Occuparsi, oggi, delle tre religioni abramitiche, non può costituire un mero esercizio accademico, sulla scorta della Storia delle religioni e della Fenomenologia della religione come scienze che da più di un secolo hanno registrato un susseguirsi di discussioni, teorie, metodologie, in costante confronto con gli studi linguistici, filologici, antropologici, storici, sociologici, psicologici, filosofici, teologici, unitamente alla ricerca di sempre nuove prospettive metodologiche. Pur dovendo ritenersi essenziali tali componenti epistemologiche bisogna però aggiungere che deve prevalere, adesso, per le religioni, una impellente necessità storica nella loro considerazione ed una più ampia componente divulgativa della loro identità e relazione, in questa contingenza epocale che le vede inerti ed impotenti a risolvere il problema tra i più rilevanti e meno considerato della loro complessione teologica, quello della pace.
Mai come adesso che l’umanità sembra sospesa sull’orlo di un baratro è necessario delineare una cultura globale della pace, una politica che si fondi su una spiritualità della pace; e la spiritualità, che è la dimensione più nobile ma purtroppo la più trascurata dell’essere umano, solo le religioni allo stato puro possono curarla, le religioni nella loro fontale purezza, col ritorno all’atto della epifania aurorale della dimensione in-finita dell’antropo che le ha accolte; perché gli esseri umani sono non finiti, incompiuti, si trovano in un processo in divenire che li conduce ad essere ciò che ancora non sono, verso una meta che può coincidere con la scoperta thaumatica (il thauma che per Aristotele è la molla del pensiero filosofico) della propria nobile dignità, come già Eraclito aveva presagito:
«Attendono gli uomini, quando siano morti, cose che essi non sperano né suppongono» [1]
La meraviglia di scoprirsi, dopo il timore iniziale, «ad immagine e somiglianza di Dio» secondo l’assunto mitico della rivelazione biblica. Ed è forse giunto il tempo che mito e filosofia debbano tornare a congiungersi, dopo la più che bimillenaria separazione e che il pensiero mitico e quello razionale si configurino quali aspetti complementari della spiritualità umana; che religione e scienza tornino ad allearsi per costituire i due margini dell’unica via che conduce gli esseri umani verso la loro pienezza. Per il rapporto mythos-logos siamo debitori a Raimon Panikkar che lo ha sviscerato in tutte le sue sfumature per consentirci l’accesso al dialogo interculturale e interreligioso, a partire da una intuizione essenziale: che l’Essere e il Pensiero non coincidono. Con questa asserzione, Panikkar giunge a scardinare completamente le fondamenta della riflessione ontologica sviluppata dal pensiero occidentale; l’Essere o la Realtà è sì certamente pensabile, ma non tutta la Realtà possibile è intelligibile. Rimane sempre qualcosa di ineffabile che il pensiero non riesce a captare e da qui il ricorso al mythos che è una visione di ordine simbolico (ha parentela con la mistica) ed è inseparabile dallo spirito. Ma è anche inseparabile dal logos, perché
«i due si appartengono l’uno all’altro, ma non devono essere confusi. Quando per il potere del logos diveniamo consapevoli del nostro mythos, il mythos recede e si trasforma in un principio cosciente, un postulato pragmatico, un fondamento cui non possiamo trovare alcun altro fondamento – un Abgrund» [2].
Ed è alla luce di questi principi che si rende necessario approfondire in maniera interculturale lo statuto delle religioni e farlo in maniera dialogale e non ideologica; laddove l’ideologia si fonda sulla precomprensione, il pregiudizio, il sospetto, la paura, la violenza, il dialogo è ricerca sincera e disinteressata di un logos, di un senso che attraversa posizioni diverse e le affastella in unità simbolica che si costituisce pur nelle differenze. Il dialogo stesso si costituisce in attività religiosa nel senso più positivo del religare; impegno spirituale e performativo per il perfezionamento umano e quindi anche sui mezzi per raggiungerlo. Se la comunicazione umana ha un senso, se la religione e l’ateismo possono arrivare a un non pregiudizievole confronto, se le ideologie e le diverse concezioni del mondo si dispongono a dialogare tra loro in uno spirito di nobile e onesta emulazione, ciò non può avvenire senza l’inevitabile sforzo di parlare un linguaggio che sia loro reciprocamente comprensibile, e mettersi d’accordo sul problema che stanno trattando.
Accade che le critiche alla religione fatte dal di fuori siano molto simili a quelle fatte dal di dentro; si segue una comune scala di valori utilizzata per finalità diverse: la critica esterna è tesa ad eliminare la religione, mentre quella interna a purificarla. Accade perciò ai nostri giorni che un certo umanesimo ateo e un determinato cristianesimo occidentale si interessino alla soluzione degli stessi problemi, specie in campo etico (la questione ad esempio del fine vita); ci si accorge che le diverse prospettive da cui si focalizza il problema fanno parte del problema stesso che di fatto riguarda la condizione umana esistente e la ricerca del suo miglioramento, della sua “religiosa” compiutezza; e uso volutamente l’aggettivo “religioso” che in antropologia connota naturalmente l’essere umano: homo naturaliter religiosus, quand’anche la sua religione fosse l’ateismo.
Non è forse importante culturalmente, eticamente, religiosamente parlando il tema della pace? Non deve diventare, come mi sono chiesto retoricamente in un precedente saggio [3] il mito emergente del nostro tempo, l’unico simbolo positivo dell’umanità minacciata e mortificata financo nella speranza della sua stessa sopravvivenza? Un mito che parli a tutti, una narrazione a cui tutti devono essere interessati, una philosophia pacis che sorga dalle ceneri e dalle macerie che le ideologie e le religioni stesse nel corso della storia a noi conosciuta hanno provocato? E le religioni, in specie, non devono avvertire l’urgenza di rilevare come prioritario il tema vitale della pace, riflettere singolarmente ed insieme se il loro cammino diacronico abbia condotto i loro fedeli e l’umanità intera a quella condizione di pienezza di vita che caratterizza il più nobile desiderio umano? Un desiderio dal carattere prettamente religioso, dell’homo naturaliter religiosus, perché colmabile esclusivamente de-sidera, oltre ogni limitata capacità umana e che per le religioni ha Dio come fonte.
Devono interrogarsi, le religioni, se l’allontanamento da esse, l’ostracizzazione da parte di un mondo comunemente denominato “laico”, la ricerca di altre vie che reclamano con insistenza di essere sostitutive a quelle che esse, nel loro sviluppo diacronico, non sono state in grado di realizzare, non sia dovuto al tradimento della loro essenza che necessita di essere recuperata e riculturata, al fine di un loro nuovo inserimento dialogico nell’orbita dell’umano carente della dimensione spirituale e dimentico di quella divina. Un compito tanto più urgente nel drammatico momento attuale in cui le guerre in corso, specie quella sviluppatasi in Palestina, sembrano cariche di connotazioni religiose e confessionali tali da rendere odiosa la dimensione religiosa stessa, la religione percepita come fonte di intolleranza, di arroganza, di prevaricazione, di violenza. La domanda è se le religioni sono in grado non tanto di teorizzare la pace ma di tradurre le loro ortodossie in ortoprassi. Certo è più semplice applicarsi sul noema, come Panikkar chiama il ragionamento sulle credenze e sui riti della religione, mentre bisognerebbe far riferimento al pisteuma, all’universo mitico in cui si crede, con la ricchezza dei simboli da cui è abitato e che costituiscono il fondamento del noema stesso. Per un cristiano l’incarnazione non è un concetto (noema), ma un fatto storico concreto (pisteuma), così come per un musulmano il Corano non è solo un libro da leggere e capire (noema), ma la voce stessa di Allah (pisteuma) [4]. Il pisteuma come atto di fede è operativo e agisce nel mondo su ispirazione divina al fine di ricondurlo al bello, al buono, al vero del suo atto creativo.
