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Giuseppe Panzeri, storico di comunità: alle origini del MEAB

Giuseppe Panzeri, a sinistra, discute di toponomastica con il linguista svizzero Ottavio Lurati (2006)

Giuseppe Panzeri, a sinistra, discute di toponomastica con il linguista svizzero Ottavio Lurati (2006)

CIP

di Massimo Pirovano 

Per comprendere il senso di questo scritto si potrebbe cominciare richiamando il titolo che abbiamo dato ad una sezione del sito del Museo Etnografico dell’Alta Brianza, che suona “Antenati e maestri” [1]. Il MEAB, infatti, esiste e vive grazie al contributo di idee, di lavoro, di passione, di risorse economiche che studiosi, amministratori, protagonisti delle culture indagate e documentate dal museo hanno messo a disposizione della collettività, come patrimonio duraturo. Qui si ricorda l’opera di molte persone, più o meno note, che hanno dato un contributo significativo alla vita e all’opera del museo; persone che potrebbero meritare – almeno idealmente – quel “culto degli antenati” che tutte le società umane praticano.

Così accanto ai profili e ai ricordi che riguardano, tra gli altri, Nuto Revelli, Roberto Leydi o Ugo Fabietti, compaiono quelli meno noti di testimoni, guide volontarie, protagonisti e collaboratori fondamentali delle iniziative del museo e della sua opera di restituzione alla cittadinanza del patrimonio culturale. Tra gli intellettuali, per varie ragioni vicini al MEAB, ma anche tra i protagonisti principali della vicenda del museo figura, in primo piano, Giuseppe Panzeri (1938-2010).

Chi non ha conosciuto le persone che nominerò in questa storia potrà pensare ad un elenco pedante di nomi (di cui, peraltro, in vari casi, si può trovare traccia nella rete). Ma non si deve dimenticare che le istituzioni sono vuote e non valgono nulla se non sono sostenute da uomini e da donne che, con la loro passione, la loro intelligenza e la loro intraprendenza, costruiscono relazioni proficue, lasciando un segno in altre vite, come ha saputo fare Giuseppe Panzeri.

Il MEAB è un piccolo museo aperto in Lombardia dal 2003, per volontà di questo amministratore illuminato che tutti a Galbiate definivano il “professore” per la sua professione di insegnante di liceo ma anche per le ricerche e le pubblicazioni che ha dedicato al territorio galbiatese, a cui si era dedicato dopo essere stato sindaco di Galbiate e consigliere provinciale a Como. Esponente del cattolicesimo popolare, attivo nella Democrazia Cristiana, il “prof” già nel 1969 aveva guidato il Comitato promotore per la salvaguardia del Monte Barro per tutelare dalle speculazioni edilizie e dall’attività estrattiva l’integrità di questo territorio alle porte della città di Lecco. Da questo comitato nel 1974 nacque il Consorzio per la salvaguardia del Monte Barro, costituito da rappresentanti dei comuni limitrofi di Galbiate, Lecco, Malgrate, Pescate, Valmadrera e della Comunità Montana del Lario Orientale. In un secondo tempo, il Consorzio si estese ai comuni di Garlate e Oggiono, nonché al Comprensorio Lecchese, precursore della Provincia di Lecco, nata nel 1992.

2.Giuseppe Panzeri, primo a destra, visita l’edificio del MEAB durante la ristrutturazione, con l’architetto Giulio Ponti al suo fianco, il comitato scientifico e gli studiosi collaboratori per l’allestimento (2001)

Giuseppe Panzeri, primo a destra, visita l’edificio del MEAB durante la ristrutturazione, con l’architetto Giulio Ponti al suo fianco, il comitato scientifico e gli studiosi collaboratori per l’allestimento (2001)

Dal 1974 al 2008 Panzeri ha presieduto l’istituzione del Parco Monte Barro, che soprattutto per le sue idee e le sue iniziative amministrative ha affiancato all’opera di tutela naturalistica una significativa e originale valorizzazione del patrimonio culturale del territorio, in particolare istituendo due musei come il Museo Archeologico del Barro e il Museo Etnografico dell’Alta Brianza: una rarità tra i parchi regionali di piccole dimensioni.

