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EDITORIALE

Giuseppe Modica, Luci della notte, inseguire la pittura, 2000 (olio su tela, 210x185) Giuseppe Modica, Luci della notte, inseguire la pittura, 2000 (olio su tela, 210x185)

Giuseppe Modica, Luci della notte, inseguire la pittura, 2000 (olio su tela, 210×185)

C’è naufragio e naufragio. A distanza di più di dieci giorni la cronaca non cessa di raccontare i dettagli dell’affondamento nelle acque antistanti le coste siciliane del mega yacht Bayesian. Legittimo il grande rumore mediatico del caso, condivisibili la trepidazione e la commozione per i dispersi, l’attenzione e la sollecitudine dei soccorsi ma tutto questo stride a fronte del silenzio e dell’indifferenza per la sorte dei tanti naufraghi che tentano la traversata dello stesso tratto di mare per cercare una nuova vita in Europa. Non si era mai visto un così largo dispiegamento di mezzi (navi, droni, elicotteri) per recuperare gli scampati del veliero. Una rappresentazione quanto mai eclatante della sperequazione che presiede il modo di gestire salvataggi e accoglienza a secondo del passaporto posseduto dai naufraghi. La pratica della diseguaglianza tra gli uomini e le loro vite messa esemplarmente in scena nello stesso spazio e nello stesso tempo. Come una dimostrazione militare, una lezione, un monito.

Ripensando a questa inquietante coda d’estate che, come una serpe velenosa, si stende, si dimena e si rintana, sembra a volte che un filo sottile e invisibile tenga insieme il furore e la ferocia del clima insostenibile e imprevedibile negli eccessi della mutazione e il furore e la ferocia ideologica del regime politico che ci governa. Certo, la crisi dell’Antropocene ha altra latitudine e ben più violenti e devastanti effetti. Ma come definire altrimenti l’azione di una classe dirigente che moltiplica i decreti sicurezza e fabbrica dal nulla senza soluzione di continuità reati su reati, un Codice penale parallelo, ispirato da un’isteria carceraria che si spinge a negare la libertà ai bambini costretti a condividere l’esperienza di detenzione del genitore sin dal primo giorno di vita? Come non vedere i frutti avvelenati di una gestione autoritaria e proprietaria della cosa pubblica, la postura xenofoba assunta contro tutte le minoranze, sia etniche che di genere, la sistematica repressione dei diritti di protezione dei profughi, il loro sequestro nei campi di prigionia chiamati CPR, i mille ostacoli inventati per boicottare e impedire l’opera di soccorso a mare delle ONG? Non c’è infine qualcosa di patologico nella paranoia politica che si ostina ad opporsi ciecamente alla riforma della legge sulla cittadinanza condannando alla condizione di apolidi più di mezzo milione di ragazzi nati nel nostro Paese e iscritti nelle nostre scuole, seduti nei banchi assieme ai nostri figli? 

Su ius soli, ius scholae o ius culturae fin dai primi numeri Dialoghi Mediterranei ha a lungo dibattuto nella consapevolezza che, contrariamente a quanto dichiarato da alcuni e pensato forse da molti, i tratti somatici di Paola Egonu non sono affatto estranei all’immagine della italianità, che l’Italia è ben rappresentata, non solo nello sport, dalle tante Myriam Sylla, la pallavolista palermitana con genitori di origine ivoriana vincitrice della medaglia d’oro alle ultime Olimpiadi, che la negazione di questo riconoscimento – il riconoscimento di un principio di realtà, non la concessione octroyée di un privilegio – non è soltanto un sopruso e una ingiustizia ma anche un enorme spreco di capitale umano, un evidente errore di strategia nella prospettiva dell’assimilazione delle regole di convivenza civile non meno che a beneficio della sicurezza sociale ed economica collettiva. La via maestra dell’integrazione passa infatti attraverso il diritto di cittadinanza, fondativo della coscienza di appartenenza alla comunità nazionale contro i rischi di incubare sentimenti di separatezza, di impotenza oppressa, di rancore e diffidenza.

Tanto più che Stefano Allievi, in questo numero a colloquio con Daniela Melfa, ci ricorda quanto sia grave e profondo l’inverno demografico del nostro Paese, «l’unico in Europa, in cui si vendono più pannoloni che pannolini», per cui «chi è contro l’immigrazione, in realtà, è contro i propri figli, è contro i giovani, perché l’immigrazione vuol dire forza lavoro in più, gente che lavora, che produce ricchezza, che produce PIL, che paga tasse». La politica della ghettizzazione delle seconde generazioni e dei respingimenti dei profughi che genera apolidi e clandestini è di fatto contro gli interessi dell’Italia e degli italiani. Lo ha dichiarato perfino il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta che parla dei cittadini stranieri come di una risorsa da integrare e valorizzare nel sistema dell’istruzione e del mercato del lavoro.

