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L’Utopia che non vide la Merica

Immagine del piroscafo Utopia (Archivio iconografico dell’autore)

Immagine del piroscafo Utopia (Archivio iconografico dell’autore)

di Gianni Palumbo 

Utopia era il nome del piroscafo della compagnia inglese Anchor Line, varato il 14 febbraio 1874 a Glasgow, con stazza di 2720 tonnellate lorde, lunghezza di 350,3 piedi (circa 107 metri), larghezza di 35,2 piedi (circa 11 metri) e altezza di 29,5 piedi (circa 9 metri), nato con motore a doppia espansione, poi modificato a tripla espansione nel 1890, e con velocità di viaggio di 13 nodi. Il piroscafo era destinato al trasporto transoceanico di passeggeri ma diversi decenni dovevano ancora passare prima di vedere le acque solcate dagli immensi e possenti transatlantici nello stile del Titanic.

Utopia fece il suo viaggio inaugurale il 23 maggio del 1874 da Glasgow verso Moville e New York. Dopo numerose corse su quella ed altre rotte, fiutato il grande affare della crescente emigrazione italiana verso il nord America, venne adibito alla tratta oceanica tra l’Italia e New York attraverso la quale viaggiò dieci volte. A seguito dell’ammodernamento del 1890 che, insieme al potenziamento del motore, rimodulò gli spazi interni con l’eliminazione della seconda classe, consentendo così il trasporto fino a 900 passeggeri di terza classe (oltre a passeggeri di prima in 45 cabine)[1], salpato il 25 febbraio 1891 da Trieste, all’epoca principale porto dell’Impero austro-ungarico, effettuate due fermate intermedie a Fiume e Palermo, giunse al porto di Napoli, ultimo e principale scalo prima del viaggio verso New York, il 7 di marzo [2]. Da lì, il 12 marzo, Utopia, carico come mai in precedenza, partì alla volta dell’America per il suo ultimo viaggio.  

La lista ufficiale della compagnia di navigazione redatta al momento dell’imbarco riporta 823 passeggeri, dei quali 10 mai partiti perché in parte non presenti all’imbarco e in parte fatti sbarcare dalle forze di pubblica sicurezza. Tuttavia, l’ipotesi che il numero di passeggeri a bordo fosse di gran lunga maggiore sembra dimostrata dal raffronto con i dati contenuti in altre fonti dell’epoca, anche all’esito del ritrovamento dei periti e dei sopravvissuti, ed è suffragata dal dato della capienza potenziale del piroscafo attestata tra le 881 e le 947 unità in diversi certificati di autorità portuali (in particolare, un verbale di visita della Commissione nominata dalla Capitaneria di porto di Napoli del 10-12 marzo 1891 e una certificazione di un misuratore di navi a vapore della Città di Brooklyn del 28 febbraio 1893 prodotta in giudizio) [3].

La ricostruzione della lista dei passeggeri, attraverso il confronto di molteplici fonti italiane, spagnole, gibilterrine e statunitensi, fa in ogni caso emergere un dato certo, che l’immane carico umano dell’Utopia era formato quasi interamente da emigranti provenienti dalle regioni del sud Italia e dalla Sicilia, uomini, donne e moltissimi bambini, anche di pochi mesi, che riponevano le speranze di una vita più dignitosa oltre oceano.

la soglia di Camarinal (in rosso), che costituisce il confine geografico reale tra Mar Mediterraneo e Oceano Atlantico, a ovest di Tarifa (elaborazione grafica dell’autore su base google maps).

La soglia di Camarinal (in rosso), che costituisce il confine geografico reale tra Mar Mediterraneo e Oceano Atlantico, a ovest di Tarifa (elaborazione grafica dell’autore su base google maps).

Invece il loro viaggio durò non più di pochi giorni, terminando drammaticamente ancor prima di lasciare il Mediterraneo, nella burrascosa notte del trentesimo Anniversario dell’Unità d’Italia, il 17 marzo del 1891. 

