di Roberto Settembre
Ci sono più modi di stare nel mondo, nel quale abitiamo così provvisoriamente da avere sempre bisogno di punti di riferimento che ci diano la sensazione di esistere: l’appartenenza a identità collettive politiche o territoriali, di genere, religiose, culturali; eppure, tutte, ancorate al bisogno della memoria.
E su questi modi si innestano due grandi pulsioni del sapiens, una prevalente e l’altra residuale: quella predatoria e questa accudente. Le grandi religioni non fanno eccezione, poiché il concetto di misericordia e di amore fraterno è sempre stato escludente e feroce. Ma esistono anche modi diversi, che, tacendo sui presupposti identitari, culturali, sociali, economici, vengono abbracciati in modo totalizzante dagli individui che vivono per soddisfare i propri desiderata camuffati da esigenze vitali, che non li liberano dalle angosce esistenziali, ma li spingono a scaricarle non tanto fuori di sé (meccanismo di autodifesa inscritto nell’istinto di conservazione), quanto nell’usarle come scudo contro i rumori molesti del mondo.
Detto questo, tuttavia, ne viene un corollario, per cui questa scelta esistenziale ha a che vedere strettamente con la memoria, sia individuale, sia collettiva, e, a cascata, con la conoscenza. Questo perché la memoria (e non solo come vedremo) è il sostrato che consente l’interazione sociale, e che, attraverso l’acquisizione di competenze, dalla filogenesi di una vita intelligente all’apprendimento del linguaggio, genera la comprensione presupposto della conoscenza (Maurizio Ferraris, Post verità, Il Mulino, 2017: 144, 145).
Ma la conoscenza non corrisponde ad alcuna pulsione istintuale che, viceversa, trova nella credenza la sua linfa vitale, al cui nutrimento basta e avanza la necessità di appartenere a uno status rassicurante, idoneo a soddisfare i bisogni. Ne consegue che la spinta verso la conoscenza nasce dalla percezione di insufficienza sulle modalità di appartenenza e di soddisfazione dello stato dell’io, quando viene interpellato dal mondo. E il mondo è tale in quanto costituito dall’immagine che ciascuno ha elaborato dentro di sé. Ed ecco, ancora, mostrarsi la necessità della memoria, o la sua manipolazione, dove la prima attiene alla conoscenza, e la seconda alla credenza.
Ora, proprio parlando di memoria diventa necessaria una esemplificazione, poiché a tutti sarà capitato di trascorrere del tempo in una vacanza dall’abitualità, o fisicamente, viaggiando o soggiornando in un luogo inconsueto, o immergendosi nella lettura di un romanzo avvincente o assistendo a uno spettacolo, talché, durante quell’intervallo, alcune incombenze o alcune necessità sono state posticipate al dopo.
Allora, focalizzando l’attenzione su quel prima e su quel dopo, o perché l’acquisizione di informazioni alimenta il tessuto della memoria, rinforzandolo, e quindi della conoscenza, o incrinandolo e ridefinendolo questo su ulteriori e diversi presupposti, tali da creare una credenza, si tratta di esaminare lo spazio apparentemente vuoto tra l’apprendimento consapevole e il suo uso, pertinente a una funzione comune a tutti gli esseri viventi, vegetali compresi, i cui riflessi, come vedremo, rilevano per la tesi proposta in questo lavoro.
Infatti, quanto questa operazione esistenziale incida sulla vita collettiva è una questione non dibattuta ma di capitale importanza, poiché agisce su due piani della mente: quello che incide nella coscienza e quello che spinge all’azione con effetti tanto più radicali quanto più diversi sono i soggetti in esame. In modo impercettibile o più consapevole a seconda dell’importanza dell’evento colto dal tessuto della memoria del “prima”, poiché nessuno rimane uguale al sé stesso precedente, è banale dirlo.
Ma l’essere immersi in una ragnatela di relazioni (si noti come contino di questa ragnatela anche le relazioni rifiutate e/o quelle interrotte o deliberatamente tagliate, poiché a ogni azione o omissione corrisponde un diverso stato della mente) determina le emozioni, cioè i sentimenti, le scelte culturali, amicali, politiche in un senso che struttura l’io, ma non necessariamente su alcun piano evolutivo della coscienza.
