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Gaza e il destino di Israele

9788807174506_quarta-jpg-800x800_q75di Federico Costanza

Il nuovo libro di Gad Lerner si intitola Gaza, ma non parla di Gaza, né della Palestina. Il termine stesso “Palestina”, d’altronde, è frutto di fraintendimenti, a partire dalle stesse disposizioni della Risoluzione 181 delle Nazioni Unite che pose le basi per la suddivisione della regione mediorientale in due Stati, operazione mai di fatto avvenuta concretamente.

L’oggetto dell’ultimo libro di Gad Lerner è perciò, per stessa ammissione dell’autore, l’ebraismo nella sua più recente evoluzione, una riflessione che procede alla cadenza dei fatti di cronaca che dallo scorso 7 ottobre 2023 hanno subìto un’improvvisa accelerazione.

Una riflessione non facile, come complessa è la discussione sulla questione israelo-palestinese. Le continue tensioni geopolitiche nell’area e i conseguenti sconvolgimenti trascendono il semplice racconto storico degli eventi e accompagnano un’intricata situazione sociale e politica nella regione.

Anche il sottoscritto ammette di avere penato e non poco nel produrre una semplice recensione di questo testo. Perché, quando si affronta il conflitto arabo-israeliano è inevitabile scivolare in interpretazioni personali dei fatti, ed è ancora più inevitabile la presa di posizione di fronte al racconto quotidiano del massacro perpetrato nei confronti del popolo palestinese. Stavolta, sono le cifre a testimoniarlo.

Peraltro, lo stesso Gad Lerner fatica ad accettare la proposta del suo editore di scrivere qualcosa sull’attuale situazione mediorientale, temendo di non riuscire a gestire una materia così delicata e complessa, con il rischio di realizzare infine un semplice instant book. Ed effettivamente, la motivazione con cui sceglie il titolo del libro farebbe effettivamente propendere per questa ipotesi.

Tuttavia, Lerner ci offre molti interessanti spunti di riflessione, trasferendosi a un livello più profondo, ragionando su alcuni degli aspetti più controversi dell’ebraismo per come si è evoluto negli ultimi decenni. Lo fa attraverso le tante inchieste, interviste e scritti raccolti negli anni, confrontandosi con i propri dubbi, rivendicando le proprie differenze, la propria libertà rispetto all’identità sionista cui sente comunque di appartenere con orgoglio e gratitudine.

7 ottobre 2023

7 ottobre 2023 (ph. Ziv Korenç La Stampa))

Quelli che l’autore evidenzia sono elementi che si inseriscono nel confronto fra la storia della diaspora degli ebrei nel mondo e la crescita economica, demografica e sociale dello Stato di Israele nel Secondo Dopoguerra, anche e nonostante i tanti conflitti militari con i Paesi arabi confinanti, in quello che definisce “Rinascimento ebraico”. Un Rinascimento terminato il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco armato delle milizie di Hamas che ha causato un’ondata improvvisa di violenza e rapimenti in tutta Israele, mostrando la fragilità del suo apparato securitario.

Quella che Lerner dipinge è una società israeliana in costante evoluzione e ormai molto diversa dalla società costituitasi a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. L’autore sottolinea spesso la mancanza di una matrice religiosa in questa evoluzione storica e in quei primi coloni che, effettuata la aliyah (il “ritorno” alla Terra Promessa), sognavano una “patria ebraica” come luogo di riunificazione per gli ebrei dispersi da tutto il mondo, mancando un tale riferimento al sacro perfino nel testo fondativo del sionismo redatto dal suo teorico, Theodor Herzl.

Questa matrice laica dello Stato di Israele è quella che accompagna l’arrivo di molte generazioni di immigrati dall’Europa Orientale che nel corso del secolo scorso hanno popolato il nuovo Stato fino a costituirne l’ossatura della classe dirigente ashkenazita, rinfoltita negli anni Novanta dagli immigrati dell’ex blocco sovietico. Un Israele di ispirazione socialista che nel corso dei decenni ha però mostrato la difficoltà nel mantenere coesa una società di profughi con origini diversissime, settlers con caratteristiche di appartenenza quasi tribale.