L’acqua oceanica, meno densa e più fredda, superficiale rispetto all’acqua a più elevata salinità del bacino del Mediterraneo, genera, in condizioni normali, una corrente marina che si sposta naturalmente da ovest verso est all’altezza della soglia di Camarinal (barriera sottomarina, culmine di una altura di profondità, presente nella parte occidentale del territorio di Tarifa e che si sviluppa in direzione nord-sud tra Punta Camarinal e Punta Paloma, in territorio spagnolo, e Capo Malabata e Capo Bou Maaza, in territorio marocchino), che costituisce la parte finale del Bacino idrografico del Mediterraneo già in Oceano Atlantico [4]. La sera del 17 marzo 1891 culminava, inoltre, l’alta marea, generando ulteriore turbolenza amplificata da un quadro meteorologico complesso, con presenza di un vento impetuoso da sud-ovest, pioggia torrenziale e foschia densa, che furono complessivamente condizionanti nell’entrata dell’Utopia nella rada della Baia, oltre il porto militare. 

A questo si aggiunga la sorpresa del Capitano, John McKeague, che non si aspettava di trovarsi con le navi militari della Royal Navy così appresso, in particolare due corazzate, la Anson, molto vicina alla punta del molo e, più distante, la Rodney. McKeague pensò di superarle per cercare un approdo dietro la poppa delle navi militari, ma a quel punto, anche disturbato dai raggi di luce elettrica proiettati dalle altre navi, che squarciavano il buio, non si accorse dello sperone sottomarino che sporgeva dalla corazzata Anson. La prua dell’Utopia aveva superato lo sperone ma la poppa fu presto squarciata, per alcuni metri, dal rostro metallico e in pochi minuti il piroscafo si inclinò tra i 60 e i 70 gradi, inabissandosi rapidamente la poppa. Fu tale la pendenza che molti tra coloro che si trovarono sul ponte precipitarono in mare senza possibilità di aggrapparsi a qualcosa, altri resistettero, aggrappati al sartiame, ma solo per pochi minuti, fino a quando anche la prua, con le stive colme di acqua, dovette cedere alla profondità del mare all’ingresso del porto, sommergendo del tutto il piroscafo ad eccezione delle punte dei due alberi, da un lato e dall’altro del fumaiolo. 

Incisione su legno, riprodotto da un periodico tedesco d’epoca, che rappresenta l'affondamento dell’ “Utopia” al largo di Gibilterra. Salvataggio dei naufraghi da parte della nave corazzata “Anson” con i fasci luminosi della corazzata della Royal Navy che illuminano il luogo del disastro (archivio iconografico di G. Palumbo).

Incisione su legno, riprodotto da un periodico tedesco d’epoca, che rappresenta l’affondamento dell’ “Utopia” al largo di Gibilterra. Salvataggio dei naufraghi da parte della nave corazzata “Anson” con i fasci luminosi della corazzata della Royal Navy che illuminano il luogo del disastro (archivio iconografico di G. Palumbo)

In quei concitati minuti fu il foghorn, il corno da nebbia, col suo suono greve e profondo – che accompagna le navi per annunciare pericoli nella navigazione, o semplicemente per coadiuvare con un avviso sonoro ciò che è impossibile determinare per la scarsa visibilità – a dare l’allarme, ma in un’impossibile corsa contro il tempo. E infatti non vi fu il tempo di calare in mare le scialuppe di salvataggio e inoltre – come dichiarò il capitano durante i processi – l’abbaglio, prima di essere egli stesso sbalzato in mare, dei fasci luminosi prodotti dai fari elettrici delle navi da guerra, mal ancorate nel porto di Gibilterra e che illuminavano lo specchio di mare luogo dell’incidente, resero ulteriormente complesse le valutazioni da fare nella concitazione del momento. 