A questo punto soccorre un’esemplificazione ulteriore: l’interpretazione dei fatti storici contemporanei è assai più fluttuante di quella sui fatti storici anteatti, via via più ferma quanto più risalenti nel tempo siano quei fatti, ma mai in modo monolitico, poiché la mente non lo è, essendo sempre fluttuante nel brodo dualistico che la compone, essendo la mente il luogo che contiene le mappe mentali costruite sulla base delle informazioni ricevute dal mondo esterno.
Si intende per brodo dualistico sia la contrapposizione del concetto dell’identità presente in tutte le culture, dallo yin e yang del taoismo, al bene e al male delle religioni monoteiste, alla legge eraclitea degli opposti sul mantenimento del conflitto tra logos e polemos, ma soprattutto dovuto al fenomeno dell’ambivalenza mai a sufficienza indagato.
Ebbene, se esaminiamo non le posizioni politiche delle persone che nella generalità dei casi vengono asserite sulla scorta di schemi precostituiti e non in divenire, ne emerge un dato stupefacente: quasi nessuno è in grado di esplicitare ragioni razionali, ma utilizza criteri emozionali per aderire a interpretazioni altrui di fatti di per sé non riconducibili a nuclei solidi e indiscutibili. Detto questo, nel tentativo di scongiurare l’accusa di aver sostenuto questa tesi per mera assiomatizzazione, è opportuno chiarire il significato di alcuni concetti esposti nelle righe precedenti: le emozioni, i sentimenti, la memoria, la mente, l’azione, la conoscenza, la credenza, la coscienza.
Pertanto si prenda in esame il nesso che lega le percezioni alla memoria, e che attiene al c.d “sistema enterocettivo” presente in tutti gli esseri viventi, tale per cui ogni contatto con la realtà esterna innesca un segnale che raggiunge i neuroni specializzati nell’innescare una reazione (A. Damasio, Sentire e conoscere, Adelphi, 2022: 91 e ss). E, facendo un passo indietro sulla scala evolutiva, si scopre che ogni organismo, batteri compresi, quando sente uno stimolo, lo gestisce sulla scorta di un’intelligenza non esplicita, «incaricata di accudire la vita e di gestirla secondo i precetti e le regole dell’omeostasi» (Damasio cit.: 26), cioè assecondando lo schema binario tra la vita (=piacere=bene) e la morte (=dolore=male). E si vedrà l’utilità argomentativa di questo schema binario.
Dunque, il passo successivo sulla scala evolutiva conduce alla nascita dei sistemi nervosi, che consentiranno la costruzione della mente, cioè del luogo dove si creano rappresentazioni e immagini che scorrono incessanti e sono aperte alle manipolazioni, tali da generare immagini nuove, non necessariamente connesse con quelle reali, ma idonee a generare sentimenti, necessari a innescare la conoscenza, che, comunque, non coincide con la coscienza, ma che innescano l’azione.
Detto questo, esperimenti scientifici hanno accertato che la natura della sensibilità di esseri privi di mente e non coscienti come i batteri, le piante, ma pure le persone, è suscettibile «grazie a una perturbazione dei canali ionici presenti nel substrato delle membrane cellulari, sotto l’effetto di anestetici, di subire la manipolazione della percezione fino all’assopimento delle capacità reattive, impedendo sia il funzionamento dell’omeostasi, sia della mente» (Damasio cit.: 52).
E poiché le percezioni, innescando il funzionamento della mente nel senso sopra descritto, attivando i neuroni, costruiscono mappe mentali, schemi che si strutturano nel cervello, vengono a comporre una serie di paesaggi mentali che determinano i sentimenti e a generare, mentre si dispiegano, risposte affettive, cioè i sentimenti. Ne consegue che i sentimenti hanno una radice e una natura utile per costituire il substrato della mente e della memoria, e quindi di una sorta di conoscenza, che tuttavia prescinde dalla coscienza, come si vedrà.