«Continuare a pensare, continuare a sperare» ci invita Pietro Clemente nel suo rigoroso ragionare e commosso ricordare in apertura a “Il centro in periferia” di questo numero. Da un lato, «costruire memoria, trascendere nel valore coloro che ci lasciano e che noi tenacemente sentiamo ancora con noi, è un modo di superare la morte, di pensarla come un luogo familiare». Dall’altro, continuare a pensare, a progettare il futuro per quanto il presente sia greve e cupo, a sperare in un ordine umano e sociale più giusto, in una politica che soccorra i vivi e renda giustizia ai morti, in una cultura della pace e della convivenza tra i popoli in contrappunto ad un contesto in cui «la morte e la guerra sono diventate parte della vita quotidiana», è in fondo anche ciò che si propone da sempre, numero dopo numero, Dialoghi Mediterranei. A che serve infatti una rivista se non ad accogliere e confrontare voci, idee, pensieri e saperi diversi, possibilmente libera dai lacci e lacciuoli di certi format accademici, senza il rischio di cadere nelle secche delle retoriche scientifiche, «senza bisogno di eccessive formalizzazioni, di esercizi di equilibrismo e diplomazia», come scrive in questo numero Fabio Dei nel suo intervento su “Antropologia e progresso”? Un’ampia riflessione su cui sarebbe auspicabile un dibattito, «che – suggerisce l’antropologo – si muova nella tensione fra la necessità di riconoscere i modi diversi in cui le culture danno senso al mondo, e quella, dall’altra parte, di tenere  ferma l’idea di una ragione umana che, passata attraverso tutte le sue “crisi”, resti però lo strumento e la garanzia della conoscenza pubblicamente condivisa, di un’azione volta al miglioramento delle condizioni della vita umana attraverso la scienza e la tecnologia, e all’eliminazione da essa della violenza, dell’oppressione e dell’ingiustizia».

La verità è che in tempo di guerre permanenti dai fronti militari che minacciosamente implodono e si estendono i discorsi su culture, valori, scelte etiche e diritti umani sono quanto mai pericolosamente densi di implicazioni ideologiche e politiche. Ce lo ricorda Roberto Settembre nel suo intenso saggio che indaga sulle diverse forme di espressione del manicheismo dogmatico.  «Questo poiché oggi non assistiamo alla trasformazione dei fatti in opinioni, bensì delle opinioni in fatti», che «così trasformate diventano verità di fatto che incidono sui sentimenti e inducono all’azione, senza che agisca su di essa la coscienza, dal momento che tale trasformazione cancella i fatti sgraditi mutando la menzogna in fatti». Da qui l’importanza di luoghi e strumenti di confronto che aiutino a decostruire le vulgate e a porre domande piuttosto che dare risposte assertive e definitive.

Continuiamo a pensare, continuiamo a sperare, discutendo ancora di Gaza e dello sterminio dei palestinesi e finché non ci sarà il cessate il fuoco ci interrogheremo – come fa Dario Inglese – «fin dove può spingersi l’azione di uno Stato a tutela dei propri interessi nazionali? È lecito devastare un fazzoletto di terra dal quale è impossibile evadere per scovare il nemico? È legittimo uccidere decine di migliaia di civili e cancellare le tracce di una cultura millenaria (scuole, università, archivi, monumenti, siti archeologici; per non parlare di abitazioni, ospedali, infrastrutture) per esigenze strategiche? Si può rispondere a un terribile attacco terroristico con una punizione collettiva inflitta a vittime inermi? Per quanto ancora sarà possibile trascurare con cinica indifferenza la brutalità dello slogan “a Gaza non ci sono civili”?». E altre domande in conclusione lo studioso aggiunge: «Con quali Palestinesi interloquire? Quelli di un’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nuovamente credibile? Quelli di al-Fatḥ con la sua ideologia laica e progressista sfibrata da decenni di stallo e politiche fallimentari? Quelli di Hamas con il mix di resistenza anticoloniale e islamismo che suscita terrore e panico in Occidente e che, comunque la si pensi, non può non preoccupare ogni vero democratico? Quelli dei tanti leader politici e dei tanti intellettuali imprigionati da anni, insieme a migliaia di persone comuni, nelle carceri israeliane? Rispondere a questi interrogativi è ovviamente impossibile allo stato attuale, ma un punto fermo c’è: la società civile palestinese deve essere messa nelle condizioni di poter parlare ed esprimersi, pena l’impossibilità di scorgere una vera via d’uscita».

Continuiamo a pensare, continuiamo a sperare, continuiamo a cercare connessioni, a promuovere dialoghi, a suscitare dibattiti. Muove dalle intense pagine di Elena Nicolai, Venezia: dell’isola bucata e delle diverse sue ossessioni, pubblicate sul numero di luglio, il vasto concerto di idee e di osservazioni sul fenomeno dell’overtourism e del consumo delle città, una articolata rassegna di testi su aspetti e problemi, analisi e proposte che concorrono a comporre un quadro delle mutazioni antropologiche degli scenari urbani dell’abitare e della vita degli abitanti. Una questione – osserva Letizia Bindi – che «rinvia alla rottura del patto fiduciario tra residenti e visitatori, tra cittadini e turisti che è una frontiera per certi versi ben conosciuta, ma che oggi si tinge di nuove e più interessanti sfumature identitarie, critiche, antagonistiche, esclusiviste». Tema oggi di grande attualità perfino nelle cronache di fine estate. 