Nel primo caso la raccolta di reperti si deve ad una intuizione di Panzeri che, partendo da alcune attestazioni presenti in Plinio il Vecchio e in altre fonti medievali o rinascimentali, ipotizzava l’esistenza di una città o almeno di un insediamento umano sul monte Barro. Commissionata a metà degli anni ’80, una serie di scavi, coordinati da due archeologi autorevoli come Gian Pietro Brogiolo e Lanfredo Castelletti, rivelava effettivamente la presenza di testimonianze di età gota, prima sconosciute. Oggi, infatti, è possibile visitare il Parco Naturale Archeologico del Piani di Barra, con i resti degli edifici in muratura dell’epoca, che si articola in terrazze pianeggianti poste attorno ai 600 metri sul livello del mare, oltre alla raccolta museale che conserva i reperti più significativi venuti alla luce.

Le iniziative di Panzeri in ambito museale proseguirono tra gli anni ’80 e i primi anni ’90 partendo dal progetto di un “museo contadino” da collocare nel borgo rurale di Camporeso, una frazione di Galbiate. Come ha evidenziato Carlo Ginzburg, lo storico, che si trova a vivere dopo gli avvenimenti e i fenomeni che gli interessa conoscere, come il cacciatore primitivo o come il medico in cerca di sintomi, tenta di raccogliere indizi, tracce, documenti, in modo da potere interpretare quello che è accaduto prima e di trovarvi un senso per poi agire. Il cacciatore lo fa nei confronti della preda per catturarla, il medico nei confronti del suo paziente per guarirlo, lo storico o l’antropologo pensando al pubblico dei suoi lettori o dei suoi ascoltatori per convincerli della validità della sua ri-costruzione.

Per scrivere di Panzeri, credo di trovarmi in questa situazione, dal momento che ho cercato di raccogliere alcuni miei ricordi su chi ha guidato per tanti anni il Parco e di rileggere alcuni passi degli scritti che ci ha lasciato sul museo di Camporeso. La mia sarà quindi una interpretazione del rapporto tra il “prof” e il museo, inevitabilmente parziale come ogni prodotto umano, ma – ritengo – ben fondata su episodi e brani tratti dalle sue pagine. Devo dire di avere un grande debito di riconoscenza nei suoi confronti. Infatti mi ha aiutato a sviluppare i miei interessi di studio, costruendo un museo che è diventato un punto di riferimento per molte persone nel campo della ricerca etnografica e storico sociale.

Quando negli anni ’80 il presidente andava sviluppando l’idea di fare del Parco un luogo in cui si valorizzasse, accanto alle bellezze naturali e ai pregi di interesse naturalistico, anche la presenza umana che storicamente aveva segnato il territorio, stavo compiendo le mie prime prove di ricercatore e di studioso, con Angelo De Battista, Cristina Melazzi, Lele Piazza, incoraggiati da Roberto Leydi ad approfondire le indagini su vari aspetti della cultura popolare della Brianza e del Lago di Como. In quel periodo – grazie alla sensibilità di Aroldo Benini, direttore di “Archivi di Lecco” – avevo pubblicato alcuni scritti su questa rivista dedicati a vari temi, come il lavoro, la mentalità e le relazioni sociali in filanda, i canti e le narrazioni di tradizione orale, il teatro dei burattini, riti e feste in alcuni paesi, ma anche una prima riflessione problematica sui limiti e le prospettive della ricerca folklorica in Brianza e nel Lecchese.

Immagino che siano state queste letture ad indurre Panzeri a chiamarmi nel 1991, per avere un parere sulla sua intenzione di dare vita a un museo contadino, in vista del quale, a maggio di quello stesso anno, il Parco aveva acquistato dall’USSL di Lecco il Compendio ex Fatebenefratelli di Camporeso, con circa 800 metri mq. di spazio potenzialmente destinabile ad esposizione e 36.000 mq. di terreni agricoli circostanti.

Gli proposi di organizzare un convegno di fondazione che ebbe luogo al piano terra di Villa Ronchetti, allora sede degli uffici del Parco, il 21 e il 22 settembre – con cui fare il punto sulle ricerche già realizzate in alcuni campi, su altre indagini da condurre, ma anche in cui discutere di problemi teorici e metodologici che una istituzione come quella che si voleva fare nascere, con ambizioni scientifiche, non poteva e non voleva ignorare. Panzeri fu d’accordo su questa impostazione che ci permetteva di riunire ricercatori locali e studiosi più esperti come Italo Sordi e Glauco Sanga.

