia culturale. Al virtuoso pagano subentra il selvaggio, come nuovo segno dell’altro. Del resto nella lettera che inviò ai sovrani spagnoli Ferdinando e Isabella, Colombo scriveva che nelle Americhe non c’erano uomini mostruosi, solo selvaggi. 

Di costa in costa: da Maiorca a Veracruz, fino a Loreto nella Bassa California 

Arrivato a Veracruz nel 1759, Junipero a piedi raggiunse Città del Messico nel Collegio di San Fernando, sede delle attività francescane nella Nuova Spagna. Da qui dopo vent’anni realizza il suo desiderio di predicare il Vangelo presso terre sconosciute.  Arrivò così a Loreto nella Vecchia California dove c’era il presidio dei Gesuiti. Dal 1697 detenevano potere temporale e spirituale, possedevano le terre confiscandole alla Corona e dividendo con il popolo il ricavato.

 Monterey. Statua di Don Gaspar de Portolá dello scultore Fausto Blazquez


Monterey. Statua di Don Gaspar de Portolá dello scultore Fausto Blazquez

Vennero soppressi nel 1768 e al loro posto arrivarono i Francescani con Serra per portare a compimento il progetto di colonizzazione: un decreto venne fatto per portare gli europei, sebbene la terra fosse inospitale e non ci fosse acqua. Serra passò un anno qui come Padre superiore, quando venne chiamato a unirsi al capitano Gaspar de Portolá per la Nuova California, l’odierno Stato della California. È questa coppia costituita da un capitano e un frate francescano a guidare la “Sacra spedizione” verso l’Alta California, ed è questa ‘strana’ coppia a inquietarmi. 

Don Gaspar de Portolá dell’armata del re Carlo III di Spagna. Primo Governatore della California 1768-1770, con padre  Junipero Serra  fondò  Monterey il 3 giugno 1770. Donata da sua Altezza Sua Maestà  Juan Carlos  I di Spagna  alla città di Monterey nel bicentenario degli Stati Uniti d’America. (traduzione mia) 

Mike Marotta (1921-2019)

Mike Marotta (1921-2019)

Poco distante da qui, è una statua dedicata a un altro europeo, Mike Marotta (1921-2019), a rimettermi di buon umore.  

L’interesse per la California comincia trent’ anni dopo il primo viaggio di Colombo. Era il vecchio sogno di Cortéz che aveva già distrutto e saccheggiato l’impero Azteco del Messico centrale, e del suo successore Antonio de Mendoza la cui missione era di consolidare gli interessi spagnoli in Nuova Spagna e in particolare della costa settentrionale del Messico. Nel 1533 invia Diego de Becerra e Fortùn Ximènes. Qui, complice il romanzo di Garcìa Ordònez de Montalvo del 1510, Las Sergas de Esplaῆdiàn, si pensava che ci fosse un’isola che è quanto v’è di più vicino al Paradiso in Terra, dove gli abitanti di pelle nera son tutte donne che  vivono alla maniera delle Amazzoni, che  le loro armi sono tutte d’oro, come le briglie che usano per domare le bestie selvagge, perché l’unico metallo sull’isola è l’oro. Dal nome della regina delle Amazzoni Calafia il “Golden State”, lo Stato d’oro, prende il nome di California. Il Nord del Messico però presenta condizioni ambientali difficili e la resistenza dei nativi. (cfr.  California Historical Landmarks Associated with the Ohhione-Portolá Heritage Trail. State of California Natural Resources Agency. Department of Parks and Recreation).

La «Sacra navigazione» affidata a Junipero Serra per l’Alta o Nuova California, partì proprio dalla Baja o Vecchia California, e precisamente da Loreto. Cominciò con 24 uomini a bordo di uno dei due vascelli che lasciarono la Vecchia California, San Carlos e San Antonio, morirono di peste. Alcuni, anche nativi che si erano uniti alla spedizione, arrivarono malati o disabili a destinazione.