Circostanza tuttavia assai rilevante, poiché i contenuti della mente, essendo l’effetto di impulsi percettivi, e quindi manipolabili, agiscono su due piani: uno riflessivo (necessario a comprendere meglio l’accaduto) e uno proiettivo (necessario a usarne l’esito in vista di fini particolari) (ibidem: 46). Il che, però, comporta un terribile corollario, poiché stimolare la produzione di sentimenti agendo sui riflessi e sui comportamenti emotivi, può, in primo luogo, indurre alla competizione o alla cooperazione, amplificando l’azione senza coinvolgere la mente, e in secondo luogo, poiché «all’interno dello stesso organismo, l’oggetto o il sospetto delle sensazioni e dei percetti possono interagire» in modo tale che «il sistema nervoso centrale può modificare lo stato del corpo che dà origine ai sentimenti, e nel farlo può modificare quanto viene sentito» giungendo a «desiderare di modificare un oggetto che si sta vedendo”, non facendolo realmente, ma “nella nostra immaginazione» (ibidem: 88). Evento che ognuno può verificare nel corso della propria vita, ma ciò rimanda a un dato di fatto elementare come il concetto di verità, nel rapporto tra il vero e il falso, alla radice di tutta la vita sociale umana, e pertinente al tema proposto.
Ora, premesso che in questa sede non è possibile affrontare tale gigantesca questione percorrendo gli spazi attraversati dalla filosofia e dalla religione, limitandoci a un distinguo essenziale tra verità rivelata e verità dimostrata, dove la prima prescinde necessariamente dal “fino a prova contraria” e la seconda vibra sotto la sferza dell’indagine e della logica argomentativa, si intende riflettere solo sulla verità dimostrata, pur senza sviluppare il discorso sul piano scientifico o all’interno di un territorio logico argomentativo iper documentato. È questo un concetto che attiene alle sicurezze, che sono i capisaldi del pensiero, e che sono i cardini all’interno dei quali si sviluppano le idee. E poiché le generalità delle persone ne ha di molto forti, molto radicati, una sorta di fari che illuminano la strada sulla quale si muovono le idee e le opinioni, riteniamo che trovino la loro ragion d’essere nell’identità, cioè nella percezione che le persone ne hanno in termini fisici e sul fondamento morale. E già si fa arduo il discorso, perché parlare di fondamento morale come strumento oppure oggetto della percezione di sé espone a una serie di debolezze argomentative, nelle quali il “fino a prova contraria” si fa difficilissimo da evidenziare.
Ora, che io esista, che il mio corpo dia alla mia mente una congerie di informazioni sensoriali, è il minimo comun denominatore del pensiero, senza il quale dovrei fermarmi e vivere come un essere decerebrato. Ma questo primo fondamento concettuale mi permette di cogliere un primo ed essenziale punto di verità: la distinzione tra male e bene, che attiene, nei termini dell’esperienza storica del XX secolo e di questo scorcio del XXI, al confronto intellettuale verso «la sofferenza e la morte, che non possono venir eliminate, ma che impongono il compito di perseguire e di sviluppare il processo di umanizzazione nel senso di un miglioramento delle relazioni tra gli umani e delle società umane» (Edgar Morin, Ancora un momento, Cortina ed. 2024: 99). Si noti, quanto alla lotta contro la sofferenza e la morte, come tale assunto costituisca il fil rouge di posizioni filosofico-politiche o di chi ne sostiene la necessità a ogni costo, dove per morte non si intende quella dell’individuo ma delle collettività di gruppo, di casta, di etnia religiosa, di classe, giustificando così politiche e condotte brutali in danno di chi è ritenuto un ostacolo al progetto messianico di questa eliminazione cosmica, e chi, all’opposto, giustifica l’esistenza della necessità di questo dualismo terribile in nome del diritto al piacere egoista, individuale o di gruppo o di casta o di classe, ben camuffato sul piano retorico.
Ora, per rendere palpabile la veridicità di questa distinzione basta un esperimento: accendiamo una candela e mettiamo sulla cuspide della fiamma il palmo della mano aperta: il dolore dell’ustione incipiente ci costringe a ritirare la mano in cerca del bene, e a usare, nel caso, lenitivi contro l’ustione di origine vegetale o animale, o di sintesi chimica, frutto di sperimentazioni su esseri viventi o della loro uccisione, inducendo così a riconoscere la prima ed essenziale distinzione tra il male e il bene.