Ci sono religioni che in virtù del loro pisteuma possono essere operatrici di pace? E ancora: le contrapposizioni teologiche interne ed esterne, talvolta cruente nel passato e nel presente, possono essere pacificamente risolte in una sintesi di superiore pacifico dialogo a partire dal rinvenimento di un elemento comune, di una comune radice di cui non si ha più consapevolezza, sepolta com’è sotto gli strati spessi delle concrezioni culturali e delle superfetazioni ideologiche che hanno inquinato la limpidezza della fede originaria?
Uno “splendido isolamento” non è più possibile oggi a nessuna religione, ideologia, cultura, tradizione; nessuna di esse può pretendere di esaurire la gamma universale dell’esperienza umana e l’anelito alla pienezza di vita. Tanto più che in un’epoca di compenetrazione globale di un numero sempre maggiore di spazi vitali dell’umanità nel campo della politica, dell’economia, della comunicazione, dell’ambiente, della cultura in genere, nessuna religione può vivere in uno stato di isolamento, per il semplice fatto che è innaturale e impossibile costringere i propri fedeli ad isolarsi dal mondo. La religione non è uno spazio chiuso; è solo uno dei temi che costituiscono una cultura. A tale proposito Raimon Panikkar scrive:
«Le varie religioni esistenti nel mondo non si incontrano più su un campo di battaglia, né solamente nel pensiero di alcuni studiosi – le diverse culture del mondo meno che mai rimangono isolate religiosamente e politicamente – ma si incontrano anche nei contatti personali, negli affari cittadini, nelle questioni nazionali, nelle necessità e urgenze delle relazioni internazionali» [5].
Non si può, inoltre, continuare ad ignorare i valori religiosi, morali, estetici coltivati da miliardi di persone e tutti afferenti al fenomeno religioso che comporta il credere in un messaggio e perseguire un itinerario di salvezza. Che questo poi lo si faccia nelle forme e nei modi più diversi nel globale panorama culturale del nostro pianeta non fa altro che confermare l’esistenza di un sistema di coordinate, fondato in maniera trascendente ed esplicantesi nell’immanenza, in base al quale l’antropo si orienta intellettualmente, emotivamente, esistenzialmente, alla ricerca di un senso onnicomprensivo della vita tutelato da valori supremi e norme incondizionate, nell’alveo di una comunità e nella sicurezza di una patria spirituale. Queste semplici, essenziali coordinate del fatto religioso, si sono sviluppate ramificandosi nell’albero immenso che ha prodotto i frutti variegati delle religioni, frutti dalle forme e sapori diversi, tanto che il concetto stesso di religione appare se non equivoco almeno analogico; comprende cioè qualcosa di simile e dissimile allo stesso tempo.
Per il nostro tema, anche il concetto di monoteismo può apparire equivoco, al punto che sia il mondo ebraico che quello musulmano non riconoscono al cristianesimo lo statuto di religione monoteista. Ci dobbiamo in ogni caso confrontare sulla relazione che intercorre tra queste tre religioni che da secoli interagiscono, positivamente e negativamente nel bacino del Mediterraneo e nel mondo, e che stando alle loro fonti sono riconducibili alla comune radice della mitica esperienza abramitica che annuncia gli albori del monoteismo. Le tre religioni in questione, nella poliedrica composizione interna alle loro forme istituzionali, non hanno avuto e non hanno sempre sufficiente consapevolezza dell’unitarietà di tale radice; né ciascuna, e tutte le diverse confessioni religiose che le dividono al loro interno e nella relazione con le altre, hanno mostrato interesse per tale tipo di indagine che può indebolire posizioni dogmatiche consolidate, tradizioni identitarie a connotazione etnica, posizioni che hanno condizionato non poco le politiche egemoni dei popoli dove si sono sviluppate in forme di governo politico di stampo teocratico e assolutistico. Tali forme hanno costituito e costituiscono ancora un ostacolo allo sviluppo di assetti democratici e della libertà per cui i popoli hanno dovuto e devono ancora lottare, col risultato delle guerre che da sempre insanguinano la storia dell’umanità.
Personalmente ritengo che la concezione teocratica zarista della Russia putiniana, ad esempio, sia analoga al messianismo sionista dello Stato di Israele, con l’identico risultato del sangue che soffoca il diritto e la giustizia dei popoli vittime di quella visione del potere. Forma analoga di regime teocratico si registra nell’islam sciita iraniano e nel regime talebano instauratosi in Afghanistan, così come si è registrato nell’universo cristiano medioevale, nella lotta tra teocrazia papale occidentale e cesaropapismo orientale, fino alle forme più moderne dell’imperialismo americano e del comunismo capitalista cinese. Bellum omnium contra omnes sembra essere il motto che connota l’esperienza storica dell’umanità, ancora al presente. Bisogna considerarlo un dato ineluttabile, per cui è inutile ribellarsi, o c’è una via d’uscita? Le tre nostre religioni abramitiche e le forme politiche che ad esse si ispirano più o meno esplicitamente, hanno una soluzione nascosta sotto le lunghe trame belliche tessute nell’arco di almeno tremila anni o devono continuare a combattere guerre in nome di Dio?
Tutto ciò è compatibile con la radice abramitica? Con la rivelazione e le scritture che i figli di Abramo hanno ricevuto? Tanakh ebraica, Vangeli e scritti neotestamentari cristiani, Corano, hanno a loro fondamento una radice maligna che ha provocato immani disastri all’umanità o le forme religiose che a loro si sono riferite e ispirate hanno frainteso e manipolato l’orientamento verso il bene, la giustizia, la pace che l’unico Dio andava proponendo all’umanità? Nella maggior parte degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è certamente diffusa l’opinione che la loro religione sia sempre stata la stessa, che essa non abbia attraversato in sostanza nessuna grande trasformazione e se qualcuna ce n’è stata è da attribuire a gruppi di rinnegati, di ribelli, di eretici che sono stati combattuti e annientati anche con la violenza.
Normalmente si crede che per lo più ci sia stato uno sviluppo organico della religione, anche se è difficile precisare a partire da che cosa, a partire da quale fondamento. Ed ogni religione può ritenere di trovare o può aver trovato il suo fondamento in un tratto del suo sviluppo storico, anche inorganico ma funzionale alla propria affermazione storica; quel tratto che si ritiene abbia dato maggior lustro alla religione e ne abbia affermato il potere e la supremazia. Nascono così i fondamentalismi, come baluardi religiosi difficili da abbattere perché eretti in nome di Dio e della sua gloria in terra che la religione garantisce; le guerre più cruente si sono combattute mentre ciascuno dei contendenti riteneva di avere Dio dalla sua parte, la divinità che si manifestava nella propria religione. «Dio lo vuole! Gott mit uns! In God we trust!» sono motti che hanno attraversato la storia diffondendo la retorica religiosa e causando disastri antropologici immani.
Nel 1991, nel licenziare il primo tomo sull’Ebraismo della trilogia sulle Religioni abramitiche, Hans Küng poneva in esergo alla sua opera tre epigrammi lapidari, conscio del fatto che non può esserci una religione unitaria, una super religione. Infatti non si può mai ribadire abbastanza che:
Non c’è pace tra le nazioni
senza pace tra le religioni.