Furono circa 600 le vittime, molte delle quali rimaste intrappolate nei dormitori, e poco oltre 300 i superstiti, quasi una cinquantina dei quali trovati abbarbicati sui pennoni dei due alberi che resistettero ai violenti sballottamenti rimanendo alcuni metri sopra il livello dell’acqua mentre il piroscafo toccava il fondale della rada di Gibilterra che, all’altezza dell’ingresso al porto dove avvenne la collisione con la corazzata Anson, ha una profondità variabile tra i 16 e i 17 metri circa. 

Le lance delle navi da guerra, protagoniste assolute nello spazio della baia con la propria imponente presenza (metà della Royal Navy era ancorata nel porto del protettorato britannico), tempestivamente calate in acqua, consentirono il recupero dei sopravvissuti e di una parte considerevole delle vittime. Tra i primi ad essere soccorsi dalle lance delle corazzate inglesi vi fu il capitano McKeague che tornò immediatamente a prestare soccorso ai naufraghi ancora in lotta coi marosi. Le navi che accorsero in aiuto ai naufraghi nell’immediatezza dell’incidente furono, in particolare, le corazzate inglesi Anson, che recuperò 30 sopravvissuti e 3 cadaveri, Immortalitè, che salvò 2 naufraghi, Curlew, che recuperò 20 superstiti e 2 cadaveri, Camperdown, che soccorse 46 superstiti. Oltre alle navi della marina militare britannica agirono in soccorso dei naufraghi anche la fregata svedese Freja, con il recupero di 43 sopravvissuti e 5 cadaveri, il piroscafo della Compagnia dei Telegrafi Amber che recuperò 5 sopravvissuti, le lance della capitaneria di porto di Gibilterra e alcune lance spagnole che soccorsero altri naufraghi.

Fig. 4: epigrafe commemorativa marmorea e corona bronzea per i marinai James Croton e George Hales dell’HMS Immortalitè (Archivio iconografico di G. Palumbo).

Epigrafe commemorativa marmorea e corona bronzea per i marinai James Croton e George Hales dell’HMS Immortalitè (Archivio iconografico di G. Palumbo)

Parteciparono altresì alle operazioni di soccorso gli equipaggi della SS Blanche, che non faceva parte dello Squadrone militare della Manica ancorato a Gibilterra, della cannoniera Goshawk, della cannoniera Speedwell. Anche l’equipaggio dello yacht Resolute si unì alle lance della HMS Immortalitè, una delle quali dopo aver sbarcato undici superstiti durante le operazioni di salvataggio presso il Vecchio Molo, nel ritornare sul luogo dell’incidente recuperò altri otto emigranti ma, mentre tornava verso la propria corazzata, ebbe la cattiva sorte di impigliare l’elica del motore in una corda galleggiante e, dato il mare molto agitato, fu scagliata sugli scogli con tale forza da distruggersi: con enormi sforzi i soccorritori arrivati da terra e da mare permisero di trarre in salvo gli otto emigranti, tuttavia due membri dell’equipaggio della lancia – George Hales, fuochista, e il marinaio James Croton – persero la vita. I due marinai furono commemorati con una epigrafe, donata dal Re d’Italia, allocata sul muro in fondo alla collina all’interno del Dockyard South Gate, e con due lapidi nel cimitero di North Front [5]. 

A Gibilterra, nel suddetto cimitero di North Front, oltre alle tombe dei due eroici marinai inglesi, furono sepolti in una fossa comune i corpi di 136 vittime recuperati dal mare durante i soccorsi e nel corso dei giorni seguenti, a memoria della quale fu posto un monumento funebre. Altre 26 vittime trovarono sepoltura nella confinante città spagnola de La Línea de La Concepción, nell’antico cimitero della città, traslate poi nel 1925 del nuovo cimitero di San Josè [6] dove fu posto un altro monumento, un vero e proprio Pantheon, dedicato alle vittime di Utopia.

L’Utopia, recuperata dal fondo marino il 9 luglio, viene trainato a riva. Immagine tratta da The raising of the Utopia, in “The Strand Magazine”, 4 (1892), Jul.-Dec., pp. 48-52.