Lerner individua, perciò, fra le tante anime del sionismo e nella complessità delle dottrine circolanti, due prevalenti: una laica e universalista, un’altra più marcatamente nazionalista ed esclusivista. Una dialettica non sempre pacifica, con la costante del popolo palestinese sullo sfondo di questa convivenza, come israeliani di origine araba o come vicini: a loro volta partner o intrusi rispetto al disegno, anche geografico, della Grande Israele.

In quasi ottanta anni di storia, lo Stato israeliano rimane comunque fedele alla forma democratica e pluralista, così come descritta fin dalla Dichiarazione di Indipendenza e nonostante la Legge del ritorno del 1950 che concedeva la cittadinanza israeliana a ogni immigrato che dimostrasse la propria ascendenza matrilineare ebraica.

Ultraortodossi

Ultraortodossi

Quindi, una società in fondo coesa, anche nella sua pluralità, fra cittadini nativi, ultraortodossi haredim, coloni arabi e immigrati da tutto il mondo. Una fedeltà alla forma democratica e plurale che ha iniziato a scricchiolare nel 2018, quando la Knesset ha deliberato, di stretta misura, una nuova Legge Fondamentale. Questa, aggiungendosi alle altre dello Stato in una sorta di corpus para costituzionale, definisce Israele come “Nazione del popolo ebraico” in forma praticamente esclusiva, anche attraverso la valorizzazione degli insediamenti coloniali e quindi la loro incentivazione.

Lerner individua questo momento come un punto di rottura, di non ritorno, la dimostrazione che Israele sta virando nettamente verso la sua anima più nazionalistica ed etnocentrica, forzata dalla destra messianica partner del governo Netanyahu che spinge per il redde rationem con i vicini palestinesi.  

In questo quadro sociale frammentato e però determinato, i giovani rappresentano un’immagine significativa di come è evoluta la società israeliana e, per riflesso, come interpretare oggi il futuro dell’ebraismo nel mondo, da chimera unitaria e universalista a rivendicazione etnica e securitaria. I giovani affrontano questa situazione con aspettative molto differenti. In molti pensano come eludere l’obbligo del servizio militare attraverso matrimoni di comodo, emigrando magari in quei Paesi, soprattutto anglosassoni, che hanno garantito la vicinanza agli ebrei a dispetto della crescente diffidenza mondiale, soprattutto in questi mesi di guerra alla popolazione di Gaza.

I giovani israeliani che rimangono, di contro, sono sempre più chiusi rispetto allo spettro dell’ignoto, nascono in una società ricca, libera ma di guerra, nell’illusione che il progresso economico prospettato dalle tante imprese tecnologiche li possa tutelare dall’insicurezza del nemico alle porte, una minaccia che rende la società israeliana ormai sempre più intollerante e diffidente nei confronti di tutto il mondo arabo circostante. Cosa sarà quindi del futuro di questo popolo?

L’autore giunge a utilizzare una metafora biblica per descrivere questo momento: l’ebreo Sansone che, una volta sedotto e tradito dalla filistea Dalila e persa la forza nei capelli, per riscattarsi non può far altro che invocare Dio per immolarsi e distruggere gli odiati nemici. E dove si svolge questo mito se non a “Gaza”, luogo dello spirito anche nelle antiche Scritture? Una metafora che descrive l’attuale momento di debolezza dello Stato di Israele, forse la sua vocazione all’autodistruzione.

Esisterebbe un’unica alternativa, quella di spostare nuovamente il baricentro dell’ebraismo, ritornando al mito della diaspora che è stato per secoli propulsore della spinta all’unità di un popolo disperso e garante di una cultura millenaria. Questi ebrei dispersi nel mondo sono un golem archetipo cui si rifà anche un altro grande intellettuale incontrato e intervistato da Gad Lerner in passato.