Non c’è pace tra le religioni
senza dialogo tra le religioni.
Non c’è dialogo tra le religioni
senza una ricerca sui fondamenti delle religioni [6].
Nella prefazione all’edizione italiana Küng affermava di aver scritto il libro in un momento particolarmente drammatico per la storia del popolo di Israele rappresentato dalla guerra del Golfo che aveva messo in luce la radice profonda dell’inimicizia che da secoli segna il destino dei popoli che abitano quella terra contesa del vicino Oriente. Per questo offriva, con il libro, «frutto di molto studio ma anche di molti incontri con molti amici ebrei» un percorso di dialogo possibile e concreto, «ripercorrendo la storia di questo popolo con il suo Dio, il Dio di Israele, il Dio della Bibbia, ma anche lo stesso Dio dei cristiani e dei musulmani». Lo rallegrava il fatto che da alcuni mesi erano in corso le trattative per una comprensione reciproca tra il popolo di Israele e il popolo della Palestina, ricordando che l’ebraismo è «una religione plurimillenaria e mondiale ed ha un messaggio per il futuro di tutti gli uomini: Dio ha stretto un’alleanza con gli uomini, si è preso cura del loro destino, li ha liberati dalla schiavitù e ha donato loro qualcosa di grande: la pace» [7].
Qualche anno prima, nel 1984, Abba Eban, il celebre statista, diplomatico e storico israeliano, nel pubblicare il suo libro, Eredità. Gli ebrei e la civiltà occidentale, sembrava mostrare la stessa visione ottimistica e propositiva di Küng. In maniera del tutto obiettiva e senza enfasi di parte, dopo aver percorso la storia travagliata del popolo di Israele, Eban descrive anche la storia che l’Occidente ha cercato di esorcizzare, quella cioè delle inculturazioni di questo popolo in diaspora che ha seminato in Europa il credo in un unico Dio, il libero arbitrio dell’uomo, la sua responsabilità di fronte a se stesso e a una giustizia superiore; in breve uno spaccato dei momenti fondamentali della coscienza dell’Occidente. Nell’ultima pagina scrive:
«Ora, prossimi come siamo alla fine del XX secolo, è difficile dire quale sarà il futuro degli ebrei: non ci sono certezze di fronte a noi. Ma un popolo che immette il proprio passato nel proprio futuro con tanta fedeltà alla memoria, dopo tante sofferenze e con tanta vitalità creativa, non rinuncerà facilmente a piantare il proprio seme in civiltà future, raccogliendo la propria parte della messe comune» [8].
Purtroppo questa visione larga della «messe comune» è rimasta un sogno di Abba Eban, niente più che un ragionevole auspicio, come quello di Küng. Ciò che di comune attualmente Israele può raccogliere è guerra e morte. A partire da una visione religiosa ben precisa che viene sviscerata con molta chiarezza, quarant’anni dopo Abba Eban, nel recentissimo libro di Raniero La Valle, Gaza delle genti. Israele contro Israele [9]. Nel capitolo dedicato al “messianismo” che per lui costituisce l’aspetto meno studiato della crisi attuale, Raniero La Valle riporta la spiegazione della nascita dello Stato di Israele che gli studenti stranieri di ebraico si sono sentiti dare dal direttore sionista della scuola di Gerusalemme: «Il Messia non è venuto, e allora siamo venuti noi» [10]. Una posizione più marcata di tale concezione è stata espressa dal generale Effi Eitam in una intervista a Le Monde:
«La specificità del popolo ebreo è che noi crediamo all’esistenza del Signore del mondo. Anche i cristiani e i musulmani ci credono, ma loro non formano un popolo. Noi sì. È la nostra particolarità. Noi siamo i soli al mondo a intrattenere un dialogo con Dio in quanto popolo. Il nostro Stato ha un messaggio da trasmettere al mondo, una missione: ricordare l’esistenza di Dio all’umanità […]. La sola ragione d’essere di Israele è di essere uno Stato realmente ebraico» [11].
Riporto queste sconcertanti affermazioni non per infierire in questo tragico momento sullo Stato di Israele o per denigrare il popolo ebraico in diaspora nel mondo; in altra occasione si sarebbero potuti portare esempi tratti dal mondo cristiano o da quello islamico; esempi di integrismo, di chiusura fondamentalista che rappresentano una palese distorsione della religione di riferimento che denota fanatismo miope e senza uscite. Una proiezione del noema sul pisteuma. E quando sul giornale Haaretz lo stesso generale scriveva:
«Israele è lo Stato di Dio […] Lo Stato di Israele è l’Arca di Noè per il futuro del mondo e il suo compito è rivelare l’immagine di Dio» [12],
lo diceva non per la salvezza del mondo ma per decantare la potenza dello Stato di Israele.
Adesso che le tre religioni sono state chiamate in causa e una di esse ha proclamato teologicamente e culturalmente la supremazia sulle altre due, ci possiamo chiedere se tale atteggiamento non sia stato e non sia comune a tutte e tre. Allora è importante che esse prendano coscienza del loro essere nella storia e scavino a fondo per rintracciare quella radice che le ha originate; e si tratta di uno studio comune, di tipo comparativo e dialogico, che comporta, dunque, una conoscenza profonda non solo della propria tradizione ma anche dell’altrui.
Valgano, queste notazioni, come preliminari indicazioni di orientamento metodologico per affrontare il nostro tema, mentre dobbiamo convincerci che, come ribadisce Raimon Panikkar:
«La forza operante nell’odierno incontro delle religioni si trovi nella tensione interna tra unità e diversità e che questa polarità sia di stimolo a un vitale dinamismo storico: la crescita esistenziale della religione verso il conseguimento della sua pienezza. La consapevolezza di tale fatto è di capitale importanza, poiché gli esseri umani, in possesso della loro libertà, possono benissimo ostacolare, distorcere il corso della storia. Gli errori si trovano ai due estremi; l’uno è quello dell’uniformismo, del singolarismo, della ristrettezza mentale, con i conseguenti pericoli di fanatismo e intolleranza; l’altro è costituito dall’eclettismo, dalla confusione, dall’inefficacia, con le tentazioni che comporta di irrealismo, irreligiosità, indifferentismo e morte spirituale» [13].
Troveremo tali dinamiche sottese alla nostra analisi!
Che la religione di Israele sia all’origine delle altre due e che anche un “certo cristianesimo” sia stato fonte di ispirazione della religione coranica non lo si può mettere in dubbio. Ma qual è l’autentica religione di Israele? Dove essa trova la sua sorgente originaria? Gli studi biblici ci fanno percorrere, attraverso gli strati redazionali del Pentateuco, la travagliata storia del monoteismo che non coincide d’emblée con il periodo patriarcale, ma ha un percorso molto complesso che giunge fino all’epoca della monarchia e al suo crollo. I riferimenti storici della saga familiare di Abramo, di quello che si chiama il “periodo patriarcale” (2000-1700 a. C,) sono molto fluidi anche se corrispondono al modello sociologico del Vicino Oriente agli inizi del II millennio a. C.