L’Utopia, recuperata dal fondo marino il 9 luglio, viene trainato a riva. Immagine tratta da The raising of the Utopia, in “The Strand Magazine”, 4 (1892), Jul.-Dec.: 48-52

Degli oltre 300 superstiti 18 persone furono curati presso l’ospedale coloniale di Gibilterra, 23 nell’ospedale militare, 52 presso il Sailor’s Home e 175 nelle stesse infermerie delle navi da guerra e da qui trasferite presso l’ospedale militare della Royal Navy [7]. Ai sopravvissuti, ai quali giunsero aiuti economici tramite varie raccolte di fondi promosse sia a Gibilterra che a La Línea de La Concepción e in altre città spagnole, venne offerta dalla Anchor Line, dopo alcuni giorni dall’incidente e dopo le cure necessarie avute a Gibilterra e a La Línea de La Concepción, la possibilità di procedere il viaggio verso New York con il vapore Anglia o di rientrare a Napoli tramite il piroscafo Assirya. Poco più della metà dei sopravvissuti decise di continuare, nonostante tutto, il viaggio verso il sogno americano.

«Antiche terre, – ella dirà con labbra mute – a voi la gran pompa! A me date i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata» [8].

È questo il testo, tratto dalla poesia “The New Colossus” di Emma Lazarus del 1883, posto nel 1903 alla base della Statua della Libertà, statua inaugurata alcuni anni prima del naufragio e che ci ricorda che l’America è un Paese di immigrati provenienti da tanti Paesi del mondo [9].

I poveri di Utopia non poterono essere accolti alla “porta dorata” dalla fiaccola della libertà, essendosi inabissati prima delle Colonne d’Ercole e per lungo tempo hanno rischiato di essere del tutto dimenticati. Eppure, quello che fu il più grande disastro marittimo della storia dell’emigrazione italiana, quasi del tutto dimenticato, rimosso dal patrimonio della nostra memoria collettiva, si offre tutt’oggi – a distanza di oltre 130 anni – a molteplici prospettive di indagine, in parte inesplorate.

Testata del quotidiano gibilterrino in lingua spagnola “El Calpense”, del 9 luglio 1891 con la descrizione delle operazioni di recupero del relitto del piroscafo (Archivio iconografico G. Palumbo).

Testata del quotidiano gibilterrino in lingua spagnola “El Calpense”, del 9 luglio 1891 con la descrizione delle operazioni di recupero del relitto del piroscafo (Archivio iconografico G. Palumbo)

Il naufragio dell’Utopia è una storia di carenze legislative e, ancor più, di carenze applicative di quella normativa che, sebbene non incentrata sulla tutela dei diritti degli emigranti, pure conteneva un insieme di disposizioni volte a garantire la sicurezza delle imbarcazioni e dei viaggi marittimi, anche con precipuo riferimento alle condizioni del trasporto della “merce umana”.

immagini tratte dal quotidiano gibilterrino in lingua spagnola “El Calpense”, del 9 luglio 1891 con la descrizione delle operazioni di recupero del relitto del piroscafo (Archivio iconografico G. Palumbo).

Pagina tratta dal quotidiano gibilterrino in lingua spagnola “El Calpense”, del 9 luglio 1891 con la descrizione delle operazioni di recupero del relitto del piroscafo (Archivio iconografico G. Palumbo)

Dal punto di vista dell’ordinamento all’epoca vigente la fattispecie, con specifico riferimento al viaggio, era disciplinata dal Codice della Marina Mercantile e dal suo regolamento esecutivo, approvato con Regio Decreto n. 5166 del 20 novembre del 1879. Al fine di verificare l’applicazione di quanto stabilito erano previsti specifici controlli e ispezioni da parte delle autorità portuali prima dei viaggi di lungo corso con trasporto di passeggeri. La complessa vicenda processuale che si svilupperà in Italia per quasi un decennio svelerà che il 12 marzo 1891 l’Utopia prese il largo dal porto di Napoli senza il pieno rispetto di quella normativa, nonostante quanto diversamente attestato nei verbali delle autorità marittime italiane che dichiarano il piroscafo “atto alla navigazione suddetta” [10].