Arrivato su una nave condotta da Portolá, con una gamba gonfia dovuta al morso di un insetto che lo lascerà zoppo per tutta la vita, a sedici giorni dal suo arrivo, nel luglio del 1769 a San Diego de Alcala, e Portolá cominciò a cercare la baia di Monterey dove pose la pietra per la Seconda Missione San Carlos Borromeo, nel 1771. Serra fonda la prima delle 21 Missioni della California a San Diego a dispetto delle proteste dei nativi. Portolá arriva nella Baia di San Francisco il 31 ottobre del 1769. Prima di questo momento la baia dell’Alta California era sconosciuta eccetto ai nativi per diecimila anni. Tra le popolazioni native c’erano gli Indiani Ohlone che vivevano nella parte meridionale della baia di San Francisco. Più di 50 tribù vivevano in villaggi costituiti ognuno dalla propria terra e costumi. Gli esploratori spagnoli riportano la presenza di villaggi nell’intervallo di tre o cinque miglia (R. Milliken, A time of little choice: The Disintegration of Tribal Culture in the San Francisco Bay Area, 1769-1810).

410pctfac0l-_ac_uf10001000_ql80_Anche Monterey viene fondata da Don Gaspare de Portolá insieme a Junipero Serra. Ma è anche più singolare che l’origine della città di Carmel si debba alla costruzione nel 1770 della Missione San Carlos Borromeo de Carmelo che Junipero fece costruire per eseguire ‘la missione’ assegnatagli da Carlo III.

R Archibold e Jack. D. Forbers invitano a non dimenticare che le Missioni venivano costruite con la forza lavoro degli indiani, e che la Missionarizzazione fosse brutale e rapida: «Missionarization required a brutal lifestyle akin in several respects to the forced movement of  Black people from Africa to the American South» [7]. Le Missioni non erano solo istituzioni religiose. Erano al contrario, strumenti designati per creare, in tempi rapidissimi, un cambiamento totale nella cultura del posto [8]. 

L’icona venuta dal mare: da Creta a Carmel by the sea 

È una giornata di pioggia incessante il 4 maggio. Entro nel museo della Missione. Ho bisogno di capire quali oggetti son custoditi e cosa raccontano. Colpisce l’icona della Vergine con il bimbo che perde un calzare. Dipinta su una tavola di legno su fondo oro, porta nel braccio sinistro il Bambino e gli porge la mano destra. Ai lati del capo si leggono le lettere greche MP-ΘΥ (Μήτηρ Θεοῦ, Madre di Dio). A destra della testa di Maria è raffigurato, a mezza figura, l’arcangelo Michele che sostiene un vaso dal quale emergono la lancia e la canna con la spugna; similmente, a sinistra del capo della Vergine, è rappresentato l’arcangelo Gabriele che mostra al Bambino la croce e i chiodi.

Icona della Vergine

Icona della Vergine, Madre del Perpetuo Soccorso

Il bambino Gesù, identificabile dalle lettere greche sulla sua spalla IC-XC (Ἰησοῦς Χριστός), guarda la croce presentatagli da Gabriele e stringe la destra della madre con entrambe le manine, quasi a chiederle soccorso. Il suo sandalo destro è raffigurato slacciato, mentre gli pende dal piede.  

Mi informo, studio e ricerco [9].  Ammetto di esser stata sorpresa nel vedere il Bambino Gesù che, in grembo a Maria in trono, veste i calzari di Francesco nel ciclo di affreschi di Bosa (Cfr. Morosini, Dante, Fra’ Macario e i calzari di Gesù-Francesco a Bosa. L’incontro dei tre vivi e dei tre morti. Sassari, Mediando, 2021), ma mai avevo visto questa scena che lo presenta con un sandalo slacciato, che gli pende dal piede.  Apprendo che si tratta dell’icona di Maria, Madre del Perpetuo Soccorso. Il culto si fa iniziare dalla traslazione alla fine del Quattrocento – il 27 marzo 1499 – nella chiesa di San Matteo in Merulana dell’icona mariana dell’Amòlyntos (madre di Dio della Passione), quando l’edificio sacro venne affidato agli eremitani di Sant’Agostino, già devoti alla Nostra Madre del Perpetuo Soccorso nel loro convento di Palermo.

La Madonna “di San Matteo” (dal titolo della chiesa), venne poi chiamata “del Perpetuo Soccorso” come testimoniato dall’epigrafe del 1579 sul frontone esterno del portale della chiesa romana: Deiparae Virgini Mariae succursus perpetui.