La saga mitica propone personaggi emblematici chiave, come Isacco e Ismaele, figli di Abramo che assumeranno ruoli e valore diversi nella tradizione giudaico-cristiana e in quella islamica; Giacobbe chiamato anche Israele che diventa una specie di capostipite del popolo Ebraico che assumerà il suo nome; e Giuseppe, personaggio di raccordo con l’evento successivo dell’esodo dall’Egitto le cui coordinate storiche sono difficili da rintracciare ma dal valore eziologico fondamentale perché lì si vede nascere da un pugno di tribù un popolo con la peculiare caratteristica del legame cultuale con il Dio unico e vero. Il mythos li propone come simboli posti lungo il cammino del travaglio spirituale del monoteismo biblico e della storia salvifica in cui ciascuno può riconoscersi nel proprio travaglio individuale e collettivo.
Non si hanno dati storici certi su questa iniziale fase storica che Israele rielaborerà secoli dopo con finalità più teologiche che storiografiche, soprattutto dopo il ritorno in patria dall’esilio babilonese nel 538 (editto di Ciro) quando con la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme (520-515 a. C.) si costituirà in uno Stato piuttosto chiuso ed integralista dominato dalla casta sacerdotale. Nascerà con ciò il cosiddetto “giudaismo” che consoliderà le sue caratteristiche di fondo fino alle soglie dell’era cristiana e dopo la distruzione del secondo tempio (70 d. C.) e la diaspora definitiva degli ebrei dalla Palestina (135 d. C,) diventerà fonte di ispirazione “ortodossa” di ciò che ai nostri giorni si chiama “sionismo” [14]. Un periodo importante da considerare per la nostra prospettiva del ritrovamento della radice comune, perché è il “giudaismo” che cristianesimo e islam incroceranno e interpreteranno con ermeneutiche diverse, essendo esso stesso un’ermeneutica della religione ebraica dei padri.
Artefici putativi del mutamento di paradigma che si verifica col “giudaismo” furono Esdra e Neemia, titolari dei due libri biblici omonimi che configurano il giudaismo come fenomeno culturale, politico e teologico e come punto di arrivo di un monoteismo che si era individuato lentamente nel corso dei secoli, dalla esperienza abramitica quale presagio fenomenologico del fatto religioso di una certa coscienza del divino, ad una formulazione istituzionale legalistica precisa e dettagliata in ogni sua componente; Israele si percepirà come una comunità religiosa che Dio stesso si è scelto perché lo serva mediante il culto del tempio e l’osservanza della legge. Il sommo sacerdote e una gerarchia templare fungeranno da rappresentanti di Dio e suoi mediatori; la Torà sarà la volontà di Dio divenuta scrittura e d’ora in avanti si avrà a che fare con una teocrazia, una ierocrazia, una nomocrazia [15].
Ho descritto più nel dettaglio tale processo in un precedente studio, La terra di Israele, Una divisione originaria [16] al quale rimando; ma Gianfranco Ravasi ha definito in maniera lapidaria questa condizione postesilica come un «”no” integralista a tutto ciò che è diverso e straniero […] una specie di auto-sequestro che produrrà all’interno ripulse violente dell’ebraismo, come la successiva fama di “odium generis umani”. Si comprenderà anche la reazione di Gesù a certe norme di purità giudaiche e quella di Paolo secondo cui in Cristo “non c’è più né giudeo né greco” (Gal 3,28) essendo stato abolito “il muro di separazione” (cf. Ef 2, 14-18)» [17]. Con ciò si può affermare come costante antropologica che teocrazia, ierocrazia, nomocrazia, si sono mantenute sotto forme diverse, ma nell’identica sostanza, nelle tre religioni in oggetto e impediscono tutt’oggi la chiara visione della loro origine? Non è da dimostrare il ripiegamento delle tre religioni su se stesse.
Martin Noth, nel trattare l’origine del “giudaismo”, descrive il procedimento di inquinamento delle fonti letterarie della Scrittura mettendo in luce l’espediente attraverso il quale la casta sacerdotale postesilica che «si considerava discendente della stirpe sadochita dell’epoca davidica» fece «risalire la propria origine ad Aronne, fratello di Mosè, che in questo periodo divenne una figura di grande rilievo nella tradizione» [18]. Per detenere un potere politico-religioso assoluto si immise il presente nel passato, per dare una autorevole legittimazione storica al presente come punto d’arrivo di una tradizione millenaria. E probabilmente senza malevola intenzione. Lo scopo era quello di dare consistenza storica al monoteismo ebraico creando artificiosamente una “tradizione”; consistenza che nel corso dei secoli non aveva mai avuto completamente. Josef Schreiner, nell’esaminare gli aspetti letterari della questione, afferma che «il sacerdozio nel tempo antico non aveva svolto un ruolo così importante» mentre adesso «si era appropriato del potere delle altre cariche» [19] ossia di quello regale e di quello profetico. Tutta la narrazione biblica ci mostra che per l’affermazione di tale potere si dovette lottare non poco, anche manomettendo le fonti letterarie e mettendo in atto la tendenza a restringere la dottrina dell’elezione: dal mondo intero, ad Abramo e alla sua famiglia, ad Aronne e ai suoi discendenti.
Nella Bibbia, inoltre, c’è un importante accenno al ritrovamento avvenuto nel tempio di Gerusalemme, durante il regno di Giosia re di Giuda (639-609 a. C.), di un «libro della legge» (cf. 2 Re 22-23); ritrovamento che secondo il testo ebbe grande risonanza nel popolo e che fu seguito da una reviviscenza religiosa nel regno di Giuda. Se da un lato l’evento narrato può indicare l’esistenza più antica di materiali scritti relativi ad un patto di alleanza con il Signore, un «mito di fondazione» deuteronomista che registra un cambiamento importante nella storia della cultualità ebraica, dall’altro il tema del “ritrovamento” è considerato dagli studiosi della storia delle redazioni come un espediente aggiunto nel periodo postesilico per legittimare le importanti riforme messe in atto dal giudaismo incipiente che trasformò il culto «sempre più in un meticoloso adempimento delle disposizioni vigenti […] e perse in tal modo parte di quella spontaneità del “rallegrarsi davanti al Signore” di cui la legge deuteronomica aveva ancora parlato in termini stereotipati». Esdra mise invece in vigore «la Legge del Dio del cielo» che trasformò la religione ebraica in rigida istituzione giudaica e «il Pentateuco non solo ricevette la sua forma definitiva ma divenne anche un libro sacro vincolante per l’intera comunità religiosa di Gerusalemme». Più tardi fu denominato semplicemente «la Legge» [20]. Tutto il procedimento mostra come il noema, che lentamente ha assunto aspetti ideologici, ha influenzato il pisteuma, occultando e falsificando i dati originari della religione.
L’ampia parabola del monoteismo si sviluppa dunque dalla preistoria abramitica che descrive Abramo come un “enoteista”, uno che cioè presupponeva l’esistenza di più dèi, ma riconosceva come autorità suprema e vincolante soltanto l’unico Dio, il suo Dio. Oggi gli esegeti sono concordi nel sostenere che questo Dio assunse le caratteristiche del Dio cananeo El, un Dio personale e insieme cosmico; fu denominato anche El Shaddaj, Dio altissimo, di cui Melchisedech re di Salem era sacerdote (Gen 14, 18-20); a lui Abramo si sottomette, in maniera inspiegabile, pagandogli la decima e ricevendone la benedizione. Un episodio importante per la nostra ricerca di cui sono stati sottolineati solo aspetti di ordine spirituale e non quello di fondamento antropologico e teologico per le origini del monoteismo. Questa identità ancestrale della divinità non deve dunque essere letta in chiave negativa, perché mette in luce il carattere universale dell’eredità abramitica nella sua valenza di purezza cultuale, tant’è che il Nuovo testamento riconosce il sommo sacerdozio di Cristo secondo «l’ordine di Melchisedech» e non secondo l’ordine istituzionale del sacerdozio levitico del giudaismo postesilico che risulta inferiore e di nessun valore rispetto a quello. Tuttavia da questa verità teologica il cristianesimo non ha tratto le debite conseguenze ed essa resta sospesa in qualità di teologumeno mentre la strutturazione del sacerdozio cristiano ha ri-assunto la forma levitica con le sue connotazioni di potere. Ma questo è un altro discorso che il cristianesimo, o forse meglio il cattolicesimo, prima o poi dovrà affrontare, ascrivendolo alla storia dei travisamenti e del prevalere, ancora, del noema sul pisteuma. Ciò che però il fenomeno “emulativo” mette in evidenza è senz’altro lo stretto legame tra giudaismo e cristianesimo.