3.Panzeri tra i relatori del convegno alla vigilia dell’inaugurazione (2003)

Panzeri tra i relatori del convegno alla vigilia dell’inaugurazione (2003)

Nel 1993 uscirono gli atti di quel simposio, dal titolo Cultura popolare in Brianza. Studi per un museo etnografico [2], in una veste grafica che Panzeri aveva voluto di notevole raffinatezza e pregio. Si cominciava a parlare di un “museo etnografico” anche fuori del Parco e nella presentazione del volume Giuseppe scriveva: «Si tratta di un progetto ambizioso perché vuole colmare una lacuna per tutta l’alta Brianza, sprovvista di una istituzione culturale che conservi la memoria delle radici contadine di una gente e di un territorio, aspro e incantevole, ancora segnato dalle tracce del lavoro umano».

Come si può notare, non si trattava solo di collezionare oggetti ma di fare una “istituzione culturale”; dal museo di Galbiate e per Galbiate si passava al museo della Brianza collinare; dal museo contadino si passava al museo etnografico, sottolineando la centralità del metodo più che dei contenuti limitati all’ambiente rurale. Panzeri accolse la proposta di lavorare ad un’indagine, ampia e teoricamente senza fine, sull’insieme della vita sociale, degli usi e dei costumi di chi era vissuto e di chi viveva nella zona, con un’attenzione a differenti gruppi sociali e a diversi fenomeni collettivi significativi.

Vale la pena di chiarire che il museo etnografico, pur considerando necessariamente la storia del territorio e dei suoi abitanti come essenziale per comprenderne le abitudini recenti, non è un museo storico. Esso lavora con i vivi e si interessa alla loro vita, pur nella consapevolezza che essi sono anche il tramite per sapere dei morti e delle loro vite.

A proposito dell’idea originaria di Panzeri per questo museo, accenno ad un tema su cui hanno cominciato ad indagare due giovani studiosi, Stefano Brambilla e Davide Colombini, incaricati qualche anno fa dal MEAB di ricostruire la personalità, l’opera politica, culturale e scientifica di Giuseppe, testimoniata da vari volumi tutti editi da stampatori o istituzioni locali. Quella della sua infanzia e della sua giovinezza in famiglia, con i legami emotivi e culturali che questo periodo di formazione ha comportato nei confronti della cosiddetta ‘civiltà contadina’. Infatti è nel senso di riconoscenza, espressa in vari scritti, nei confronti dei suoi antenati e di tutti i brianzoli che nei secoli hanno costruito questo paesaggio speciale con enormi fatiche e sacrifici, va individuata una delle prime motivazioni di Panzeri a progettare un “museo contadino”, e comunque un museo della ‘gente comune’.

4.Panzeri, nel giorno di inaugurazione del museo, mostra alle autorità lo spazio dedicato dal MEAB al flauto di Pan (2003)

Panzeri, nel giorno di inaugurazione del museo, mostra alle autorità lo spazio dedicato dal MEAB al flauto di Pan (2003)

Nel 1997 Panzeri mi chiamò di nuovo per dire che era venuto il momento di istituire il museo con le sue raccolte e con i suoi documenti statutari, dato che da qualche anno i tecnici erano al lavoro sul progetto di recupero del fabbricato, affidato all’architetto Giulio Ponti di Milano. Il presidente aveva scelto un professionista noto, competente ma anche legato al nostro territorio e alla sua tutela, con una storia personale significativa essendo sfollato da Milano in Brianza, durante la guerra.  Un discorso analogo può essere fatto per l’incarico relativo alla scelta del logo e alla linea grafica del MEAB, per cui ci si rivolse a Mauro Panzeri (omonimo ma non parente), che avevo segnalato al presidente come grafico con alle spalle esperienze importanti e prestigiosi riconoscimenti. Mai, per questo presidente, si parlava di incarichi motivati dalla necessità di risparmiare; piuttosto per Panzeri si trattava di scegliere professionisti capaci di progetti ambiziosi e di qualità.

Fu così formalizzato il mio primo incarico come conservatore, che prese avvio da uno stage informale concordato dal sottoscritto con il direttore del Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, dove rimasi per qualche giorno a tentare di ‘rubare il mestiere’ ottenendo documenti e informazioni preziosissime da Giovanni Kezich e dalle sue collaboratrici Carla Gentili e Antonella Mott, ma anche dal personale amministrativo e da altri dipendenti. Fu in quei giorni che conobbi personalmente il fondatore del museo di San Michele all’Adige, Giuseppe Šebesta, nella sua casa di Trento, dove si era ritirato in pensione.

