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Gli occhi “due bottoni grossi di vetro”. Una memoria per Lucio

le-ore-salvate-copertinadi Aldo Gerbino 

Non l’arrivo conta / né la solidità o fluidezza / del punto verso cui ti muovi. / Conta quel che ti attende / se qualcuno ti attende / che cosa ti attendi / il cuore che vi conduci / se sono nuove le tue pupille.

[Lucio Zinna (1938-2024), da “Partenze e Arrivi”, in Le ore salvate, 2016] 

Ho nitida memoria, du moins je l’espère, di tempi e luoghi in cui ho conosciuto Lucio Zinna [1]. Il tempo: la fine degli anni Sessanta; il luogo: una piccola quanto laboriosa galleria d’arte, “Il Vertice”, che spesso si dimentica di riportare, la quale altresì ispirò la presenza d’edizioni di nicchia, a volte una sorta di volantinaggio poetico alimentato dall’ingegno sensibile dello scrittore Carmelo Pirrera con il quale sovente mi incontravo condividendo anche la effervescente compagnia del poeta bagherese Ignazio Buttitta.

In questa galleria, posta in via Agrigento, era stata allestita, qualche anno più avanti dall’attiva e comunicativa Velia, una mostra personale d’un artista siciliano di valore (classe 1915) operoso a Roma: Enzo Assenza. Uno scultore, un ceramista e pittore sostenuto dall’abilità e dalla precisione non retorica del disegno; egli, nativo di Pozzallo, iscritto ai corsi dell’Accademia di Belle Arti di Roma, aveva al suo attivo presenze alle Biennali di Venezia, alle Quadriennali romane, all’Accademia dei Lincei, avendo esordito, da giovanissimo, con una personale a Palazzo Torlonia a cui, di lì a poco, fu raggiunto da un invito, mentre stava forando la soglia dei vent’anni, a mettere in mostra l’opera La signorina Marta negli spazi dedicati alla scultura dalla Biennale veneziana del 1935. E, caso volle che, proprio Assenza, in quel tardo pomeriggio palermitano, si trovasse in Galleria. Accolsi, con vago timore, l’invito alla conoscenza e, naturaliter, parlammo d’arte; così scoprii che egli aveva realizzato nel 1970, un altorilievo bronzeo per la facciata del palermitano palazzo della Previdenza Sociale di via Maggiore Toselli (costruzione non certo ricca d’impronte d’arte al pari dell’omologo piacentiniano Istituto milanese).

Al contrario d’uno schivo maestro della qualità del bergamasco Giacomo Manzù, ‒ il quale dichiarava l’acquisita sua alta artigianalità da intagliatore forgiata nella bottega Dossena (un elogio del lavoro manuale) ‒ Assenza mostrava un volto gentile, quieto, plasmato da un’amabilità decisa e discreta. Una caratteristica attrezzatura mimica di chi, come in questo caso, è avvezzo a mitigare la durezza dei materiali con l’apprendistato nella bottega del padre, un decoratore di chiese in quel magnifico alveo barocco del Val di Noto, e tutto ciò con la grazia della propria intelligenza creativa.

fig-1-presenza-sud-1968In tale colloquio accompagnato dalla fruizione dei disegni e piccole sculture in mostra si aggregò Lucio Zinna con il quale ci eravamo già incontrati nella sede di un novello polo di aggregazione letteraria ricordato dal “Il Memoriale del Centro Cultura Pitré. 1970-1999”, firmato nel 2010 da Elio Giunta. In tale pagina storica avvertivo come fosse giunto il momento di tirar le somme su quanto era stato prodotto sul terreno delle arti figurative e della poesia, e ciò senza nessun intento iconoclastico, com’era frequente in quel torno d’anni, piuttosto come pedana di lancio d’una inevitabile e fisiologica metamorfosi ricordando ugualmente che l’esito di ogni mutamento conserva in sé il molto di quanto ci ha preceduto. E qui, nella Palermo di quel periodo pigro e feroce, il refolo innovativo giungeva dalla curiosità vivace, indagatrice e critica di Francesco Carbone. Due pubblicazioni (due numeri unici) mi avvertirono con i loro suggerimenti di nomi e temi che bisognava andare oltre, annusare il quanto delle nuove fragranze ci raggiungevano dal mondo della scienza, dell’antropologia, della psicologia, della musica, della neurobiologia, dell’architettura.