Facendo un passo indietro, è necessario ricordare che subito dopo il naufragio a Gibilterra ci furono due inchieste, di natura penale, la prima da parte del Coroner e la seconda della Corte marittima. L’inchiesta del Coroner ritenne che l’affondamento del piroscafo a seguito dell’urto con l’ariete della corazzata Anson fosse dovuto al caso fortuito, ravvisando nella condotta del capitano McKeague un errore di giudizio ma non una negligenza che potesse determinare uno stato di colpevolezza dello stesso. Il successivo processo presso la Corte marittima, seppure in prima istanza accertò un grave errore di giudizio in capo al capitano dal quale derivarono il naufragio e la perdita di vite, non ritenne di riconoscere in definitiva la responsabilità dello stesso né di sospendere o ritirare la sua patente di navigazione [11].

Nonostante il suddetto esito, favorevole al capitano, il processo della Corte marittima si rivelerà di fondamentale rilievo, per la considerazione delle testimonianze nello stesso raccolte, nella determinazione delle decisioni dei giudici italiani. Il giudizio incardinato presso il Tribunale di Napoli nel 1892 era di natura civile e fu volto ad ottenere il risarcimento dei danni subiti dai superstiti e dagli eredi delle vittime del naufragio. Si trattò di un processo lunghissimo e particolarmente complesso attesa l’evidente peculiarità della vicenda: la perdita di circa 600 vite a causa del naufragio di una nave straniera avvenuto in acque straniere.

Lo stesso Presidente del Consiglio, Di Rudinì, rispondendo ad una interrogazione dell’onorevole Gianturco volta a sapere se e quali provvedimenti il Governo intendesse adottare per consentire il riconoscimento di una indennità ai naufraghi e alle loro famiglie in occasione di disastri marittimi e in particolare del naufragio dell’Utopia, affermò che la questione relativa a stabilire se i naufraghi avessero diritto a una indennità e se il Governo potesse, e in quale modo, intervenire per l’ottenimento della stessa, era una questione di diritto internazionale tra le più difficili e le più delicate [12]. E ciò ben si comprende se si considera, oltre agli aspetti squisitamente giuridici, quella complessa rete di accordi politico-militari tra l’Italia e il Regno Unito che, inserita nel più ampio quadro di intese e patti con le altre potenze europee, delineava delicati equilibri per gli interessi italiani nel bacino del Mediterraneo.

Lettera degli Henderson Brothers, armatori di Utopia, al Segretario Coloniale di Gibilterra, Sir Cavendish Boyle (Documento fotoriprodotto dal Gibraltar National Archives).

Lettera degli Henderson Brothers, armatori di Utopia, al Segretario Coloniale di Gibilterra, Sir Cavendish Boyle (Documento fotoriprodotto dal Gibraltar National Archives)

Tuttavia, non può dirsi che non vi fu alcuna giustizia per le vittime dell’Utopia. Né, come sbrigativamente sostenuto da alcuni autori, che il processo italiano, dopo quello gibilterrino, non fu accettato dagli Henderson Brothers, gli armatori del piroscafo, e si risolse in un accordo segreto per beffare i naufraghi, con il protagonismo diretto degli apparati politici e la complicità interessata degli stessi difensori dei superstiti e degli eredi dei periti. Ciò non solo perché si tratta di affermazioni suggestive ma del tutto prive di riscontri e supporti documentali, quanto perché esse muovono innanzitutto dall’evidente errore di ritenere il processo napoletano chiuso nel 1885 con una sentenza “rifiutata” dagli armatori. Il processo invece, come chiaramente si evince dai fascicoli conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli e dalle numerose sentenze cui diede vita, terminò molto più tardi, nel 1899.