Anche in questo frangente, Panzeri aveva condiviso con me l’idea di ‘mirare in alto’ andando ad imparare, con grande umiltà e un po’ di ambizione, da un’esperienza che, per molti versi, era considerata la più importante nel campo della museografia etnografica italiana.

Dal 1998 al 2003, anno in cui riuscimmo ad inaugurare il museo a Camporeso l’attività divenne febbrile: raccogliere oggetti grazie ai contatti personali che il presidente e io avevamo, condurre ricerche che si concretizzavano anche in filmati e in pubblicazioni, tessere rapporti con le persone che via via si avvicinavano e si appassionavano all’idea del museo, come donatori, come informatori, come studiosi, come potenziali future guide del MEAB, ma anche in quanto amministratori e funzionari pubblici interessati a sostenere la nostra attività di ricerca e di divulgazione (devo citare, in particolare, Francesco Mazzeo e Graziano Morganti per la Provincia di Lecco).

Si creò un clima di fiducia e di entusiasmo che contagiò anche persone che non erano galbiatesi, ma che vedevano nell’impresa culturale che stavamo costruendo qualcosa di interessante per tutta la zona: tra costoro le prime guide volontarie del museo, che negli anni, a partire dal 2002, hanno avuto tante occasioni per confrontarsi con esperienze ben riuscite di musei etnografici analoghe ma differenti dalle nostre, attraverso la gita annuale offerta loro dal Parco e dal MEAB in varie località della Lombardia, dell’Italia settentrionale e della Svizzera italiana. Panzeri era sempre presente a queste gite culturali che favorivano (e ancora favoriscono) la conoscenza reciproca tra i protagonisti della vita del museo. Il presidente, con la sua curiosità intellettuale e la sua affabilità, testimoniate anche dal suo ruolo di primo presidente del gemellaggio tra Galbiate e la cittadina francese di La Londe Les Maures, sapeva apprezzare i confronti che di anno in anno con i volontari del MEAB abbiamo avuto con i colleghi che ci accoglievano nei loro musei etnografici e nei piacevoli momenti conviviali organizzati nel corso della giornata.

5.Panzeri introduce una conferenza di Italo Sordi con Massimo Pirovano, nella sala del museo dedicata a Roberto Leydi (2006

Panzeri introduce una conferenza di Italo Sordi con Massimo Pirovano, nella sala del museo dedicata a Roberto Leydi (2006)

È di questo periodo anche la produzione da parte del museo – sostenuto economicamente dal Parco e in molti casi anche dalla Provincia di Lecco – dei documentari della serie Etnovideo, realizzati con l’operatore Giosuè Bolis, e di un cd audio dedicato al canto di tradizione orale. Panzeri aveva condiviso con noi la soddisfazione di due importanti riconoscimenti ottenuti con il Premio Internazionale Pitrè per il film sui pescatori (1998) e con il Premio Nigra (2002) per il cd dedicato al repertorio delle sorelle Panzeri, con presentazione di Roberto Leydi. Negli anni successivi seguì la realizzazione da parte del MEAB di molti altri documentari etnografici su tematiche specifiche, con il necessario sostegno economico del Parco Monte Barro, spesso progettati per integrare le esposizioni di oggetti e documenti delle mostre temporanee che si susseguivano al museo: sulla pesca professionale, sull’artigianato contadino, sulla pastorizia, sulla viticoltura, sull’olivicoltura, sul mestiere del burattinaio, su quello del boscaiolo, sul flauto di Pan e sull’attività del roccolatore.

Che un museo piccolo come il nostro investisse in questo tipo di documentazione e di divulgazione non era affatto comune. Tanto più se i temi che il MEAB andava ad indagare con un suo progetto sconfinavano dal territorio dell’istituzione Parco. Voglio dire che altri amministratori si sarebbero forse opposti alla produzione di un documentario sulla pesca di mestiere nel lago di Como. Panzeri comprese immediatamente che – in quel momento – solo il MEAB avrebbe fatto un lavoro di etnografia d’urgenza su una attività storicamente e socialmente tanto importante quanto poco nota ai più, nei laghi della Brianza ma soprattutto sul Lario.

Giuseppe condivise anche la proposta di Roberto Leydi di pubblicare il cd dedicato alle sorelle Panzeri con un editore specializzato nazionale come Nota di Udine, perché sapeva che in questo modo il lavoro del museo e del Parco avrebbero avuto un pubblico più largo.