Semplificazione non banale, che consente di toccare con mano (sic!) una realtà che attiene al secondo principio della termodinamica, conseguenza dell’evento termico originario che produce la disorganizzazione e la distruzione di tutto ciò che è ordinato, da cui nasce «la crudeltà del mondo per ogni essere vivente e per ogni essere umano» (Edgar Morin, Etica, Cortina ed.: 190). Questa riflessione conduce a rilevare come «la vita lotta crudelmente contro la crudeltà del mondo e resiste con crudeltà alla sua stessa crudeltà. Ogni essere vivente uccide e mangia un vivente… ogni vivente lotta contro la morte integrando la morte per rigenerarsi» (ibidem: 191). Ne consegue un assunto singolare, per cui «il male della morte è utilizzato per il bene della vita senza cessare di essere il male della morte», ma «è a partire dalla mente umana che la crudeltà del mondo appare come tale, poiché essa produce la sofferenza nello stesso tempo in cui produce la coscienza della sofferenza» (ibidem: 192)
Preso atto di ciò, tuttavia, e per quanto concerne la problematica in esame, è della crudeltà umana che si deve parlare, cioè «del male fatto volontariamente da un umano a un altro umano» che «deriva dall’odio, dall’incomprensione, dalla menzogna, ed è nutrito dalla barbarie della mente, non deriva dalla crudeltà della natura, ma dalla crudeltà soggettiva dell’essere umano, che, a sua volta, ha come radici la chiusura egocentrica, ma non potrebbe ridursi ad essa… le crudeltà nelle relazioni tra individui, etnie, religioni, razze sono state e restano terrificanti» (ibidem: 193).
Il secondo punto allora deriva dalla capacità di riconoscimento, per cui tutti gli esseri viventi colgono questa verità, per cui qualunque azione umana non può prescinderne. Da lì, tuttavia, deve ricavarsi un corollario, per cui tutte le società umane hanno costruito le loro verità su questa distinzione, e tutte le condotte significative, sia individuali, sia collettive, si sono sempre articolate nel gioco di relazione tra il male e il bene, in termini di dolore e di assenza di dolore, che non è ancora e non è necessariamente ricerca del piacere. Ma si dovrebbe ritenere (e anche qui fino a prova contraria) che anche la morale si fondi su questo assunto: la distinzione tra male e assenza di male.
Ora, un’ulteriore minuta riflessione sul punto conduce a riconoscere le spinte che hanno determinato gli esseri umani nel loro costituirsi in società organizzate, partendo dai primi nuclei e dall’esigenza delle migrazioni. Si può obiettare che la molla della curiosità e dell’intelligenza è spesso andata a cozzare contro quel caposaldo dell’assenza di male, per cui gli esseri umani che hanno lasciato le loro certezze per avventurarsi verso l’ignoto hanno affrontato e patito molto dolore. Tuttavia, ci si può chiedere quanto dolore avrebbero patito a non farlo, e chiunque di noi è in grado di coglierne questa valenza ripercorrendo la propria vita.
Ora, facendo un immenso salto logico, potremmo domandarci quanto e come le scelte morali possano prescindere dall’assunto iniziale, visto che la storia dell’umanità è attraversata dal perenne conflitto tra chi infligge dolore e chi lo subisce. Ebbene, è ragionevole ritenere che anche il dogmatico più acceso non possa sostenere onestamente il contrario, o dubitarne. Ma, giunti sull’orlo del dubbio (che poi è il terreno di confine sul quale si giocano le relazioni umane) riemerge dalla caligine la spinta etica alla difesa dal male, al suo allontanamento, causata dal riconoscimento di se stessi nel prossimo.