Che ci fa qui in una Missione in California? Non ho ancora notizie dell’arrivo di questo dipinto nella Missione di Carmel, potrebbero esser stati i Redentoristi americani negli anni successivi al 1927, ma a chi come me interessa il rinascimentalismo postcoloniale, i calzari di Francesco indossati dal bambino Gesù nell’affresco di Bosa, e il sandalo che sta per cadergli nella tavola bizantina, sembrano indicare nuove rotte che dall’isola di Candia veneziana, odierna Creta, da cui proverrebbe l’icona, fino alla Sardegna e alla costa del Pacifico, aprono nuove riflessioni sul ruolo delle numerose ‘sacre spedizioni’ in un mare che trasporta merci, schiavi e anche icone, con l’intento colonizzatore di ‘muovere’ cose e persone nell’ambito di un progetto di egemonia di espropriazione e appropriazione, culturale ed economica.

All’inizio del Settecento, secondo il favoloso racconto del gesuita Carocci, l’icona sarebbe stata sottratta a Creta da un mercante che poi, salvatosi da un sicuro naufragio per intercessione della Vergine, giunse a Roma, e trovò ospitalità presso un amico; in punto di morte, il mercante chiese all’amico come ultimo desiderio di far esporre l’icona in una chiesa ma l’uomo si rifiutò, su consiglio della moglie. Morto anche l’amico, la Vergine apparve alla sua giovane figlia, rivelandosi con il titolo di Madre del Perpetuo Soccorso, chiedendole di far esporre l’icona in una chiesa tra le basiliche San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore. La vedova dell’amico del mercante, dopo il racconto della visione della figlia, acconsentì a restituire la Madonna al culto pubblico.

Il presepe, Museo della Missione di San Carlo Borromeo, Carmel by the sea.

Il presepe, Museo della Missione di San Carlo Borromeo, Carmel by the sea.

Nel museo trova posto un’altra tradizione traslata dall’Italia: il presepe. La tradizione, nata si sa con San Francesco, arriva con i seguaci del santo nelle Missioni Californiane. I Francescani lo allestivano con “cose importate e a portata di mano”. La più vasta scena italiana riempie tutta l’area del Santuario della Missione di San José, con scenografia dipinta da Padre Gonzales Rubio. Che ci fosse uno scambio commerciale con i vascelli europei si vede dai personaggi di papier-mâché provenienti dalla Francia (anche nella Missione di San Louis Obispo), altri come nella Missione di Carmel abbigliati  alla maniera di Maiorca, come bamboline, e i pastori di legno e terracotta italiani, qui e nella Missione di San José. I pastori di manifattura italiana del XVIII secolo, son0 stati collezionati e donata dalla Signora Alistar McCormick di Santa Barbara nel 1986, ma colpisce la natura degli edifici che hanno poco di italiano per assomigliare sempre più a quello stile coloniale delle case in questa zona. 

Una finta pergamena ricorda, al visitatore scettico sul ruolo ed effetti delle Missioni verso le popolazioni native, i contributi della Missione in California: «from hunter-gatherer economy to agricoltural economy», (da una economia basata sulla caccia a un’economia agricola), e al primo posto ci sono i vigneti: 

Grape vineyards evolved to the present-day wine industry.   In 1779 vines were sent to Mission San  Juan Capistrano  from Mexico. By 1781, there were 2000 grapevines. In 1784 the Mission made wine (From “First Farmworkers….”). 
Presepe. Dettaglio. Museo della Missione di San Carlo Borromeo, Carmel by the sea, California

Presepe. Dettaglio. Museo della Missione di San Carlo Borromeo, Carmel by the sea, California

L’elenco continua, e al secondo e terzo posto vengono indicati i contributi della Missione: ulivi, fichi, pesche, pere, mele, arance, melograni vennero piantati, mettendo in evidenza quanto «l’industria dell’olio d’oliva e della frutta rappresenti un raccolto multimilionario per la California», così come gli odierni e floridi campi di carciofi e  fragole, sono colture originarie della  SpagnaNative of Spain») che vennero piantate e costituiscono una florida industria oggi.

Resta con me e lo annoto, ragion per cui ne parlo qui, la parte finale sul contributo delle Missioni. «Nel giugno 1769, Portalá, Serra e soldati viaggiarono con 46 muli, 140 cavalli e 19 mule». 