Anche il fatto di consolidare l’opera del museo e il significato della sua presenza nel territorio attraverso contatti  e scambi – anche frequenti momenti di ospitalità – con i settori più vivaci e impegnati del mondo accademico nei campi della ricerca umanistica, trovava il nostro presidente sempre disponibile: dal momento in cui proposi che nello statuto del MEAB fosse previsto un comitato scientifico di garanzia della serietà del nostro lavoro, a quando furono promossi i convegni e le conferenze – che ancora continuano al MEAB – con docenti di storia, antropologia, linguistica, dialettologia, museologia, agronomia, a cui Panzeri era sempre presente e con cui amava confrontarsi, talvolta anche sul piano della ricerca. È il caso dello storico Franco Della Peruta, che è stato a lungo nel Comitato Scientifico del MEAB, o di Ottavio Lurati, linguista ticinese che aveva proposto a Panzeri di lavorare con lui sulla toponomastica e sui cognomi della nostra zona. Ma devo ricordare anche altri studiosi di rilievo come collaboratori del MEAB: Italo Sordi, Angelo Bendotti, Fabrizio Caltagirone, Ugo Fabietti, Gaetano Forni, Elisabetta Silvestrini, Daniela Perco, Jean Claude Duclos, Giorgio Foti, Angelo De Battista, Natale Perego, Rosalba Negri, Roberto Valota, Francesco Motta, Angelo Sirico, Fabrizio Merisi, Giancorrado Barozzi. A questi studiosi si sono aggiunti negli anni moltissimi ospiti e relatori prestigiosi del museo come Marc Augé, Pietro Clemente o Francesco Remotti. Della loro partecipazione alla rassegna Voci, gesti, culture, che viene proposta dal 2004 nella sala del MEAB dedicata a Roberto Leydi, rimane traccia nel sito del museo con numerosi contributi di studio raccolti nella sezione “Temi in discussione”.

L’intelligenza e la larghezza di vedute di Giuseppe erano quindi sempre accompagnate da un concreto riconoscimento del valore della ricerca, che poteva venire solo da chi era stato e continuava ad essere uno studioso che conosce, per esperienza personale manifestata in tante pubblicazioni, quanta preparazione, quanta perizia e quanto tempo servano per arrivare a produrre un saggio, un libro, un film, una mostra.

6.Panzeri con Romeo Riva, testimone della tradizione, durante l’allestimento della mostra “Saperi femminili” (2009)

 Panzeri con Romeo Riva, testimone della tradizione, durante l’allestimento della mostra “Saperi femminili” (2009)

Circa la perizia amministrativa, mi pare di poter dire che Panzeri sapeva distinguere i professionisti migliori: lo ricordo per le discussioni e in qualche caso le polemiche che si aprivano al Parco quando si trattava di rapportarsi con una competenza nuova – si trattasse di architetti, di grafici, di informatici, di videoperatori, di stampatori e così via. Molte volte una spesa che qualche collega riteneva eccessiva fu affrontata nel nome della qualità del risultato, e spesso con Panzeri abbiamo avuto ragione. Al punto che poi altri incarichi venivano affidati dal Parco allo stesso professionista, sulla base dei consensi ottenuti.

Dicevo prima di Duclos, direttore del Musée Dauphinois di Grenoble. In vista della progettazione dell’allestimento del museo si trattava di fare tesoro di alcune esperienze tra le più avanzate in Italia e in Europa. Negli anni ‘90, anche approfittando delle vacanze estive, avevo visitato molti musei etnoantropologici mettendo a fuoco quelle caratteristiche e quelle soluzioni che avrei voluto riproporre al MEAB. Ne parlavo con Panzeri e convenimmo di affidare a Giulio Ponti il sopralluogo mirato ad alcuni di quei musei per tenere conto delle soluzioni tecniche che avremmo potuto permetterci e che ci convincevano. In uno di questi musei però andammo insieme con Ponti, su consiglio di Daniela Perco e di Giovanni Kezich: quello di Grenoble, dove in realtà visitammo diversi musei diretti da Duclos, tutti di grande interesse. Il progetto che Ponti e l’architetto Giulia De Pero misero a punto tenne conto di queste esperienze, che discutemmo con Panzeri.