Si tratta del fondamento della morale, secondo la quale «Prima viene sempre l’altro… non più essere, o l’ente, il mondo o l’io, l’oggetto o il soggetto, bensì proprio l’altro come tale… l’assoluta priorità dell’Altro nell’ambito della concreta esperienza umana… perché l’Altro è già da sempre lì, di fronte a noi» (Ruggero Guarini in V. Jankelevitch, Il paradosso della morale, ed. Hopefulmonster 1986: 11). Ne consegue che «Il rifiuto che rifiuta la morale è molto spesso il rifiuto del rifiuto morale, cioè di rinuncia al proprio piacere, al proprio interesse» (Jankelevitch, cit.: 41)
Viceversa, negli spazi cognitivi di chi si sente moralmente permeabile all’idea del rapporto Prevaricazione/Vittimismo come esito naturale del darwinismo tra nazioni, razze, religioni, classi, sessi, è presente un principio ideale mitico, per cui solo la vittoria definitiva contro l’altro, visto come nemico, le attribuisce la valenza morale della verità (Frederic Gros, Perché la guerra, Nottetempo 2024: 76-79). E non è casuale che nel cervello di costoro alberghi il mantra del “La Storia la scrivono i vincitori”, pura bestialità intellettuale, sebbene, come afferma Hanna Arendt in Verità e Politica (Bollati Boringhieri 2004: 34), sarebbero i fatti e non le loro interpretazioni, a essere la parte più fragile e suscettibile di distruzione, poiché tale assunto è sconfessato da ogni indagine storiografica connotata da serietà e dall’onestà intellettuale sin dai tempi di Tucidide quando racconta la vicenda tragica di Melo, mostrando il fondamento di quanto argomenta la Arendt nell’opera citata.
Infatti, prestando attenzione a quante verità sgradite al potere dei vincenti sono emerse dagli studi accademici sulle scienze storiche e umanistiche che agiscono per scoprire, custodire e interpretare verità di fatto e i documenti degli uomini, si ricava la consapevolezza che l’agire umano, per quanto spesso dominato dal potere del male, quando è guidato dall’intelligenza della coscienza, può portare verso una vera e propria riconciliazione con il reale, in modo tale da purificare le emozioni «verso la trasfigurazione del dolore in lamentazione e il giubilo in gioia» (Arendt, cit.: 75). E si pensi al significato ricavabile dalle opere d’arte, sia a partire da Omero, che sconfessa l’assunto della Storia scritta dai vincitori, dando umanissima dimensione agli eroi sconfitti, a Shakespeare, che in modo surrettizio, nel Mercante di Venezia, pur cedendo al mainstream culturale antisemita dell’epoca, mette in bocca al mercante Shylock parole tali da mostrare l’intrinseca fallacia del pregiudizio antisemita, o a Erodoto, che si propone di impedire che le grandi e gloriose gesta dei greci e dei barbari perdano il loro tributo di gloria o a Tacito che informa in modo esplicito sulla politica terroristica dei Romani che “fanno un deserto e lo chiamano pace”.
Ma tant’è, il nocciolo duro in cui vive confinata la limitatezza cognitiva è lo spazio più utile al dilagare della forza propagandistica dei predoni predatori sempre pronti a seguire il pifferaio più bravo a farli sentire fieri araldi dell’idea binaria di Prevaricazione vincente vs. Vittimismo perdente.
Detto questo vedremo fra poco l’importanza di concetti or ora espressi, che attengono alle funzioni cognitive e alla categoria della coscienza che ha strettissima attinenza con la cultura. Cioè la capacità di astrazione e di stratificazione delle informazioni in ricordi necessari per edificare su di essi la conoscenza, come conquista progressiva della sapienza. Si tratterà della conoscenza come base della sapienza, ed entrambe strumento della coscienza riflessa nelle scelte morali.
Invero esiste un meccanismo ideale, che permette di salvare capra e cavoli, cioè di sostenere qualcosa che infrange l’assunto iniziale con un altro assunto: è sbagliato usare la distinzione empirica tra male e assenza di male, perché esiste un assunto di verità intangibile (Id est, non m’importa che diecimila bambini siano affogati nel Mediterraneo, che siano state gasate milioni di persone, che nel gulag siano crepati a milioni, che la carestia uccida milioni di esseri umani, che l’aids e il covid 19 abbiano sterminato milioni di persone, che i bombardamenti su Gaza abbiano ucciso decine di migliaia id esseri umani, che l’aggressione della Russia all’Ucraina abbia incenerito città intere e causato centinaia di migliaia di vittime tra gli aggressori e chi si difende… che le condizioni di lavoro nelle acciaierie, nelle miniere ecc ecc …. non è questo il punto, non è questo il male maggiore, non è vero che è successo). Si tratta cioè del rifiuto del “fino a prova contraria”, o meglio il rifiuto di riconoscere la prova contraria. Infatti, il dogmatico impugna questo tipo di riconoscimento, lo nega, lo respinge come metodologicamente sbagliato, oppure ne sostiene la perfidia, come grimaldello per introdurre la menzogna nella verità.