Dunque, Mechisedech, questa meteora genesiaca, come simbolo di identità religiosa, è sacerdote del «Testamento cosmico», cioè della rivelazione primordiale che Dio aveva fatto all’umanità prima della dispersione dei popoli, e dunque prima dell’elezione in Abramo del popolo ebraico. Per questo Abramo lo riconosce superiore a sé e gli paga la decima, e la benedizione che egli riceve è un’investitura che lo consacra simultaneamente Re e Sacerdote. Lo si vedrà nel Salmo 109, dove Davide, con simbologia messianica, riceve l’investitura regale («i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi») e sacerdotale «secondo l’ordine di Melchisedech». Il re Davide, della tribù di Giuda, manteneva infatti funzioni sacerdotali proprie e basilari benché il sacerdozio venisse legittimamente esercitato dalla tribù di Levi.
La Lettera agli Ebrei, spiegando l’esclusivo Sommo sacerdozio di Cristo (che è della tribù di Giuda) lo proclamerà «secondo l’ordine di Melchisedech» (cf. Ebr 7), cioè ricollegandolo alla rivelazione primordiale e sancendo la discontinuità col sacerdozio levitico. Abramo, con l’investitura di Melchisedech, diventa come lui Re di Pace, ma anche di Giustizia che egli esercita liberando i prigionieri e restituendo i beni confiscati agli avversari; ristabilendo così l’ordine archetipo che la violenza aveva perturbato. Il sacrificio offerto da Melchisedech, d’altra parte, non fu cruento, ma di «pane e vino», una offerta di carità che rifocillò le truppe stanche del condottiero Abramo. La tradizione cristiana vi legge l’archetipo dell’eucaristia. Di questo monoteismo, fontale e limpido, Abramo è portatore; nell’incontro con Melchisedech si invera e si chiarisce la sua fede intuitiva che gli viene «accreditata come giustizia» (cf. Gen 15,6). Il mythos ci conduce qui all’atto fontale del monoteismo abramitico, il pisteuma fondante della religiosità dell’ebraismo pre-esilico che non può essere cancellato e deve essere tenuto nella giusta considerazione per il dialogo delle tre religioni che comunque ad Abramo si rifanno pur dando alla rivelazione abramitica significati differenti ma non contraddittori.
La tradizione ebraica ha attribuito ad Abramo un’importanza sempre maggiore, facendo di lui il servo e l’amico di Dio, mentre nel tardo giudaismo la sua vita viene costellata di miracoli e leggende, individuando la sua presunta tomba in Hebron, oggi in territorio arabo-palestinese-musulmano. Il Talmud poi gli attribuisce l’osservanza esemplare della Toràh prima che questa fosse stata scritta. Essere figli di Abramo viene adesso considerato privilegio esclusivo degli israeliti, mentre l’orizzonte universale originario del suo essere «padre di molti popoli» (Gen 17, 3-8) e fonte di benedizione di «tutte le generazioni della terra» (Gen 12, 1-3) è stato messo in ombra dall’elezione esclusiva del popolo di Israele. Ciò nonostante, molte scuole rabbiniche ammettono che l’eredità abramitica non è carnale ma di natura spirituale, e si fonda sulla fede. Questa è anche l’interpretazione cristiana: nella predicazione del Battista la discendenza fisica da Abramo non viene più considerata una garanzia di salvezza che è legata piuttosto alla metanoia. Dio può far sorgere figli di Abramo dalle stesse pietre (cf. Mt 3,9); nel banchetto escatologico molti pagani siederanno a tavola con lui, Isacco e Giacobbe, mentre molti israeliti resteranno esclusi (cf. Mt 8,11s.). Ciò che è importante per il cristianesimo è far fruttificare l’eredità spirituale di Abramo che per l’apostolo Paolo consiste non nella giustificazione mediante le opere della legge, ma mediante la sua fede incondizionata (cf. Rm 4, 1-25). I cristiani chiamano così Abramo «nostro padre nella fede».
L’ermeneutica islamica, dal suo canto, fa di Abramo il primo musulmano. Nel Corano Ibrahim, dopo Mosè, è la figura biblica maggiormente citata, e vi compaiono sorprendenti paralleli con descrizioni di Abramo bibliche ed anche rabbiniche. In questa sede non possiamo approfondire il tema dell’ispirazione coranica dalle fonti del giudeo-cristianesimo giunto in Arabia dopo la distruzione del Tempio del 70 e l’espulsione degli ebrei dalla Palestina nel 135, e dei sei secoli di cristianesimo arabo di impronta monofisita. D’altra parte, è un campo di ricerca per nulla concluso e sarebbe bello poterlo affrontare in prospettiva trialogica. Allo stato attuale sembra evidente che fu l’affermazione del cristianesimo ellenistico, con la cavillosità teologica del suo elemento greco che fece nascere l’islam con un teismo più forte e radicale col quale si confermava una fede semitica che secondo l’islam nascente era stata travisata e tradita dalla teologia cristiana [21]. Nel Corano Abramo compare soprattutto come il campione della lotta all’idolatria di suo padre e della sua gente, rivelandosi così come grande profeta. Nelle sure di Medina compare poi il figlio Ismaele, padre degli Arabi, che sostenne Abramo nello sforzo di trasformare la Ka’aba della Mecca in un luogo di pura adorazione monoteistica. L’incondizionata sottomissione di Abramo alla volontà di Dio avrebbe fatto di lui il primo musulmano, essendo vissuto prima della Torà, del Vangelo e non essendo né ebreo né cristiano. Tutto ciò per i musulmani evidenzia la maggior antichità e legittimità della loro fede monoteistica [22].
È chiaro che tutto ciò mette in evidenza che il dialogo tra le tre religioni prospetta una serie vastissima di interrogativi complessi, che possono essere sciolti con molta pazienza e un impegno di studio non indifferenti, soprattutto se consideriamo il notevole sviluppo storico delle tre religioni nelle loro teologie e nelle loro tradizioni, così come abbiamo constatato con la nascita del giudaismo. Lo stesso accade nella tradizione cristiana divisa in diverse confessioni e nell’islam che non è per nulla monolitico. Più che davanti a religioni siamo davanti a costellazioni religiose. Ma credo sia possibile intravedere quell’unica radice di cui ci occupiamo, ancora viva e vegeta nella tradizione profetica che esplode lussureggiante in forma di inno nel Secondo Isaia che nel secolo VI a. C., come il profeta Ezechiele, opera tra gli esiliati di Babilonia annunciandovi l’unico Dio, Jahvè, come salvezza di tutti i popoli, oltre al quale «non c’è nessun Dio giusto e salvatore» (Is 45,21).