Vigneti e Missioni: La Anderson Valley e la piazza di Sonoma 

Con lo stesso intento di ripercorrere vigneti e Missioni, riparto da Berkeley alla volta di Mendocino. Come sempre non studio il percorso di viaggio. Non è una cosa buona mi dico. A furia della mia mania di voler “cercare”, e in piena epoca digitale rischio di mettermi nei guai. Eppure, cercare è verbo che sta per scoperta, sta per muoversi per conoscere. Non era previsto, ma colpisce il cartello di una cittadina dal nome intrigante, Petaluma, perché sito storico. Decido di fermarmi. Dopo aver mangiato un boccone con una coppia di signore, una del Sud Italia e una della Louisiana, riprendo il viaggio e prima di intraprendere la strada per Mendocino, mi fermo di nuovo, a far benzina, nella cittadina di Boonville. Mi sembra di essere in un film. Solo ora capisco di essere nella Anderson Valley e sulla Highway 128, la strada dei vini, 15 miglia di strada serpentina. Non ci sono luci c’è nebbia e sta facendo buio. Son tutte curve e son nel mezzo di una foresta di antiche sequoie. Paesaggio spirituale, ma che inquieta per la nebbia incombente. Vale la pena dormire a Fort Bragg, perché non trovo posto a Mendocino.

Volevo sentire e vedere solo l’Oceano? Bene. Qui non si dorme nel lodge che dà sul Pacifico. È violenta l’onda che fragorosa frange la costa. Piove, c’è nebbia. Mi assale la paura occidentale del ritorno, tra pioggia e nebbia in quelle curve di sequoie secolari che rischia di non farmi vivere il momento.  Vado a Mendocino, non prima di aver fatto un salto nella chiesetta di Fort Bragg dove mi porta il navigatore: Our Lady of Good Counsel. È il giorno della incoronazione della Madonna di Fatima, e la corona enorme viene posta sulla testa della statua con un rito che mi riporta, in qualche modo, ad alcuni riti a cui ho assistito da bambina nella chiesa del Duomo di Episcopio affrescata dal Solimena.

Ora comincio a capire che qui, dove tutto mi sembra così lontano, in un intreccio tra passato e presente, mi sento come non mai vicina al Mediterraneo di cui sento l’onda in quella violenta del Pacifico. La nebbia rende suggestivo il mio incontro con Mendocino. Il Patterson pub dove mangio un’ottima zuppa di pesce, una volta era una chiesa, si vedono ancora le acquasantiere, mi confonde, ma la sua sovrapposizione di senso, da luogo sacro a pub, mi ricorda che anche Mendocino è affetta dagli archivi del mare, e dalla colonizzazione. Incontro artisti locali e una coppia che vive in una roulotte, sbarcando il lunario con le offerte dei visitatori del Museo dedicato a Ford, il primo sovrintendente di una segheria che avrebbe permesso la costruzione di quella spettacolare strada di sequoie che ho percorso all’andata:  il legname che arrivava per mare attraverso piccoli porti (dog-holes) per piccole imbarcazioni chiamate “lumber schooners” che garantivano la sopravvivenza in luoghi non altrimenti raggiungibili data l’abrasività della costa. Questi velieri, i “lumber schooners”, erano gli unici a collegare i lumber ports e le città principali. Portavano provviste di ogni tipo ai porti e tornavano indietro con prodotti dell’agricoltura e pollame.

71le9e4bpal-_ac_uf10001000_ql80_Da Mendocino a Sonoma, per visitare la Missione in questa città il cui nome è legato ai vigneti. «Sonoma nasce come una Missione e aveva l’uva della Missione» leggo in California, Vines, Wines & Pioneers di Sherry Monahan (2013) che ho comprato nella libreria storica della città. Arrivo a Sonoma City per visitare la Missione-Presidio dopo anni dalla prima volta che lì sentii di nuovo l’odore di quella libreria. Non l’ho mai scordato. Ce l’avevo addosso e l’ho detto alle libraie che la gestiscono.

Ero stupita di quella libreria, di quella piccola pasticceria francese, e  tutti gli edifici che circondano quella piazza, l’unica negli Stati Uniti insieme a quella di Savana nello Stato della Georgia. Sembrava di essere catapultati in una delle nostre città, eppure Sonoma che prende il nome dalle tribù dei nativi americani, Pomo e Mivok di vallata della luna, è in dialogo con la Missione Solano, e con tutti quegli edifici costruiti intorno da Vallejo, rinfresca la memoria di una America mediterranea fatta di espropriazioni, pur di trovare l’El Dorado, il luogo leggendario cercato dai primi esploratori del 1500, anche a costo di sradicare la cultura e gli abitanti del posto. 