Nella prima pubblicazione, «’67 cultura e attualità» curata da Carmelo Pirrera, son proposti scritti, recensioni di Rosario Assunto, estetologo di vaglia, Vincenzo Consolo, Gioacchino Lanza Tomasi e le poesie di Stefano Vilardo, il sodale di Sciascia, autore di Tutti dicono Germania Germania con cui ho condiviso una quarantennale amicizia, di Alfonso Zaccaria e di Antonino Cremona. Nella seconda, «Presenza Sud», che irrompe nell’ottobre del 1968, è palmare l’idea di sviluppare un periodico di cultura contemporanea edito dal Centro di Ricerche Estetiche “Nuova presenza” con la direzione di Francesco Carbone.

Le firme e le forme d’impostazione grafica (del lettering, l’uso del bold) volute da Francesco appaiono subito indicative dell’accennata evoluzione; dopo la lucida premessa di Carbone, “presenza sud e l’orinale di Don Fabrizio”, i testi consegnati portano le firme di Apollonio, Argan e Belloli, di Beringhelli, Bonito Oliva e Calvesi, di Dorfles e Fagiolo dell’Arco, di Celant e Davico Bonino, e ancora: da Menna a Cane a Testa a Zinna. Si spazia già dall’happening alla semiologia, dalla poesia concreta alla poesia visiva alla musica programmata e concreta, alla Musurgia universalis di Athanasius Kircher.

Possono bastare alcune parole di Argan a chiarirci l’atmosfera in cui Lucio ed io si respirava: «ritengo dunque, si afferma, che la corrente di pensiero che si presenta più dotata di possibilità di sviluppo sia quella più preparata a superare l’antinomia fittizia delle “due culture” e a promuovere l’evoluzione “scientifica” della cultura umanistica». Si discuteva anche sulla necessità, espressa con chiarezza da Fagiolo dell’Arco, di aprire l’arte alle nuove frontiere dell’immagine.

Lucio, generazionalmente un decennio avanti al mio, avvertiva, con maggiore energia, in che modo sul versante della parola affiorasse consistente la necessità di un’oculata sperimentazione, di un rivolgimento, e, nello stesso tempo, eravamo consapevoli di restituire quelle braci formative che consentivano di non spezzare il fil rouge del discorso poetico nel fluire del tempo. Ed ecco che tra i versi in prosa di “Antimonium 14” egli gioca ironicamente e amaramente utilizzando spezzature aritmetiche, fonosimbolismi, lacerti concreti, in cui il problema della comunicazione a due sembra, in relazione alla tecnica, accrescersi, deformarsi allo scorrere della logica fin sulla soglia del desiderio di annullamento, allo scopo di costringere all’emersione le nascoste materie di verità, di sentimenti alla ricerca d’un chiaro, necessario “primo punto fermo”.

sicilian_antigruppoChe la sperimentazione lo affascinasse è dimostrato dalla cifra di partecipazione a diverse esperienze espressive ed editoriali: dal “Gruppo Beta” (1964) alla rivista PTR ai “Quaderni del Cormorano” diretti dal poeta prematuramente scomparso Angelo Fazzino. Nel “Gruppo Beta”, oltre a Zinna, si affacciano diversificati autori tutti, pur timorosi, alla ricerca di nuove dimensioni dell’umano, con lo sguardo centrato sì al progresso, alla crescita della tecnica, però sensibili alle discrasie provocate da uno sviluppo ipertrofico, capace di derive mistiche; una preoccupazione per altro denunciata dallo stesso Argan nelle sue allarmate parole: «Iddio ne scampi, al ciclo della spiritualità tecnologica». Ed ancora le caute attenzioni di Lucio verso l’esperienza dell’Antigruppo (generatosi in opposizione al “Gruppo 63”), guidato dalle vibranti esaltazioni emotive di Nat Scammacca, poeta siculo-americano navigatore nelle acque libertarie della “Beat Generation”.

Con Lucio stabilii presto una sintonia in particolare sulla sostanza del ‘fare’ poetico, sul valore etico della poesia, evitando le ancora imperanti retoriche, che leggevamo sul nostro tappeto contemporaneo, affiorate dalle superficialità e dagli abbandoni in facili isterismi solipsistici propri di molta poesia a noi coeva. Per altro Lucio, soggetto fragile in quanto ipersensibile sul piano della sua pregressa storia familiare, trova un possibile equilibrio proprio nella propria famiglia da cui trae linfa per la sua poetica pur nell’erosione di un vissuto apertamente divaricato tra le rammemorazioni con la sua Mazara del Vallo, città in cui era nato nel 1938, e Palermo in cui s’era immerso con scrupolo costante pure nello svolgimento della funzione di Direttore Didattico. Poi, le amicizie spesso vissute con difficoltà, mantenendo sempre fermo l’obiettivo della scrittura, della necessità che la vita della poesia entri nella biologia della quotidiana esistenza.