Primo Levi fornisce infatti una grande lezione che forse è una delle migliori pagine di questo testo, quando asserisce che il baricentro dell’ebraismo va posto fuori da Israele tornando agli ebrei della diaspora che hanno il compito di ricordare agli amici israeliani “il filone ebraico della tolleranza”, spingendoli a una soluzione di compromesso, di rinuncia alle mire espansioniste in Cisgiordania e a Gaza.

Parole che appaiono profetiche negli anni Ottanta, ma che non perdono lucidità di fronte al rischio paventato da Levi del contagio dell’integralismo religioso in Israele, nonostante la storia laica del Paese, nonostante la diffidenza degli ebrei verso le derive confessionali dello Stato.

Esiste effettivamente un racconto dell’ebraismo della diaspora nel quale risiede la visione profetica di un popolo che fa della tolleranza la sua fede sottesa, la ragione della sua sopravvivenza: l’ebreo è ebreo in quanto in diaspora, «…il meglio della cultura ebraica è legato al fatto di essere dispersa, policentrica», chiosava lo stesso Primo Levi.

In questa affascinante narrazione, però, il popolo di Palestina è il convitato di pietra. Secondo molti studiosi occidentali, è stato vittima dell’egoismo dei governi arabi per oltre mezzo secolo, dell’ottusità dei suoi rappresentanti politici, della sciagurata scelta di abbandonare la via della resistenza laica all’oppressione di Israele scegliendo di seguire un percorso di lotta escatologico.

Primo Levi

Primo Levi

L’autore prova costantemente a non dimenticare i palestinesi, lo fa ricordando la pulizia etnica che sfociò nella Nakba e l’allontanamento di molte famiglie arabe dalle loro case, dalle loro terre. Ma il racconto della lotta del popolo palestinese appare sempre come un soffio di polvere su una superficie luccicante. Ricordo le parole al vetriolo dello studioso Edward Said che si spinse a considerare del sionismo «la sua capacità ‘mondana’ di rimuovere altre idee e persone e di accumulare per sé la legittimità della dispensa che ha messo da parte, ideologicamente ma anche in termini territoriali e politici».

L’intento dell’autore è sicuramente quello di dedicarsi alle “ragioni dell’ebraismo” e non indulgere in scivolose quanto superflue argomentazioni di tipo politico e storico, che peraltro sarebbero facilmente oggetto di critiche tanto degli antagonisti ProPal da una parte quanto dei nemici del dissenso ebraico dall’altra.

In fondo, la riflessione più condivisibile di Gad Lerner è che questi due popoli, così vicini e così interlacciati ormai, dovranno prima o poi risolvere i dissidi che ne impediscono la convivenza, in un territorio demograficamente sempre più peculiare.

Gaza non è forse un libro indispensabile per la lettura dell’attualità politica di questi giorni, ma offre una chiave di interpretazione importante della società israeliana attuale e di come essa stia evolvendo, nonostante le tante anime che la popolino, verso una forma di nazionalismo più coeso, verso quella patria ebraica di cui si parlava all’inizio che esclude l’ebraismo al di fuori di Israele.

Un nazionalismo che estende le proprie velleità egemoniche su tutta l’area geografica individuata dai Testi Sacri e che esclude, infine, anche quei cittadini israeliani che in questa mono-etnia artificiosamente scelta non si riconoscono o che, seppure cittadini, sono esclusi per ragioni linguistiche, religiose o etniche.

Il destino di Israele si svolgerà tutto qui, in fondo: nel decidere dove volere fissare questo baricentro che pone l’ebraismo di volta in volta vittima e carnefice, come la Storia, d’altronde, ci ha sempre insegnato a vederlo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024

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Federico Costanza, si occupa di progettazione e management strategico culturale, con un’attenzione specifica all’area euro-mediterranea e alle società islamiche. Ha diretto per diversi anni la sede della Fondazione Orestiadi di Gibellina in Tunisia, promuovendo numerose iniziative e sostenendo le avanguardie artistiche tunisine attraverso il centro culturale di Dar Bach Hamba, nella Medina di Tunisi.

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