È nel profetismo che è stato custodito l’orizzonte universale della fede israelitica ipostatizzata in Abramo, figura che introduce alla storia di Israele ma che ad un tempo si ricollega, sin dall’inizio, con la preistoria e con la storia universale dell’umanità. Ciò che la Genesi descrive nella primissima alleanza che Jahvè concluse con Noè; alleanza stipulata con l’umanità intera, anzi con l’intera creazione e il cui simbolo non fu la circoncisione, marchio di appartenenza impresso nella carne, ma l’arcobaleno, immagine di apertura cosmica, di legame tra cielo e terra. Nella formula dell’alleanza con Noè (Gen 9, 9-11) Dio si rivolge all’umanità intera rappresentata dai suoi tre figli facendo una premessa preliminare all’alleanza stessa, che può essere definita come l’ethos primordiale e fondamentale dell’umanità:
«Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso perché a immagine di Dio è stato fatto l’uomo» (Gen 9, 5-6).
Mi sembra, questo, un corollario previo dell’eredità abramitica che le tre religioni sono chiamate a considerare con «timore e tremore», per usare un’espressione cara a Søren Kierkegaard che citava un versetto della Seconda Corinzi (7, 15) per fare le sue considerazioni sul rapporto fede-etica. Non risiede forse in quest’angolo mitico della rivelazione biblica, che descrive per emblemi il principio etico fondamentale dell’umanità, cioè il rispetto della vita e la riprovazione del fratricidio (che comprende l’episodio di Caino), la radice che noi cerchiamo e il cui rinvenimento comporta il timore di Dio accompagnato dal tremore del cuore e della mano che brandisce l’arma per uccidere l’essere umano? Qualunque sia culturalmente la forma di quest’arma che paradossalmente può assumere anche quella della legge; legge che il noema può pretendere di far risalire ad un comando divino che Dio però, in verità, non ha mai pronunciato!
Il principio etico fondamentale di non alzare la mano contro un altro essere umano si recepisce ulteriormente nell’episodio del mancato “sacrificio di Isacco” (Gen 22, 1-18). Lì si registra antropologicamente l’inizio della fine dei sacrifici umani che le religioni dell’epoca praticavano normalmente. Nonostante le interpretazioni del testo pongano l’accento sull’obbedienza di Abramo, sulla sua sottomissione a Dio e alla sua fede, l’episodio assume un carattere tipologico se letto nell’ottica degli studi di René Girard sulla rottura del cerchio sacrificale compiuta dalla rivelazione giudaico-cristiana. Per Girard questo lungo processo culturale si conclude col cristianesimo che egli considera come principio di destrutturazione di tutti i culti arcaici. Per Girard il cristianesimo non è neanche una religione in senso stretto, anche se ha dovuto vestirsi da religione istituzionale per entrare in dialogo con la storicità di altri credo religiosi.
L’opera di Girard ha messo in evidenza il nesso tra religione e violenza, oggi così tristemente tornato in auge; ma non per dire che le religioni sono intrinsecamente violente, ma perché le religioni sono un sapere sulla violenza degli uomini. Il Vangelo, per il cristiano Girard, non è che la chiave ermeneutica che permette di rileggere sia la mitologia sia le antiche Scritture, per una progressiva presa di coscienza della matrice violenta dell’ordine culturale, per cui il cristianesimo con la morte di Cristo, con l’omicidio dell’innocente, rappresenta il momento in cui l’uomo si libera dalla necessità di ricorrere ai “capri espiatori” per risolvere i conflitti interni alla comunità umana.
Se la rivelazione giudaico-cristiana ha posto la vittima innocente davanti al processo discorsivo culturale è forse perché tende a liberarsi dai vincoli religiosi confessionali che impediscono di mettere sullo stesso piano le vittime della Shoah con le vittime della Striscia di Gaza, quelle delle guerre sconosciute e quelle conosciute del capitalismo, quelle delle persecuzioni politiche e quelle delle discriminazioni sessuali, delle discriminazioni razziali e del disastro ecologico [23]. Dobbiamo chiederci: possono il giudaismo e l’islam contemporanei condividere queste riflessioni che si pongono come salutari prospettive di principio per la sopravvivenza dell’umanità? Anche se non credono alla messianicità di Gesù di Nazareth e alla sua morte sacrificale, possono almeno convenire che la narrazione cristiana della sua morte ingiusta ha messo in luce e smascherato la logica perversa della «violenza vittimaria» che ancora oggi provoca la morte di vittime innocenti? Stando il fatto che il cristianesimo trova nell’episodio biblico del mancato sacrificio di Isacco (o di Ismaele secondo una lettura islamica) il “tipo” di una nuova cultura religiosa che non tollera e non consente violenza e morte; e questo per un principio veramente sancito da Dio.
Un principio che è stato ribadito con forza in Israele dal profetismo, nei momenti di forte crisi delle due monarchie e fino alla deportazione in Babilonia. Con la nascita e l’instaurazione del giudaismo, però, la profezia si estingue; si assiste ad un cambiamento religioso-culturale radicale, con una polarizzazione sulla legge che doveva garantire l’unità di fede e di azione e che invece scade nel legalismo. A causa dell’eccessiva e quasi idolatrica importanza attribuita al tempio considerato luogo della presenza di Dio, si instaura un formale e complicato ritualismo, e col crescere del potere sacerdotale sia religioso che politico si crea una casta clericale separata dal popolo e carica di connotazioni sacrali autoritarie. Vivendo in regime di autarchia si estingue l’anelito universalistico predicato dai profeti nelle epoche precedenti, con particolare riferimento al diritto e alla giustizia per tutte le nazioni. Dopo l’esilio, col giudaismo, non c’è più profetismo come contrappeso dell’istituzione, come istanza critica al potere [24].
I profeti, parlando a nome di Dio, avevano svolto il ruolo di contestatori sociali, di coscienza critica dell’istituzione regale, della classe politica che vessava il popolo con tasse e obbligatorietà di servizi onerosi, col risultato del divario sempre più ampio tra poveri e ricchi, tra il nord e il sud del paese diviso, dopo Salomone, in due regni in lotta tra loro e travolti successivamente dalle macchine belliche degli assiri e dei babilonesi. Il politeismo era prevalente nella coscienza religiosa delle masse, paragonabile al laicismo della nostra attuale cultura. Così i profeti si distaccarono anche dal culto che scadeva nella superstizione e nei riti di una religione senz’anima e, in nome di Dio, insistettero sulla dimensione morale della fede, su un culto spirituale. Amos, umile pecoraio chiamato a profetizzare nel regno del nord a ridosso della conquista assira, parla di un Dio che detesta i rituali e prospetta la dimensione etica del culto:
«Io detesto, respingo le vostre feste solenni
e non gradisco le vostre riunioni sacre;
anche se voi mi offrite olocausti,
io non gradisco le vostre offerte,
e le vittime grasse come pacificazione
io non le guardo.
Lontano da me il frastuono dei vostri canti:
il suono delle vostre arpe non posso sentirlo!
Piuttosto come le acque scorra il diritto
e la giustizia come un torrente perenne» (Am 5, 21-24).
La sottolineatura del “diritto” e della “giustizia” come componenti essenziali della dimensione etica del culto voluto da Dio, attraversano tutta la tradizione profetica. Per Osea, forse contemporaneo di Amos, è l’amore che conta e non i sacrifici templari; nell’amore si sperimenta la conoscenza di Dio e non negli olocausti (Os 6,6).
Ecco ciò che dice Isaia, profeta del regno di Giuda testimone della caduta di Samaria ad opera degli assiri:
«Anche se moltiplicaste le preghiere,
io non ascolterei:
le vostre mani grondano sangue.