Ripensando ai nostri molti incontri, la rugginosa malinconia di Lucio era sempre alla ricerca di un travaso possibile tra il passato e il suo presente: il senso classico del dire poetico si scontrava felicemente, ma non senza dolore, a chiarificazione del presente. Nel 1977, accarezzando una vecchia idea, fondo e dirigo il periodico “Sintesi” durato fino al 1983, arricchito da supplementi quadrimestrali presenti sino al 1986 con il titolo “L’Achenio” in cui sono apparsi scritti ‒ (una voce troviamo nella “Enciclopedia della Sicilia” per Franco Maria Ricci) ‒ di Michele Pantaleone, Giorgio Trentin, il critico d’arte Marcello Venturoli, il poeta Giovanni Occhipinti e interviste a Lawrence Ferlinghetti e contribuiti di storia della scienza. In questa esperienza, Lucio mi è stato accanto col suo scrupolo e il suo impegno di redattore, e d’altronde, i contributi sono stati accrescenti: dalle interviste a Maria Luisa Spaziani e Silvio Ramat a Gian Alvise Salomon agli inediti di Jannis Ritsos e Giacomo Giardina, inoltre presenze come Paolo Alatri, il critico Giorgio Segato, Henri Gobard, Vito Riviello, Salvatore Orilia, il critico letterario Giuseppe Miligi, lo scrittore Massimo Grillandi, il poeta Ugo Fasolo.

fig-2-lucio-zinna-la-percellana-piu-fine-sciascia-2002Lucio mi parlava spesso, e con molto anticipo, della sua poesia; il suo far poesia era un processo avviato da un ossessivo processo mentale d’incubazione: il materiale creativo si andava assottigliando nel tempo partendo da una struttura magmatica originaria affinché poi, con il parlarne, veniva ad essere ridimensionata nella sua forma più prossima e in uno stato maggiormente differenziato. Sono incline a credere che tale lavorìo in Lucio fosse un percorso non privo d’impegnativi input psicologici, a volte di non facile approccio, e che non avessero a che fare con valenze estetiche, piuttosto era visibile un tenace legame col proprio sentimento di base e la necessità di rendere tangibili quei valori intimi resi, ove possibile per il poeta, in valori quanto più prossimi alla verità delle sue esperienze.

Ciò, ricordo, è stato oggetto della mia presentazione, insieme a Silvio Ramat nel 1994, per la consegna della ‘Targa della cultura’ nella “Giornata internazionale del Premio Mondello”. Il ribadire, infatti, tale sua vicinanza all’esperienza diretta, traccia, a mio avviso, una delle vie del suo cammino poetico, della sua visione di quanto, nel bene e nel male, sentiva d’essere circondato, perfuso; e i versi di “Sparse mi ritorna sequenze” dicono tanto della giovanile vita post-bellica, degli umori, dello strazio adolescenziale: «Io non vidi la morte ma la sera / mia madre lavorando a punti d’ago / i miei occhi chiamava due bottoni /grossi di vetro».

Tra le tante sue raccolte poetiche a partire dal 1954: da “Al chiarore dell’alba”, al “Filobus dei giorni” o da “Un rapido celiare” a “Sàgana” ad “Abbandonare Troia”, alla “Casarca”, è nella “Porcellana più fine” del 2002 (24 testi presentati con rara profondità dal poeta e scrittore Rodolfo Di Biasio), in cui ritrovo quell’equilibrata oscillazione tra i fatti della vita e la capacità di innervarli con l’intelligenza e il tremore creativo che abita l’anima. Sono, per altro, versi attenti al ritmo della materia e dello spirito; i sentimenti e le passioni si dispongono, quasi in preventivo accordo, con l’inconoscibile, in base a primarie e indefettibili tensioni, poste nelle intime tasche dell’animo a covare il suo peso, il suo dilemma. Poi vi affiorano i colloqui intessuti di umana pietà, pervasi da gesti avvolgenti, stimolati da ataviche diffidenze, rivolti al dardo spietato di quanti dialoghino con gli dèi, con i maestri spirituali (l’incrocio non è casuale tra Ippolito Nievo, scrittore da lui amato e studiato, e il gatto Raf).

Infine, il bagliore del vetro, d’una porcellana, appunto, ci consegnano, imprevedibilmente, l’ampiezza di un presente illusorio, sferico, scintillante, quanto inafferrabile e arcano. E, in evidenza, ecco emergere il peso del vivere segnalato da tale bagliore, spingendolo alla volta di una ricerca sacrale, così come leggiamo nei versi di chiusura del componimento “Remerciement”: «Di questa vita che mi fu donata / (o prestata comunque pagata / a un tanto al giorno) ti ringrazio / Signore così della certezza / che quando vorrai ne sarò liberato».