Ecco, riteniamo viceversa che l’assunto iniziale, quel distinguo tra male e assenza di male debba costituire il mezzo principale con cui testare “la prova contraria”. Cerchiamo di spiegarci meglio.
Prendiamo un qualsiasi evento che interessi la vita sociale degli uomini: il lavoro, le credenze religiose, le divisioni tra Stati, le guerre, le migrazioni, il razzismo, l’apartheid sudafricano, il colonialismo, il neoliberismo, le divisioni ideologiche, la Shoà, il conflitto israelo-palestinese, la guerra Russia/Ucraina, e si potrebbe andare avanti per un bel po’. Ebbene, e si esaminano questi eventi/fenomeni è possibile, allargando e approfondendo l’indagine, ridurli tutti a quel nucleo primigenio, a quella distinzione tra male e assenza di male, e partire da lì, per verificare la bontà di ogni “prova contraria”.
Si tratta di chiarire il concetto di verità, sul quale, in questa sede, come si è anticipato, non è possibile argomentare in modo esaustivo, se non limitandosi a evidenziare la differenza tra verità di fatto, tali per cui è estremamente arduo discordare, verità razionali, desumibili da un’attività della coscienza attraverso una serie di passaggi logici, e opinioni.
Sul primo aspetto della verità è illuminante l’aneddoto attribuito a Clemenceau, negli anni venti, durante un’amichevole conversazione con un rappresentante della Repubblica di Weimar sulle responsabilità dell’esplosione della Prima guerra mondiale che gli aveva chiesto: «A suo avviso cosa penseranno gli storici futuri di questo problema fastidioso e controverso?», e che rispose: «Non lo so, ma sono certo che non diranno che il Belgio ha invaso la Germania» (Arend, Verità e politica: 45).
Tuttavia, dovendo aggiornare questa conversazione sulla conoscenza della verità dei fatti nei tempi odierni, è necessario rilevare come la verità dei fatti storici discenda dalle tracce che hanno lasciato e che, nel tempo della documedialità attuale, entrano in relazione con la memoria individuale e/o collettiva e con le evidenze materiali, come il paesaggio culturale, i resti archeologici, i ritrovamenti di oggetti e di iscrizioni, la memorialistica, la corrispondenza epistolare, il contenuto degli archivi pubblici, leggi, resoconti di discussioni pubbliche e altro, ma che non consentono, se non a determinate condizioni, di trasformarsi in verità analoghe a quelle di fatto, bensì in verità razionali, cioè in verità che solo l’esercizio dell’intelletto, attraverso connessioni logiche, quali, in primis, il principio di non contraddittorietà, possa affiancarsi alle verità di fatto. Principio di non contraddittorietà che, a partire da Socrate, per il quale è meglio patire ingiustizia da parte della moltitudine che fare il male entrando in contraddizione con noi stessi, diventa l’inizio del pensiero etico occidentale, e ulteriormente sviluppato dal pensiero kantiano (ibidem: 45).
Allora, come è stato anticipato nelle prime pagine di questa riflessione, entra in campo il concetto di coscienza, l’entità che apporta alla mente umana un quid pluris oltre alla sua natura di mappa delle immagini del reale, visive, uditive, tattili, verbali e altre, tale da consentire le c.d. esperienze mentali, che costituiscono una conoscenza diversa da quella meramente fisiologica che innesca i sentimenti. Si tratta della nascita di un rapporto consapevole tra mondo interno, attraverso la percezione dell’identità, nel passato e nel presente grazie alla memoria, e nel futuro, costruendo prospettive, e mondo esterno, che penetra nell’io attraverso i sentimenti.