Certo, sembra piuttosto plausibile che la classe dirigente italiana avrebbe preferito lasciare la ricerca di ogni verità in merito al disastro dell’Utopia sui fondali marini dello stretto di Gibilterra, evitando in tal modo possibili contraccolpi sul delicato sistema dei rapporti diplomatici e strategici con l’Inghilterra, per di più in momento storico-sociale in cui, rispetto all’esplodere del fenomeno migratorio, il dibattito politico sull’emigrazione era articolato su posizioni complesse e spesso antitetiche, comunque per lo più non incentrate sulla considerazione della posizione giuridica dell’emigrante come specifico soggetto di diritto. È dunque evidente che il riconoscimento di una tutela risarcitoria in caso di incidenti marittimi potesse rivelarsi idoneo a riverberare una portata potenzialmente dirompente in tema di diritti dei passeggeri, anticipando concretamente e accelerando la definizione di uno statuto di tutele della categoria degli emigranti. E, del resto, il potenziale significato giurisprudenziale dell’esito processuale, ben al di là del giudizio in esame, non sfuggiva affatto alle difese legali come si deduce chiaramente dagli atti processuali [13].

L’importanza della posta in gioco si comprende, del resto, anche considerando che la difesa degli armatori fu assunta nella fase iniziale del processo, tra gli altri, da Francesco Crispi, per il tempo intercorrente tra un Governo e l’altro di cui fu Presidente del Consiglio dei ministri, il quale sottolineava l’anomalia di voler fare giudicare da un Tribunale italiano un incidente avvenuto fra due navi straniere in un porto straniero, negando innanzitutto la competenza del giudice adito. Le ragioni dei naufraghi superstiti e degli eredi dei periti nel naufragio furono rappresentate da diversi legali, tra i quali lo stesso Gianturco, che presentarono distinte domande poi riunite dal Tribunale di Napoli.  

La lettura delle memorie e degli atti processuali, delle sentenze, nonché degli ulteriori documenti come gli “appunti” scritti a mano dai legali o dai periti, consultati presso gli Archivi di Stato, è di grande interesse permettendo una ricostruzione del processo napoletano sull’Utopia che lascia spesso intravedere anche i condizionamenti di natura politica su una vicenda processuale di così rilevante portata per il nostro Paese. Tuttavia, non essendo possibile ripercorrerla analiticamente in questa sede, è importante ricordarne gli aspetti salienti, evidenziando come il processo, nelle intenzioni dei difensori dei naufraghi, si poneva nell’ottica di una nuova considerazione giuridica dell’emigrante e, si direbbe, della condizione che lo qualificava in quanto tale, ovvero il viaggio migratorio.

Con una fondamentale sentenza del 29 agosto del 1894 la Corte d’Appello di Napoli, riformando la sentenza del giudice di primo grado, riconobbe la competenza del Tribunale di Napoli sulla controversia in esame ritenendo che le azioni proposte trovassero fondamento nel contratto di noleggio intercorso tra gli emigranti e gli armatori del piroscafo, per il tramite dalla ditta Holme, da considerare a tutti gli effetti rappresentante dell’Anchor Line.

monumento all’emigrazione presso Tarifa (Cadiz). Di fronte le montagne dell’Atlante in Marocco (foto dell’autore. Archivio iconografico G. Palumbo).

Monumento all’emigrazione presso Tarifa (Cadiz). Di fronte le montagne dell’Atlante in Marocco (ph. Gianni Palumbo, dell’Archivio iconografico personale)

Superata la questione della competenza con la conferma da parte della Corte di Cassazione di Napoli della sopra citata pronuncia, il giudizio di merito, anch’esso articolato nei tre gradi di giudizio fino alla sentenza della Corte di Cassazione di Napoli del 28 gennaio-27 febbraio 1899, escluse che il naufragio potesse considerarsi imputabile a caso fortuito o forza maggiore, stabilì invece la responsabilità del capitano McKeague connessa a imprudenza e negligenza per l’insufficiente rifornimento di carbone, in violazione di quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, che aveva determinato la necessità di abbreviazione della rotta e il conseguente naufragio, responsabilità aggravata dalla insufficienza dei mezzi di salvataggio rispetto alle previsioni della normativa di riferimento, e dichiarò inammissibile l’applicazione dell’istituto dell’abbandono della nave con il conseguente effetto liberatorio di responsabilità per gli Henderson Brothers attesa la loro personale obbligazione fondata sul contratto di noleggio con gli emigranti. Gli armatori furono dunque condannati al risarcimento dei danni derivati dal naufragio, compresi il costo dei noli e la perdita degli effetti personali. La ditta Holme fu altresì condannata nei limiti della garanzia prestata in favore del capitano pari a lire 97.000.