222copertinapiccolaIn tale afoso luglio del 2024 Lucio è stato ‘liberato’ lasciandomi con i suoi tanti interrogativi che inesorabilmente gravano sui miei: nessuna certezza se non quella d’una perdita che guarda una ferita aperta non visibile ad occhio nudo, ma non per questo meno dolente. Ho presente, tra le tante cose, i suoi minimi comportamenti in salute, in difficoltà, in malattia. Non ho mai dimenticato il suo volto appagato di quando tanti anni fa, saputo di un suo ricovero, sono andato a visitarlo in corsia. Congedandomi da lui mi abbracciò; poi, imprevedibilmente, mi baciò la mano. Mi son chiesto per tanti anni del perché di quell’effusione. Ne ebbi occasionale spiegazione all’Università di Lovanio l’11 dicembre del 2003 per un incontro letterario in cui ero stato invitato per un intervento su “Poesia e Scienza” in onore di Franco Musarra, allora ordinario di Letteratura Italiana nell’Università Cattolica di Lovanio. Tra i partecipanti incontro Edoardo Sanguineti con cui si parlò, insieme a Luciano Erba, delle più recenti esperienze su lingua e poesia.

Dopo avere ascoltato il suo intervento critico e di lettura cercai in biblioteca il suo Postkarten per rileggerlo, per prendere qualche appunto. Ho ripreso la lettura di questo testo dopo aver appreso, da un amico, della morte di Lucio. Rileggendolo, mi soffermai di scatto alla composizione numero ‘23’ che, in modo vago, ricordavo in quanto parla di un argomento a me caro: la ‘gentilezza’; ora, non a caso, mi suona chiara anche la nascosta onomatopea sanguinettiana di quel “baciando le mani ai medici”: 

che peccato, però, figli miei cari (e che orrori che vi siete perduti,
voi), che non vi siete visto vostro nonno, con il suo torace
da calzolaio (che si dice pectus excavatum), tremare e delirare, come
tombé en enfance, baciando le mani ai medici:
le sue parole
estreme, poi, non le ha pronunciate lui, ma Carol, al telefono,
parlando di sua madre ormai in coma, quando ha detto che era una donna
piena di tanta gentilezza:
e quando ha aggiunto, allora: il garbo è tutto.

Sanguineti, sette anni dopo il nostro incontro e una breve collaborazione, muore durante un intervento chirurgico. Mi sono sforzato di comprendere oggi di quel balzacchiano ‘tombé en enfance’ (che leggiamo nel romanzo Louis Lambert di Balzac), di quel baciar la mano ai medici, di quel passato insomma che torna in Sanguineti (forse) quale atto-ricordo d’un obliato sentimento sociale. Un esser riconoscenti al medico per la sola sua presenza? (io, per altro medico in visita ad un amico), o è un porre l’accento su d’un valore oggi disperso, sfilacciato? Credo, sic et simpliciter, che vi sia la necessità di un atto di gentilezza, di ‘garbo’, appunto; ma forse per Lucio, chissà, c’era qualcosa di più. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] Lucio Zinna (Mazara del Vallo-Trapani 1938-Bagheria-Palermo 2024). Trasferito giovanissimo a Palermo poi, dal 2007, a Bagheria, ha pubblicato di poesia: Al Chiarore dell’alba (1954); Il filobus dei giorni (1964); Antimonium 14 (1967); Un rapido celiare (1974); Sàgana (1976); Dalle rotaie (con Aldo Gerbino, 1979; Abbandonare Troia (1986); Bonsai (1989); Sàgana e dopo (1991); La Casarca (1992); Il verso di vivere (1994); La porcellana più fine (2002); Poesie a mezz’aria (2009); Stramenia (2010); Partenze e Arrivi (2016). Per la narrativa: Come un sogno incredibile / Il caso Nievo (1980; 2006); Il ponte dell’ammiraglio (1986); Trittico clandestino (1991); Un’estate a Ballarò e altri racconti (2010). Tra i saggi: La parola e l’isola. Opere e figure del Novecento letterario siciliano (2007). Ha curato la sezione Sicilia (testo critico e antologia) in “Dialect Poetry of Southern Italy” a cura di L. Bonaffini (1997). Ne “I quaderni di Arenaria” sono apparsi: Nietzsche e Kafka (2001); Due letture dantesche (2002); Gli equilibri della poesia (2003); Perbenismo e trasgressione nel ‘Pinocchio’ di Collodi (2008); Stagioni della vita e metafore della ‘soglia’ nel realismo radicale di Leopardi (2010). Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue.

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).

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