Nel museo degli oggetti, volevamo inserire le voci e le immagini in movimento che trattenessero un po’ della vita delle persone di cui volevamo parlare. Anche qui l’adesione di Giuseppe fu convinta, credo a partire dalla sua ammirazione per il lavoro dei suoi familiari più anziani oltre che dalla sua grande passione di pianista e organista per la musica e il canto, in questo caso popolare, cui lui stesso aveva dedicato delle pagine nel libro Musica a Galbiate  [3].

Non va dimenticato che il ricercatore Panzeri, all’interno del gruppo degli “Amici di Galbiate” aveva prodotto soprattutto negli anni ’80 alcuni volumi sulla storia sociale e sulle usanze galbiatesi, come Echi di un mondo che fu [4], a conferma di un solido interesse per i temi dell’etnografia. Interesse che ha preso più tardi forma di uno studio documentatissimo di storia agraria e di storia sociale come quello condotto su Camporeso e cascine circostanti [5].

7.Panzeri in una foto di gruppo con gli Amici del MEAB durante la gita al Stabio, nel Canton Ticino (2007)

Panzeri in una foto di gruppo con gli Amici del MEAB durante la gita al Stabio, nel Canton Ticino (2007)

Rileggendo gli scritti di Panzeri sul museo e quelli che aprivano le nostre pubblicazioni, ho trovato spesso delle citazioni. A Giuseppe piacevano molto. Se da un lato il loro uso testimonia una vastità di conoscenze ed una capacità di ricerca rare, in un’epoca ancora priva delle scorciatoie della rete, dall’altro ci dicono della sua consapevolezza di essersi trovato a vivere sulle spalle dei giganti. La sua preparazione umanistica in molti casi gli suggeriva che gli antichi o comunque gli autori classici avevano già detto quasi tutto nella maniera più efficace, e pertanto era più opportuno affidare un pensiero alle loro parole.

Panzeri aveva anche una propensione per il dialogo con tutti, che lo portava ad apprezzare il lavoro delle guide volontarie del nostro museo. Quando la sede degli uffici del Parco, dove lui lavorava quotidianamente specie dopo la pensione, si era trasferita da Villa Ronchetti all’ultimo piano dell’edificio di Camporeso, spesso scendeva nei locali del museo a scambiare qualche chiacchiera con le guide volontarie di turno, in attesa o in compagnia dei visitatori.  Aveva così conosciuto meglio certe figure essenziali per la vita del MEAB come Romeo Riva, a cui ha voluto dedicare una pagina della sua Storia del Parco Monte Barro [6], uscito postumo. Nello stesso volume aveva ricordato i riconoscimenti che il museo aveva avuto a livello regionale, in virtù della sua intensa opera di ricerca. Credo inoltre che gli facesse piacere che un museo del Parco avesse promosso la Rete dei beni e dei musei etnografici lombardi (REBEL) e ne fosse capofila, anche se questo voleva dire l’ennesimo sovraccarico di lavoro per un personale da sempre sottodimensionato rispetto alla mole di iniziative che il Parco – e in parte anche il MEAB – promuove e organizza.

Parlando con un collega qualche anno fa e ripensando alla vicenda del museo di Camporeso si è ipotizzato anche che Panzeri avesse visto il “suo” museo diventare il “mio” museo. Devo dire di non avere mai colto nessun segno di ‘gelosia’ o addirittura di ‘invidia’ da parte del presidente nei confronti del sottoscritto. Anzi sappiamo per certo che, nei fatti, ha sempre sostenuto, con il massimo dell’impegno, un’attività che si è espressa in molti modi e che oggi è riconosciuta a livello nazionale per il suo valore culturale. Mi sembra di poter dire che siamo sempre stati d’accordo sulle iniziative del MEAB, ad eccezione che per il titolo della prima mostra temporanea, nata dalla ricerca di Natale Perego, dedicata alla devozione per la Madonna del Latte. In quel caso Giuseppe trovò irriverente il titolo che avevo pensato in maniera un po’ provocatoria, a partire dalla vicenda storica del culto e delle censure iconografiche sul ritratto di Maria: Una Madonna da nascondere, infatti, fu il titolo scelto per il libro ma non per quello della mostra. Mi rimane il dubbio su cosa avrebbe detto il prof. a proposito di una esposizione del 2012, che era stata presentata prima nei Sassi di Matera e poi al MEAB – intitolata Oggi sposi, dedicata ai riti profani contemporanei del matrimonio in Brianza. La mostra era stata congelata per un anno, e poi sbloccata dal comitato scientifico, in quanto aveva suscitato una certa inquietudine tra alcuni amministratori successori di Panzeri, dal momento che i teli stradali con scritte e disegni indirizzati alla coppia evidenziavano spesso scritte allusive alla sessualità, riaffermando il ruolo propiziatorio dei riti matrimoniali. Si era posto, per chi finanziava il progetto del MEAB, il problema del ruolo sociale e culturale del museo: a fronte del compito scientifico di una istituzione votata alla ricerca si temeva un ruolo ‘pedagogico’ improprio visto da una prospettiva morale (o moralistica).