Antonio Damasio (op. cit.: 137) cita una poesia di Emily Dickinson, dove la poetessa esprime la meraviglia della capacità della mente, ristretta nello spazio minuscolo del cervello, di contenere lo spazio immane dell’universo. Ebbene, si tratta della coscienza che consente la scelta morale, la creatività e la cultura umana, che permette non solo di leggere Proust, Tolstoij e Shakespeare, ma di coglierne il significato e di gioirne mentre lo si coglie e dopo averlo colto, consapevoli dell’arricchimento ricevuto. Sul punto sarebbe interessante sviluppare l’argomentazione sulla differenza tra lettura gastronomica (da ombrellone, per intenderci) e lettura cosciente, opera della parte elevata dell’intelletto, ma rimandiamo la questione a un prossimo lavoro, limitandoci, per ora, a rilevare le diverse qualità della conoscenza, poiché quella governata dalla coscienza mette in relazione l’io con il mondo esterno sul piano del giudizio che precede l’azione, mentre quello governato dall’introiezione dei sentimenti spinge all’azione e solo dopo attiva il giudizio, giudizio quindi che, in questo caso, prescinde dalla coscienza, essendo esso stesso una mera azione delle funzionalità meccaniche del cervello, determinate da un assemblaggio di contenuti mentali, dove conta la maggiore o minore quantità di materiale costituito da immagini che scorrono.
Si pensi, a titolo di esempio, al rilievo dato al numero dei like per convalidare e rafforzare la giustezza di un’opinione, e a quanto quest’operazione mentale sia estranea a un giudizio formulato sulla scorta di una scelta morale. Come a ritenere che la stessa notizia, anche una menzogna, ripetuta migliaia di volte, la rende vera, e per questo motivo giusta, che è esattamente l’operato della propaganda, come sosteneva il “buon” Goebbels. Su un piano analogo, agisce chi contesta la legittimità dell’azione penale contro un soggetto forte delle migliaia di voti ricevuti, trattandosi di persona le cui condotte, per il fatto stesso di essere stato votato migliaia di volte, sono coperte da un pregiudizio apodittico di legittimità.
Così ci si trova di fronte alla questione di cosa sia il sapere sul mondo, tra quello che non richiede alcuna attività ermeneutica per sapere che esiste, talché la sua esistenza è uguale alla sua interpretazione (ontologia =epistemologia) per cui la verità ci dice cosa esiste, e la necessità che la verità venga costruita da un’attività cosciente, che dipende da una proposizione linguistica. Pertanto, una cosa è dire che c’è il sole, e un’altra cosa è affermare che il sole riscalda o fa male o illumina, o induce alla veglia e in sua assenza al sonno. Infatti, questo significa che la verità si fonda sulla memoria presente e/o tramandata e su un’operazione interpretativa (M. Ferraris, cit.: 128, 129) diversa dalla mera percezione che attiva l’omeostasi senza che venga elaborato alcun concetto.
Tuttavia dev’essere chiaro che la testa sulla quale agiscono i due corni, la percezione e l’interpretazione, deve agire usandoli entrambi, per evitare che il linguaggio, da strumento necessario per la conoscenza consapevole, si trasformi in un tiranno tale da cancellare la percezione, e questo avviene proprio ad opera della coscienza, che consente di esaminare, interpretare, ricostruire in concetti la complessità delle informazioni, e solo dopo questa attività, usare il risultato per approdare al giudizio, funzione possibile grazie al riconoscimento della presenza attiva dell’etica. Non ci si nasconde quanto tutto ciò sia arduo, per cui è necessaria una semplificazione che nasce dall’esigenza di utilizzare per il test qualcos’altro, immediatamente identificabile, e che ci tranquillizzi spostando in là il confine del dubbio.
Ci si riferisce alla competenza, cioè a un terreno su cui muovere i dati provenienti da una fonte riconoscibile, ma tutti in funzione dell’assunto morale circa il dualismo tra male e assenza di male, come si vedrà in seguito. Ovviamente tutto dipende dalla capacità di interpretazione, di bilanciamento in termini di tenuta sul piano logico delle informazioni, per evitare che l’universo dei dati rischi di apparire come un oceano ingestibile, ma la conoscenza dei meccanismi mentali attivati soprattutto in questi tempi dominati dalle tecnologie dell’informazione è uno dei principali criteri ermeneutici a disposizione. Ciò significa, ad esempio, che, sapendo come siano le nostre paure e i nostri desideri a spingerci verso una credenza o verso un’altra opposta, un esame disincantato delle fonti desumibili attraverso la competenza, aiuti a muoversi nell’accertamento della verità. Il che non libera dalla possibilità degli errori, ma poi, quando, arrivati al termine del processo, è importante vederne il risultato nell’ottica dell’assunto morale iniziale.