Sicché, all’esito del giudizio, dopo ben otto anni dal naufragio, restava da provvedere alla quantificazione dei risarcimenti in favore delle vittime dell’Utopia. A tal fine, gli Henderson Brothers e la Holme, in qualità di garante nei limiti della manleva prestata, siglarono un accordo con i naufraghi e gli eredi delle vittime, approvato con sentenza del Tribunale di Napoli del 20 dicembre 1899, che stabiliva il risarcimento per ogni perito di lire 1.000 e per ogni superstite di lire 290 [14].

Risultano ancora diversi i canali di indagini in fase di approfondimento su una vicenda tutt’altro che lineare e senza dubbio ricca di spunti di riflessione anche per l’attuale fase delle migrazioni nel Mediterraneo. Ad ogni modo il fine precipuo del presente articolo è di contribuire alla costruzione di una memoria collettiva capace di rideterminare forma e sostanza su un avvenimento particolarmente significativo della nostra storia recente. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] N. R. P. Bonsor, North Atlantic Seaway, vol. 1, David and Charles, Pynes Hill 1975: 460; D. Haws, Merchant Fleets, vol. 9, Anchor Line Limited Special Collection, Patrick Stephens Ltd., Sparkford 1986: 55.
[2] P. Baker, S.O.S. Utopia. An account of the sinking of SS Utopia, in Gibraltar March 1891, AV Impresores, La Linea de la Concepción, Cadiz 2009: 27.
[3] Cfr. G. Palumbo, L’Utopia tra le nebbie della memoria. Appunti di un naufragio, Marotta&Cafiero editori, Napoli 2024: 271 e ss.
[4] M. LujÁn, A. Crespo-Blanc, M. Comas, Morphology and structure for the Camarinal Sill from high-resolution bathymetry: evidence of fault zones in the Gibraltar Strait, Geo-Marine Letters 31 (3): 163-174, June 2011.
[5] Cfr. G. Palumbo, L’Utopia tra le nebbie della memoria. Appunti di un naufragio, cit.: 207 e ss.
[6] Registro delle sepolture del cimitero, conservato in copia presso l’Archivio storico dell’Excmo. Ayuntamiento de La Línea de La Concepción.
[7] L’antico ospedale militare di Gibilterra fu costruito intorno al 1730. L’edificio era stato costruito in risposta alla necessità di strutture sanitarie conseguente l’assedio del 1727, esigenze che né il vecchio ospedale di San Juan de Dios né i distaccamenti medici di ogni reggimento potevano soddisfare. Benché fosse stato costruito per dare ospitalità a circa mille persone dell’armata britannica, verso la fine del XIX secolo, al tempo del naufragio di Utopia, divenne l’ospedale generale per tutta la guarnigione, compresa la marina dalla quale prendeva il nome e, in caso di necessità, per i civili. Cfr. J. C. Pardo, F De la Puente, L. Fontanella, Gibraltar [1888]. Fotografia y usos militare, Museo de la Universidad de Navarra, Pamplona 2017.
[8] Berger A., American Icons. Viaggio tra i luoghi più significativi della cultura americana, FrancoAngeli edizioni, Milano 2014: 65.
[9] Berger A., ivi: 66.
[10] Cfr. Verbale di visita eseguita al piroscafo “Utopia” dalla relativa Commissione nominata dalla Capitaneria del Porto di Napoli, doc. n. 25, e Verbale di visita alla macchina e caldaie del piroscafo, entrambi in Elenco sommario dei documenti prodotti in giudizio dalla Ditta armatrice del piroscafo “Utopia”, [s.e.], [Napoli, 1893]: 12-13.
[11] G. Palumbo, L’Utopia tra le nebbie della memoria. Appunti di un naufragio, cit.: 229 e ss.
[12] Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XVII Legislatura, I Sessione, Discussioni, Tornata del 25 aprile 1891:1447-1448.
[13] «Perciò il rimpianto per le vittime non giunge a turbare la mente de’ giudici in una causa la cui importanza giuridica sorpassa gli angusti confini d’un Tribunale, e anche quelli d’una sola nazione». Così si concludeva la memoria dei difensori degli Henderson Brothers, armatori del piroscafo Utopia, del novembre 1895 in [S. Fusco, F. Serafino, G. Serafino, G. Manfredi], Difesa dei Signori Henderson, armatori, contro i danneggiati dell’“Utopia” Presso il Tribunale di Napoli, R. Tipografia Francesco Giannini & Figli, Cisterna dell’Olio, casa propria, Napoli 1895: 264.
«Il magistrato italiano è chiamato a giudicare una gravissima causa, una causa i cui effetti non si ripercuoteranno soltanto sugli infelici che in un modo od in un altro sono stati colpiti dal disastro dell’Utopia, ma serviranno ancora di ammaestramento e monito a tutte le Compagnie di navigazione, che riguardano come merce i poveri nostri emigranti.
La sentenza dirà alle autorità di porto italiane, che non è lecito di violare e far violare impunemente le leggi del nostro paese; dirà agli armatori, che se trovarono autorità compiacenti, che fecero partire stracariche di merce umana le loro vecchie ed innavigabili carcasse, trovarono altresì un magistrato, il quale seppe elevarsi a giusto vindice dei dritti dei suoi connazionali, dichiarando chiusa per sempre l’epoca dei loro lauti ed illeciti guadagni in Italia». Queste erano le conclusioni della difesa dei naufraghi e dei superstiti nell’atto del 30 novembre 1892, in [E. Gianturco, A. Guariglia], Per i superstiti ed eredi dei naufraghi dell’Utopia contro la ditta Henderson Brothers e la ditta Riccardo ed Eduardo Holme, R. Tipografia Francesco Giannini & Figli, Cisterna dell’Olio, 2 a 7, Napoli 1892: 161 e 162.
[14] Cfr. R. Lopes, 1891 il naufragio del piroscafo Utopia, Istituto Poligrafico Europeo Casa editrice, Palermo 2023: 108-109 e. 117 e ss. per una disamina dettagliata circa gli indennizzi governativi riconosciuti alle vittime. 