Continuiamo a pensare, continuiamo a sperare, anche attraverso la lettura collettiva dei film che per lo più periferici nella distribuzione commerciale riteniamo centrali nella mappa culturale dei nostri ragionamenti. Così il documentario di Marta Basso e Tito Puglielli, “Che ore sono”, che proponiamo in questo numero ci conduce dentro il mondo “a parte” delle strutture psichiatriche, abitato da «soggetti fragili, esclusi, emarginati, che rimandano all’esercito di spiriti erranti e senza patria, senza cittadinanza, privati di ogni diritto», scrive Flavia Schiavo. Ancora una volta i registi hanno accettato di dialogare con gli autori delle recensioni commentando i loro commenti e aiutandoci nell’interpretazione di quella speciale ‘osservazione partecipante’ che «in una modalità il più orizzontale possibile» ha consentito loro di «raccontare persone, non pazienti; storie, non diagnosi». 

Continuiamo a pensare ma anche a ricordare chi tra gli amici, colleghi, collaboratori nel mezzo di questa estenuante estate ci ha lasciato. Pietro Clemente rievoca la figura di Sandra Puccini, «straordinaria scrittrice, studiosa di storia degli studi antropologici italiani nel quadro delle discipline che lungo l’Ottocento hanno fondato le scienze umane e sociali, in forte dialogo interdisciplinare con la letteratura, la geografia, l’antropologia fisica e il mondo dei viaggi e delle esplorazioni, dell’alterità». Altri salutano Lucio Zinna, l’intellettuale di origine mazarese, fondatore di riviste e fine letterato, che ha collaborato alla nascita di Dialoghi Mediterranei, «poeta dell’ironia e della esattezza della scrittura», lo definisce Nicola Grato; una scrittura ispirata alla necessità che «la vita della poesia entri nella biologia della quotidiana esistenza», chiarisce Aldo Gerbino, il quale conosceva le fragilità dell’uomo e quella «rugginosa malinconia sempre alla ricerca di un travaso possibile tra il passato e il suo presente»; «poeta concreto, terragno che può permettersi di dire “a seminare grano si raccoglie pane”, – scrive Antonio Pane – il suo sguardo dritto e acuto (quando non corrosivo, da ‘ignoto marinaio’) misura con la medesima ‘tigna’ le cose di sotto e le cose di sopra, mantenendo un equilibrio, una compostezza che ne garantisce la tenuta: il ‘ciglio asciutto’ che ci sorprende a salutarne il transito».  

Continuiamo a pensare, un “pensare in comune”, insieme ai tanti che ci sono compagni in questa esperienza di dialoghi che intrecciano non solo le idee e le immagini ma anche le storie di generazioni diverse di studiosi, di scrittori, di lettori. Nella grande antologia di testi raccolti in questo numero spiccano preziose presenze di nuovi autori, contributi che ci aiutano, per fare solo due esempi, a ricordare un naufragio dimenticato, quello di un piroscafo dal nome profetico Utopia, affondato il 17 marzo 1891, carico di passeggeri diretti in America; o a riscoprire la figura e l’opera dell’antropologa finlandese Hilma Granqvist che ha lasciato importanti studi etnografici sulle donne di Artas in Palestina dove ha soggiornato tra gli anni venti e trenta del secolo scorso. A guardar bene, il Mediterraneo è ancora una volta il fil rouge che collega, in un comune orizzonte di senso, molti dei contributi che attraversano linguaggi, generi e saperi diversi, tra storia, religioni, antropologia, arti e letteratura: «un insieme di insiemi» per usare l’espressione di Braudel.

Continuiamo a pensare anche per immagini, quelle della raffinata pittura di Giuseppe Modica che dà forma non soltanto allo spazio ma anche al tempo della riflessione e dell’immaginazione, e quelle delle fotografie che descrivono i colori e i costumi dell’India, documentano la memoria delle miniere dell’entroterra siciliano, raccontano il poeta e la sua anarchia esistenziale, illustrano le sacre rappresentazioni delle feste popolari, restituiscono le emozioni dello spettacolo dell’eruzione dell’Etna, ricercano della realtà inedite e sperimentali visioni, «alla scoperta di possibili mondi nascosti al primo sguardo». 

Continuiamo infine a sperare. Nonostante le guerre, nonostante le storture della vita e del mondo, nonostante il legno storto dell’umanità. Perché la speranza va coltivata come una pianta nelle terre più aride, come un fuoco da tenere acceso per dare luce alle penombre dell’autunno che incede e per scaldare gli inverni più freddi che si preparano. Perché la speranza è l’ultima e intima risorsa che sfida la rassegnazione e dà moto e forza alla indignazione. Perché la speranza dialoga con il futuro: lo immagina, lo progetta, lo inventa, lo cambia. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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