8.Panzeri segue le spiegazioni di Daniela Perco, direttrice del Museo Etnografico della provinciale di Belluno (2007)

Panzeri segue le spiegazioni di Daniela Perco, direttrice del Museo Etnografico della provinciale di Belluno (2007)

Certo alcune delle idee di Panzeri sul museo sono rimaste sulla carta, come quella importantissima di far sì che il museo diventi da luogo del sapere anche luogo del fare, che coinvolga “le popolazioni della Brianza” nella conservazione dei saperi pratici, o almeno coloro che sono più vicini (fisicamente e emotivamente) al museo, nel valorizzare il territorio circostante l’edificio. Il problema è che – come scriveva Giuseppe stesso – servono anche motivazioni economiche e (aggiungerei) passione ed energie fisiche che solo i più giovani possono mettere a disposizione per imparare dai vecchi. Negli ultimi anni qualche segnale incoraggiante si sta vedendo, in particolare nel campo dell’agricoltura sociale e della viticoltura di qualità, ma Panzeri che nel 2008 aveva deciso di lasciare la presidenza e che nel 2010 è mancato, non ha potuto assistere a queste novità. Aveva invece sostenuto due progetti importanti per il MEAB: l’inaugurazione nel 2008 di una sezione staccata del museo presso il roccolo di Costa Perla, un impianto originariamente destinato alla cattura con reti degli uccelli, dove ricerca ornitologica e conoscenza delle pratiche tradizionali di caccia si integrassero, e le ricerche durate due anni che hanno portato all’apertura nel 2011, dentro il museo, della sezione dedicata  all’alimentazione, ieri e oggi, con un allestimento interattivo e multimediale.

Il ruolo decisivo di Panzeri emerge quindi con la sua capacità  a confrontarsi con progetti ambiziosi trovando le risorse economiche per valorizzare le culture del territorio anche attraverso i protagonisti della vita del MEAB, gratificati dalla sua familiarità e dall’interessamento per la loro disponibilità: che si trattasse di testimoni come Romeo Riva, Angelo Sirico o le sorelle Panzeri (di nuovo, omonime, ma non parenti), insigniti, con soddisfazione del presidente, del premio Nigra in tre diverse edizioni, o che fossero i volontari, presenza fondamentale per aprire il museo e accoglierne visitatori e ospiti con generosità.

Possiamo dunque dire che il presidente Panzeri, da fondatore e animatore, ha incarnato una caratteristica fondamentale per un museo etnografico: quella di essere un “museo sensibile”, come ha scritto Jean Claude Duclos sulla prima pagina del registro dei visitatori, alla vigilia dell’inaugurazione del MEAB, in occasione del convegno Oggetti, segni, contesti. Ricerche e prospettive di un museo etnografico.

Fino al 2008 il museo di Camporeso ha goduto delle idee, dell’impegno civile e politico del professore capace di trovare risorse per una giovane istituzione e per i progetti che il MEAB andava elaborando, diventando riferimento di donatori, testimoni ma anche di amministratori via via coinvolti nell’attività di un museo che Panzeri sentiva come suo. 

9.Panzeri dirige un piccolo coro di amici galbiatesi durante l’inaugurazione del MEAB (2003)

Panzeri dirige un piccolo coro di amici galbiatesi durante l’inaugurazione del MEAB (2003)

Dopo di allora, progressivamente, il museo ha subìto gli effetti di varie difficoltà: una crisi finanziaria generale, le preoccupazioni economiche degli amministratori del Parco Monte Barro e le priorità date ad altri interventi culturali, i limiti della politica nazionale che ha sminuito il ruolo e le possibilità di intervento delle Province, una politica regionale che ha favorito le grandi istituzioni in campo culturale privilegiando il sostegno – ad esempio attraverso i sistemi museali – a favore della comunicazione nei musei, cronicamente privi di risorse per il personale stabile e qualificato, oltre che per garantire servizi fondamentali a monte della divulgazione.