L’Italia in California: L’America mediterranea 

Il viaggio verso il West che nell’Ottocento fece fortuna, è ancora poco conosciuto. Me ne accorgo in viaggio verso Mendocino a Berkeley, quando scorgo un cartello che indica la città di Asti. Al rientro, nelle scatole che ho spedito dalla mia biblioteca costruita negli anni americani, quando trovo il libro di Rolle, leggo che il genio degli italiani della California si manifestò soprattutto nel campo agricolo, e in particolare nella viticoltura e nella vinicoltura, dove essi seppero sposare le sapienti tradizioni del Vecchio Mondo ai metodi innovatori del Nuovo Mondo. Fu dagli anni 1880-1890 che nei vigneti della California cominciarono a vedersi in buon numero i vignaiuoli della Liguria, del Piemonte e della Lombardia. Erano di un tipo umano diverso da quello dei pescivendoli e dei lustrascarpe delle città americane della costa atlantica: non vendevano pesce e non lustravano scarpe, ma erano contadini e avevano la passione della vite e del vino.

41ftgatgvol-_ac_uf10001000_ql80_Fu così che il banchiere genovese Andrea Sbarboro che era in California dal 1852 aprì una scuola serale italo-americana per la quale aveva scritto lui medesimo i libri di testo, riuscì a convincere un gruppo di questi contadini del Nord, che non avevano ancora messo radici, a stabilirsi in forma cooperativa su 1500 acri di terra ad Asti, una piccola località nei pressi di Cloverdale. Il suo scopo era di produrre vini fini («al di sopra di qualsiasi concorrenza»), in un clima ideale. Fondò la Italian-Swiss Agricoltural Colony della Sonoma Valley. I viticoltori italiani furono bravi nella lotta contro il terribile nemico della vite, la filossera, e poi contro la consueta serie di anni di piena del fiume Russian; Sbarboro diede loro ottime paghe e tutto il vino che erano capaci di bere.  Dopo pochi anni di sacrifici, la nuova colonia italiana, impiantata su 5000 acri di terra, cominciò a prosperare.  (cfr.  Rolle, cit.: 246-247)

Incredibile fu il successo di questi vini, a cui fece seguito quello di Antonio Cerruti, un ligure, lanciò il marchio di Marca del Monte, passato poi alla storia come Del Monte che dalla costa del Pacifico fece ritorno sugli scaffali dei supermercati italiani. 

Statua di Santa Rosalia

Statua di Santa Rosalia nella baia di Monterey (ph. Roberta Morosini)

L’Italia in California.  La Monterey clipper, i pescatori siciliani e Santa Rosalia in viaggio 

La statua di Santa Rosalia che si erge verso la baia di Monterey testimonia il contributo dei pescatori, quelli siciliani che alla santa son devoti qui, a Monterey. Commuove chi come me si ritrova la statua di bronzo sulla baia, che ti rivolge le spalle, coperta di un mantello che le copre il corpo e il capo:  il suo sguardo è rivolto al mare, dove i pescatori siciliani di sardine rischiavano la vita ogni notte. Vista dal lato dell’acqua, il piede in avanti di cui si intravede il sandalo immette movimento a questa statua che sembra avviarsi verso la baia, quasi a raggiungere chi è in mare, a essere una di loro. I bassorilievi che circondano la base della statua raccontano del legame profondo tra l’acqua e l’uomo,  di un mare che porta benessere e di migranti ingegnosi, e di arcipelaghi, dal Mediterraneo al Pacifico; peschereccio con reti a circuizione, una feluca, e una “Monterey Clipper,” ovvero un peschereccio tipico della baia di San Francisco e di Monterey introdotto in questa zona dagli Italiani alla fine del 1860, su un modello rivisitato di barche con vele latine testimoni dell’intensa attività di navigazione mercantile a Genova, ma il bassorilievo restituisce soprattutto le facce dei pescatori che perfino il bronzo non riesce a stemperare, facce bruciate dal sole  e dalla fatica, la cui esistenza si snoda in acqua: Palermo o Monterey.

bassorilievo in bronzo con targa commemrativa alla abse della statua

bassorilievo in bronzo con targa commemorativa alla base della statua (ph. Roberta Morosini)

Ogni anno il 4 settembre si celebra la Santa che viene portata in processione fino a quella che era la dogana, come a Palermo, sul Mediterraneo, come testimonia il racconto di Boccaccio in Decameron (8.10), e ora a Monterey, sul Pacifico. Si può emigrare in cerca di una vita migliore di quella offerta dalla pesca, e con la pesca dare avvio a un’industria come fecero i pescatori siciliani con le sardine, così Santa Rosalia che sembra con un piede avanzare e muoversi verso l’acqua, diventa ponte tra Palermo e Monterey, tra i pescatori dell’isola mediterranea e del Pacifico.