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Gianni Palumbo, Team Leader di BioPhilia Group che presiede dal 2009. È componente e del Centro Indipendente Studi Alta valle del Volturno e della Società Italiana per la Storia della Fauna “G. Altobello”. Declina l’impegno sociale riversando attenzione per archivi e biblioteche. È stato Ispettore archivistico onorario per il Ministero dei Beni Culturali dal 2016 al 2020. Ha scritto alcune sceneggiature per la trasmissione radiofonica Wikiradio di Radio3 RAI. Collabora con diverse testate giornalistiche ed è autore di libri e articoli su riviste scientifiche e divulgative. Tra gli altri, ha pubblicato Il Grillaio (Altrimedia Edizioni, 1997), La vicenda di Giuseppe Camillo Giordano (Adda Edizioni, 2014), Tracce di Luce (Edizioni CISAV, 2013) e i fumetti da collezione San Francesco d’Assisi e Frammenti d’Erbario (Altrimedia Edizioni, 2016, 2017); da circa dieci anni si interessa del naufragio del piroscafo Utopia, pubblicando articoli per quotidiani e riviste scientifiche e divulgative, recentemente ha pubblicato il libro L’Utopia tra le nebbie della memoria. Appunti di un naufragio, Marotta&Cafiero editori, Napoli 2024.

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