Un po’ a tutti i livelli, si sente la mancanza di Panzeri: nell’azione amministrativa e politica, andrebbero recuperate le idee dei fondatori del museo come parte di una storia che non riguarda solo le discipline demoetnoantropologiche ma le persone che entrano in contatto con il MEAB, il territorio e i suoi attori sociali, il senso di appartenenza attuale e futuro di chi ci vive. Un personaggio rispettato come questo intellettuale venuto da una famiglia contadina, nelle sue opere e nei suoi scritti, dovrebbe essere considerato come uno spirito protettore del museo, capace di ribadire il valore di esperienze che vanno conosciute adeguatamente, comprese e proseguite con responsabilità.

In uno scritto intitolato “Saluto del Presidente” [7], scritto per i presenti al convegno inaugurale del MEAB, nell’aprile 2003, Panzeri aveva voluto evidenziare graficamente alcune espressioni che riportiamo: ricerca etnografica, viaggio nella memoria, museo vivo, ossatura umana, memoria. L’autore si riferiva  ad un autentico ecomuseo auspicato, fatto da una comunità radicata e partecipe rispetto alle «versioni molto più edulcorate che vengono contrabbandate per ecomuseo», ma aggiungeva queste riflessioni: «Volgendo il pensiero all’innumerevole schiera di uomini e di donne segnate dalla fatica e dal lavoro e che stanno dietro ai documenti, ai suoni, agli oggetti, alle immagini fotografiche ecc. che animeranno le varie sale del Museo, non posso sottrarmi a un certo coinvolgimento emotivo (…) Questo aspetto emotivo a mio avviso non dovrebbe mai mancare nell’approccio a un museo etnografico, poiché come osservava il filosofo G. B. Vico, gli uomini prima sentono  senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura (Degnità LIII) nel senso  che v’è un momento conoscitivo che appartiene alla sfera del sentimento, avente anch’esso dignità di certezza, non meno importante di quello della razionalità». 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] Cfr. il sito http://meab.parcobarro.it.
[2] Pirovano M. (a cura di), Cultura popolare in Brianza. Studi per un museo etnografico. Atti del 1^ convegno di studi sulla cultura popolare in Brianza. Galbiate 21 e 22 settembre 1991, Consorzio Parco Monte Barro, Galbiate 1993.
[3] Panzeri G. (a cura di), Musica a Galbiate. Rassegna dell’attività musicale nel territorio galbiatese, Neo Stampa, Galbiate 1990.
[4] “Amici di Galbiate” (a cura di), Echi di un tempo che fu, Cattaneo, Oggiono-Lecco 1985. Dello stesso anno è il volume curato dagli stessi “Amici di Galbiate”, Galbiate ’84. Guida alla conoscenza della realtà galbiatese, Bierre, Missaglia 1984.
[5] Panzeri G., Camporeso e cascine circostanti. Una microstoria agraria e sociale, Consorzio Parco Monte Barro, Galbiate 2000.
[6] Panzeri G., Storia del Parco del Monte Barro (dall’autunno 1969 a maggio 2008), Consorzio Parco Monte Barro, Galbiate 2011.
[7] Cfr. Pirovano M. (a cura di), Oggetti, segni, contesti. Ricerche e prospettive di un museo etnografico, Museo Etnografico dell’Alta Brianza, Galbiate 2004. 

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Massimo Pirovano, ha insegnato discipline umanistiche nella scuola media, negli istituti secondari e nei licei. Dottore di ricerca in Antropologia della contemporaneità, si interessa di lavoro e ritualità presso le classi popolari, del canto e della narrativa di tradizione orale, di alimentazione, di gioco e sport, di musei etnografici, temi a cui ha dedicato saggi, documentari, cd musicali e mostre. Dirige il Museo Etnografico dell’Alta Brianza (Galbiate) dalla sua fondazione e coordina la Rete dei Musei e dei Beni Etnografici Lombardi (REBEL). Tra le sue pubblicazioni la cura del volume Le culture popolari nella Storia della Brianza (Cattaneo 2010) e dell’ipertesto Dalla fame all’abbondanza (MEAB – Parco Monte Barro 2014), oltre al saggio Un antropologo in bicicletta. Etnografia di una società ciclistica giovanile (Mimesis 2016).

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