Decido che Santa Rosalia è una santa migrante, in movimento. Sulla targa commemorativa alla base del monumento si legge: Costruita nel 1979 in memoria dei pescatori siciliani il cui spirito pioneristico all’inizio del ventesimo secolo li aiutò a sviluppare e creare l’industria delle sardine a Monterey.   

È ora di far ritorno a Los Angeles. Strano leggere che dell’influenza italiana non rimangano che i resti, scrive Rolle, e quei resti sopravvivano soprattutto a Los Angeles, dove mi accingo a partire per uno strano percorso del destino che da Napoli mi porta nella parte dell’America più mediterranea che mi fa sentire a casa, lontano da casa.

bassorilievo,  particolare

bassorilievo, particolare

Racconto a degli amici, sorpresi della mia ripartenza da Napoli, che camminare a Los Angeles mi ha fatto sempre sentire come a Napoli, in una città mediterranea, è una esperienza fisica che riguarda tutti i cinque sensi, che non so spiegare perché sarebbe come spiegare come ci si sente a nascere nel Sud, o in un piccolo paese del Sud e scoprire le strade del mondo con genitori che non potevano insegnartele, ma te le hanno indicate. Mi aiuta Rolle a spiegare:

«Pochi italiani, una volta giunti in California, se ne sono andati. Il sole vi splende costante, e i suoi raggi riscaldano corpi e spiriti. Le arcadiche somiglianze fra il paesaggio californiano e quello italiano non colpivano soltanto gli immigranti. […]. Sembrava che i legami fra i due paesi fossero qualcosa di fatale, di ineluttabile. Non a torto, Franklin Walker osservava che la definizione di Los Angeles come “una specie di Napoli”, data da Oscar Wilde, corrispondeva pienamente alla ipersensibilità di città subtropicale di Los Angeles e alla sua aspirazione segreta a diventare la culla di una rinascita della civiltà mediterranea classica» (ivi: 266).

 Le varie località si contendevano addirittura il diritto di fregiarsi, ad esempio, del titolo di  “Vesuvio del West”. Il giornale californiano Golden Era; nel numero di maggio 1888, sotto il titolo San Diego – la Napoli D’America, pubblicava una fotografia che esagerava le somiglianze fra la costa del golfo di Napoli e quella della baia di San Diego e “maggiorava” il San Miguel al punto da farlo sembrare un Vesuvio inattivo. 

«La cultura californiana originaria – la cultura della missione, del ranch e della vigna – non ha lasciato interamente il posto alla cultura verticale del grattacielo. Per un certo numero di anni dopo la Seconda guerra mondiale l’influenza straniera continuò a farsi sentire sulla cultura della California, e fu un contraltare al gran dramma dell’urbanizzazione. Così la vitalità dell’immigrante contribuì a stabilire le fondamenta di un’America mediterranea, che continua ad essere verde e libera nell’era in cui l’ambiente naturale ed umano viene sempre più violentato dalla megalopoli del futuro» (ivi: 268). 

Dai colonialisti europei all’immigrante italiano in California, dalla Liguria, dal Piemonte, dalla Sicilia, e l’architettura romanica del campus di UCLA, una circolarità mediterranea e il monito a una cultura e a un’etica dell’accoglienza.

Statua di Santa Rosalia nella baia di Monterey (ph. Roberta Morosini)

Statua di Santa Rosalia nella baia di Monterey (ph. Roberta Morosini)

«You have the journey! That’s it». Avevo messo in pausa il film 1883 che avevo scelto di guardare in volo nel settembre del 2022, di ‘ritorno’ in Italia dopo 22 anni di insegnamento in North Carolina alla volta di una cattedra in un’Università italiana, per trascriverlo nel mio diario di viaggio, un diario speciale con la copertina di una miniatura medievale che mi aveva regalato Nunzia nel 2022, per il mio nuovo incarico presso la prestigiosa Università L’Orientale di Napoli.