Lavatevi, purificatevi,
allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni.
Cessate di fare il male,
imparate a fare il bene,
cercate la giustizia,
soccorrete l’oppresso,
rendete giustizia all’orfano,
difendete la causa della vedova» (Is 1, 15-17).
E ancora Michea, contemporaneo di Isaia:
«Gradirà il Signore
migliaia di montoni
e torrenti di olio a miriadi?
Gli offrirò forse il mio primogenito
per la mia colpa,
il frutto delle mie viscere
per il mio peccato?
Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono
e ciò che richiede il Signore da te:
praticare la giustizia,
amare la bontà,
camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6, 7-8).
Da allora i più aspri rimproveri dei profeti avrebbero sferzato la classe politica, deprecando la corruzione sociale e invocando terribili punizioni sui capi del popolo:
«Udite questo, dunque,
capi della casa di Giacobbe,
governanti della casa d’Israele,
che aborrite la giustizia
e storcete quanto è retto,
che costruite Sion sul sangue
e Gerusalemme con il sopruso;
i suoi capi giudicano in vista dei regali,
i suoi sacerdoti insegnano per lucro,
i suoi profeti danno oracoli per denaro.
Osano appoggiarsi al Signore dicendo:
“Non è forse il Signore in mezzo a noi?
Non ci coglierà alcun male”.
Perciò, per causa vostra,
Sion sarà arata come un campo
e Gerusalemme diverrà un mucchio di rovine,
il monte del tempio un’altura boscosa» (Mi 3, 9-12).
Ma la profezia non fu ascoltata. I profeti furono derisi. Come Geremia che assistette nel 586 a. C. al sacco di Gerusalemme e alla distruzione del tempio da parte dei babilonesi; dice che il suo parlare era proclamare “violenza e oppressione!” (Ger 20, 8). La sua missione profetica era un calvario cui non poteva sottrarsi per la fedeltà al suo Dio.
Nel secondo Isaia vengono pronunciate parole di consolazione ed esortazione per gli esiliati, ma il ritornello insiste sulla giustizia:
«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e ti ho stabilito
come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42, 6-7).
Si ha qui l’esordio di un universalismo profetico, nel senso che i profeti non parlano più soltanto ai figli di Israele; la loro predicazione sarebbe stata indirizzata a tutti i popoli della terra, come un messaggio universale. E le nazioni, proclamava Isaia, avrebbero finalmente imparato a vivere in pace tra loro festeggiando l’evento con un grande banchetto:
«Preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre che copriva tutte le genti.
E si dirà in quel giorno: “Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse;
questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza”» (Is 25, 6-10).
L’eredità più preziosa trasmessaci dall’ebraismo è quella della letteratura profetica, caratterizzata da originalità, grandezza visionaria e forza di linguaggio, producendo anche la più rivoluzionaria tra le idee profetiche, quella messianica: verrà un giorno in cui i conflitti e le angosce dell’umanità cederanno il posto, per merito della grazia divina, a un’era di pace e armonia perfette. Il testo di Geremia non è che una variazione sul tema della giustizia:
«In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia» (Ger 33, 15-16).
Guardando cioè a Gerusalemme si potrà vedere in essa la stessa giustizia del Signore.
Rileviamo dunque la costante del diritto, della giustizia, della pace nella rivelazione profetica. Dove è finita tale eredità nel deposito di fede delle tre religioni abramitiche? Possiamo dunque dedurne che non sono ancora giunti i tempi messianici? Se, secondo il monito di Isaia «l’opera della giustizia è la pace» (Is 32, 17), il tempo messianico è un tempo escatologico e utopico? Si realizzerà davvero che «un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo» e i popoli «non si eserciteranno più nell’arte della guerra»? (Is 2,4).
L’oggetto del nostro studio sul dialogo interreligioso che approfondisca questo tema della “radice unitaria” delle tre religioni abramitiche, a partire dalla breve panoramica che abbiamo fornito, dovrebbe assumere, per le tre confessioni anzitutto carattere intrareligioso. Giudaismo, cristianesimo e islam dovrebbero portare alla loro coscienza storica attuale quanto della rivelazione abramitica, polarizzatasi poi in quella profetica, ha inciso sulla loro prassi religiosa. Tale rivelazione si è focalizzata sulla verità della giustizia e della pace come doni di Dio all’umanità intera, strumenti per un felice esito della vita secondo il progetto originario del Creatore. Giudaismo e cristianesimo attingono tale fonte di rivelazione dalle stesse scritture. I musulmani dal loro canto la attingono dal Corano senza nessun distinguo:
«Noi crediamo in Dio, in quel che ci ha rivelato, e in quello che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle tribù, in quel che è stato dato a Mosé e a Gesù, e in quel che è stato dato ai Profeti dal Signore: noi non facciamo differenza alcuna con nessuno di loro. A Lui noi siamo sottomessi» (Corano 2ª136).
E così esortano le Genti del Libro:
«Sarete sul nulla fintanto che non seguirete la Torah e il Vangelo e ciò che è stato rivelato dal Signore […]. Sì, i Musulmani, gli Ebrei, i Sabei, i Cristiani – chiunque crede in Dio, nell’aldilà, e compie opera buona – nessun timore per loro, e non verranno afflitti» (Corano 5ª68-69).
Quello che adesso ci chiediamo, e che potrebbe costituire oggetto di ulteriore studio, è se sia ancora possibile una metanoia delle tre religioni che fino al presente hanno mostrato di tenere in poca considerazione la verità contenuta nella radice profonda del loro essere nella storia, ed anzi, in molti casi di averla completamente persa di vista, se non volontariamente occultata. Hanno volto la loro attenzione ad altri messia, troppo umani, e sicuramente non portatori di giustizia e di pace. Siano stati essi re, imperatori, pontefici, califfi, sultani, rabbini che hanno brandito la spada contro altri popoli e persino contro i loro. Le guerre di religione sono state combattute ad extra ma anche ad intra e la giustizia sociale, i diritti umani, la libertà religiosa non sono ancora garantiti in nessuna cultura che direttamente o indirettamente si rifà alle tre religioni abramitiche.
Qualche piccolo passo è stato fatto, ma che ne è, concretamente, del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune? Un documento, al pari di quegli 8.000 trattati di pace, censiti con molta pazienza da Raimon Panikkar, che hanno segnato la storia della guerra nel corso di cinque millenni ininterrottamente? Nella consapevolezza antropica, “religione” vuol dire primariamente riti, cerimonie, apparati istituzionali, case della divinità, prescrizioni, tradizioni incomprensibili… mai giustizia e pace da attuare con finalità salvifica; perché altrimenti cos’è la salvezza? Un fatto metafisico, ultraterreno? Cos’è salvezza se non salus, salute fisica, psichica e spirituale dell’unità dell’essere umano?
«Il Messia non è ancora venuto, allora siamo venuti noi», abbiamo sentito dire più sopra. E c’è del vero nell’affermazione. Noi ci siamo, da credenti, per continuare l’opera del Messia, per mettere in atto ciò che ci ha rivelato sulla giustizia e sulla pace e non per fare la guerra. Per i cristiani il Messia si chiama Gesù e il suo insegnamento non è riprovato dai musulmani che però credono che la profezia abbia avuto il suo “sigillo” con Maometto. I giudei che lo attendono ancora hanno però la Torah, i Profeti e gli altri Scritti (Tanàkh) a guidarli verso la giustizia e la pace. Non si tratta di tre messaggi diversi, di tre orientamenti diversi per l’umanità se si può condividere fraternamente il valore inestimabile di quella radice che neanche altre religioni possono contestare.