 Spesso ho pensato a quella frase che Shea, il capo della carovana, dice ai pionieri che vorrebbero portare con sé gli ultimi frammenti di un mondo familiare che hanno lasciato per una vita migliore. Devono guadare il fiume. Bisogna lasciarsi tutto alle spalle. È la scelta quotidiana e condizione del migrante che può solo andare avanti, novello Orfeo, non deve mai voltarsi indietro. Come Santa Rosalia immortalata a Monterey: si avanza, verso il mare in condizione di perenne movimento, e riconoscere come invita a fare Glissant, che 

«Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra ancora. Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo» (Glissant, Vivere è migrare, cit). 

You have the journey! That’s it.

Perché ri/tornare a Los Angeles, dopo esser ri/tornata a Napoli? «Tornare è verbo di bisbigli» scrive Erri De Luca. Il viaggio continua, per continuare a raccontare la sfida di vecchi e nuovi migranti, dei dialoghi che fluttuano oltre il Mediterraneo, di pionieri, icone, e schiavi in viaggio nel e del Mediterraneo, dell’Atlantico e del Pacifico. 

                              Dialoghi Mediterranei, n.69, settembre 2024
Note
[1] E. Glissant, Poétique de la Relation. Poétique III, Edition Gallimard, 1990 e trad. E. Restori, Poetica della relazione. Poetica III, [2007], Torino, Einaudi, 2019.
[2] A. Rolle, Gli emigranti vittoriosi. Gli italiani che nell’Ottocento fecero fortuna nel West americano, prefazione di Luigi Barzini e traduzione di Quirino Maffi, Rizzoli, 2003: 268.
[3] C. Lombardi-Diop, Postcolonial studies under erasure: The politics of the transnational in Italian studies,  in «Forum Italicum», 57, 2, 2023: 306-314, e 312.
[4] C. Clifford, Saint Junipero Serra. Making sense of the history and legacy, South Carolina, Create Indipendent Publishing Platform, 2017: 25.
[5] Ivi: 26.
[6]R. Morosini, Le ‘favole’ dei poeti e il ‘ Buon Governo’: il trattato in volgare veneziano De regimine  rectoris e il De Diis gentium et fabulis poetarum in Paolino Veneto. Storico, Narratore, Geografo, a cura di R. Morosini e M. Ciccuto, Venetia/Venezia per L’«Erma di Bretschneider», 2019: 161-208.
[7]  R. Archibold, Indian Labor at California missions: Slavery or Salvation, in  «Journal of San Diego History», XXIV, 1978: 172.
[8] J.D. Forbers, Native Americans of California and Nevada: A Handbook, Headsburg, Naturegraph Publishers, 1969: 29.
[9] Tutte le informazioni da E. Bresciani, Cenni storici sull’antica e prodigiosa imagine della Madonna del Perpetuo Soccorso, Tipografia della S.C. de Propaganda Fide, Roma 1866. V. La Mendola e G. Silvestri, Icona della Madre del Perpetuo Soccorso, storia e meditazioni, Camerata Picena, Editrice Shalom, 2016. 

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Roberta Morosini, professore Ordinario presso UCLA (USA), ha  insegnato presso l’Università L’Orientale di Napoli e Wake Forest University. Si occupa di “Umanesimo blu” come in Il mare salato. Il Mediterraneo di Dante, Petrarca e Boccaccio (Viella, 2020, finalista MARetica 2021) e nella sua prossima monografia Dante’s Blu Humanism. The Mediterranean-Archipelago. Rivers and Sea of Exile in the Commedia. Studia in chiave pan-Mediterranea i rapporti cristiani-musulmani (Dante, il Profeta e il Libro, L’Erma di Breschneider, 2018 e ora in inglese Dante, Moses and the Book of Islam, 2024), gli attraversamenti delle donne, e in generale la rappresentazione artistica del mare nel Trecento e negli Isolari del Rinascimento.  Tra le sue recenti pubblicazioni, Dante, Fra’ Macario e i calzari di Gesù-Francesco a Bosa. L’incontro dei tre vivi e dei tre morti (Mediando, 2021), Rotte di poesia e rotte di civiltà. Il Mediterraneo degli Dei nella «Genealogia» di Boccaccio e Piero di Cosimo (Castelvecchi, 2021), I cieli naviganti. Domenico Rea, Boccaccio e Napoli (Mediando, 2023).

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