La metanoia può iniziare solo dal disarmo culturale che le tre religioni devono operare cominciando a non considerare assoluti i loro impianti dogmatici, indagando semmai sulle cause della verità dei propri dogmi, senza rivendicare solo per se stesse la vera fede in Dio e confrontandola sempre con quella radice che l’ha originata. Solo così potranno diventare religioni messianiche e profetiche unitariamente e nel mantenimento della loro naturale diversità.
Per essere messianiche e profetiche dovranno interrogarsi se assolvono a sufficienza il ruolo di coscienza critica della società in cui sono impiantate, ruolo che si esercita con la denuncia positiva dei mali che la affliggono, correndo anche il rischio di scontrarsi con i poteri costituiti incapaci di colmare l’abisso tra poveri e ricchi, privilegiati e diseredati. Le religioni abramitico-profetiche assolvono il loro compito messianico richiamando gli Stati alla loro responsabilità etica per il bene dell’intera umanità, condannando con determinazione la guerra quale strumento di potere e le ingiustizie come causa di guerra. Per questo, in virtù dell’ascolto della parola che gli è stata rivelata da Dio non possono non praticare continuamente una critica alle ideologie messe in campo dai potentati arroganti di questo mondo, presenti nelle sinagoghe, nelle chiese e nelle moschee e spesso camuffate sotto una falsa retorica teologica che può abbagliare e abbindolare le masse per lo più ignare della consistenza della radice della loro fede.
Anche Raniero La Valle che nel suo libro Gaza delle genti descrive con cognizione di causa il processo di ideologizzazione che ha condotto il giudaismo sionista a definire, nel 2018, lo Stato di Israele «Stato nazione del Popolo Ebraico» con l’esclusione di ogni altra esistenza collettiva [25], è convinto che le religioni abbiano bisogno di una continua presa di coscienza di se stesse, «di andare nel profondo della propria tradizione e riuscire a interpretare le proprie stesse pagine fondatrici in un modo che sia corrispondente alle esigenze dei tempi» [26]. Altrimenti diventano ideologie che hanno la pretesa del monopolio della verità per la quale, essendo questa di natura divina, bisogna combattere e far guerra per affermarla. Mette però in guardia dal fatto che anche il messianismo può diventare una ideologia! Vero è che per noi «la sobrietà dell’ideale messianico può consistere (e sarebbe un meraviglioso approdo) nel conseguire il ristabilimento del diritto e della giustizia sulla terra e nella instaurazione della pace, che sono degli ideali storici alla portata delle capacità umane»; tale processo però deve anche contemplare l’iniziativa di Dio, «non programmabile né catturabile da qualsiasi religione o Chiesa, nei cui confronti quello che è richiesto agli uomini sarebbe un atteggiamento di invocazione, attesa e preparazione» [27].
Forse Dio, in questa epoca che lo ha eclissato anche perché le religioni non hanno messo in luce l’essenziale salvifico che lui ci ha rivelato, vuole che anche il nostro studio intra ed interreligioso possa essere uno strumento per il suo imperscrutabile disegno di salvezza. Per questo va portato avanti quasi fosse un atto di culto, con religioso impegno e grande umiltà, a partire dall’esperienza della nostra contingenza che ci apre alla trascendenza più assoluta.
Chiudo citando una parola chiarificatrice e “sopra le righe” di Michel de Certeau sul «mito delle origini»:
«Quando esaminiamo la nostra situazione presente e la nostra storia, speriamo di poter distinguere ciò che è morto e ciò che è vivo. Crediamo di avere a disposizione un modo per eliminare dal nostro “tesoro” le monete svalutate e fuori corso […]. Quante volte abbiamo tagliato, adattato o dimenticato testimonianze che erano d’impiccio? Ma, allora, se le idee recepite oggi sono contemporaneamente il principio e il termine dei nostri criteri, come potremo mai distinguere ciò che è già contenuto nelle nostre concezioni attuali e ciò che ci è ancora necessario delle nostre origini? Come distinguere ciò che, del passato, governa a nostra insaputa l’intelligenza del presente, e ciò che, del presente, deforma il passato in cui pretendiamo di scoprire i segnali di una verità?» [28].
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
[*] Questo scritto è il testo della sua lezione inaugurale del Summer Course su «Dialogo interreligioso, dinamiche interculturali e diritti» organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza del Polo Universitario di Trapani e il Centro Diocesano “Operatori di Pace” per il dialogo e la cittadinanza interculturale di Mazara del Vallo. Il Corso si terrà tra Trapani e Mazara del Vallo tra il 9 e il 13 settembre 2024.
Note
[1] Eraclito fr. 27.
[2] R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, Jaca Book, Milano 20212: 285.
[3] L. Di Simone, Il mito della pace: per la fondazione di una eirenelogia interculturale, in «Dialoghi Mediterranei» n. 65, gennaio 2024.
[4] Cf. L. Masciandaro, Ermeneutica del dialogo tra le religioni in Raimon Panikkar, in «Dialegesthai Rivista di filosofia», 31/12/2021.
[5] R. Panikkar, Religione e religioni, Jaca Book, Milano 2011: 13.
[6] H. Küng, Ebraismo, Rizzoli, Milano 20177: 5.
[7] Ivi_ 17-18.
[8] A. Eban, Eredità. Gli Ebrei e la civiltà occidentale, Mondadori, Milano 1986: 312.
[9] R. La Valle, Gaza delle Genti. Israele contro Israele, Bordeauxedizioni, Roma 2024.
[10] Ivi: 91.
[11] Ivi: 93.
[12] Ibid.
[13] R. Panikkar, Religione e religioni, cit.: 14.
[14] Cf. G. Ravasi, Antico testamento, Piemme, Casale Monferrato 1991, p. 24ss; per la relazione giudaismo-sionismo cf. A Eban, cit.: 229ss.
[15] Cf. H. Küng, Ebraismo, cit.: 130.
[16] L. Di Simone, La terra di Israele. Una divisione originaria, in «Dialoghi Mediterranei» n.66, marzo 2024.
[17] G. Ravasi, Antico testamento, cit.: 161.
[18] M. Noth, Storia di Israele, Paideia, Brescia 1975: 413.
[19] J. Schreiner (e collaboratori), Introduzione letteraria e teologica all’Antico Testamento, Paoline, Milano 1987: 423.
[20] Cf. M. Noth, cit.: 415-417.
[21] cf. H. Küng, Islam, Rizzoli, Milano 2007: 51-55.
[22] cf. H. Küng, Ebraismo, cit.: 32-33.
[23] Cf. P. Antonello, Introduzione a R. Girard e G. Vattimo, Verità e fede debole. Dialogo su cristianesimo e relativismo, Feltrinelli, Milano 2015.
[24] cf. H. Küng, Ebraismo, cit.: 134.
[25] R. La Valle, Gaza delle Genti, cit: 69.
[26] Ivi: 26.
[27] Ivi: 134-135.
[28] M. de Certeau, La debolezza del credere, Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e pensiero, Milano 2020:59.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, liturgista, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo, docente e Direttore della Scuola Diocesana di Teologia e della Biblioteca diocesana. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso. Attualmente è anche Referente diocesano per il Sinodo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018). Nel campo dell’innografia liturgica ha pubblicato con le Edizioni Paoline due volumi di inni: O fonte della luce; O Cristo splendore del Padre.
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