Allora i dati storici desunti dalle fonti sulle quali hanno operato gli storici, i dati sociologici, i dati economici, i dati sanitari e ogni tipo di informazione sul mondo, dalla politica interna a quella internazionale, agli eventi bellici, vanno esaminati sempre col rigore di chi deve ricavare dall’oceano delle informazioni quelle meno farlocche per farsi un’opinione, per costituire la quale il linguaggio è uno strumento ermeneutico ineludibile. Tuttavia, anche l’uso del linguaggio è esposto a un grande pericolo, e si tratta del pericolo implicito nel titolo assegnato alla presente riflessione, cioè la sua semplificazione.
Infatti semplificare il linguaggio, quando affronta tematiche complesse, significa ridurre queste tematiche non solo di numero, ma soprattutto in termini di contenuti, poiché la complessità non significa elevato numero di fattori, come la quantità dei granelli di sabbia della spiaggia non ne determina la complessità ma solo l’estensione fisica, ma significa molteplicità di aspetti non univoci, tali per cui sono le loro relazioni interne a costituire una realtà diversa da quella priva di tale molteplicità.
Allora il linguaggio che affronta la complessità non può prescindere dal rappresentare questa molteplicità di aspetti non univoci. Ne consegue la necessità di uno sforzo mentale per raccogliere nella struttura del pensiero quelle relazioni concettuali; ma per farlo la mente deve penetrare negli spazi della coscienza dove opera la funzione del pensiero, che costruirà un’opinione analoga alla verità fattuale. Viceversa, la semplificazione del linguaggio è il veicolo sul quale si muovono i gangli di singoli aspetti del reale, offerti come oggetti introiettabili dal sistema cognitivo che rifiuta la fatica della comprensione delle relazioni non univoche tra di essi. Fatto questo, il soggetto che offre la propria mente alle semplificazioni, ne ricava materia per formulare un giudizio estraneo all’esame della complessità. Si tratta di menti perfettamente colonizzabili dai manipolatori dell’opinione pubblica, fecondabili da idee complottistiche fantasiose, prone a introiettare proposizioni prive di alcuna apertura all’ argomentazione complessa, che «include premesse tali da fornire sostegno a conclusioni parziali o intermedie, le quali a loro volta danno supporto alla conclusione», quando la conclusione è data da un’ultima frase preceduta da conclusioni intermedie (Franca D’Agostini, Verità avvelenata, Bollati Boringhieri, 2010: 48).
Si prenda ad esempio l’introiezione semplicistica di una proposizione come: “La presenza di un numero eccessivo di immigrati nel tessuto commerciale, tale da mettere a rischio i redditi della classe media attiva in questo settore, è la prova che è in atto la sostituzione etnica”. La formulazione di questa proposizione mostra un chiaro problema linguistico. O si tratta dell’incapacità di cogliere l’esatto significato delle parole, usandole per definire un fatto/evento (l’immigrazione come evento storico ineludibile, e la conseguente assimilazione coi problemi che comporta nel sistema liberale occidentale), inscrivendolo in un fenomeno reale in modo tale da poterne usare la definizione per rafforzare una credenza farlocca, e da lì costituire le basi ideologiche per l’azione, o si tratta della scelta deliberata di connotare un fenomeno in modo tale da renderne impossibile una diversa connotazione, così come assumere in atto il complotto connesso con l’uso della terminologia “Sostituzione etnica”, sussunto dalla propaganda hitleriana, che così e per questo motivo giustificava le politiche razziste e sterminatrici, e fatto proprio dai populisti nostrani, che hanno pianificato il blocco navale, il ritardo nei soccorsi ai migranti, la loro deportazione in luoghi di sopraffazione, di tortura e di morte, il dirottamento delle navi delle ong cariche di naufraghi in modo tale da non poter intervenire efficacemente nei salvataggi, l’attuazione di azioni repressive nei confronti delle navi e dei loro comandanti che operano in ossequio al diritto internazionale del mare.
Ma non solo, poiché fare proprio tale assunto rivela un’idea schmittiana e nazista della società, attraverso la negazione dei principi di libertà/uguaglianza e della natura contrattualistica dello Stato moderno, che risale al De cive e al Leviatano di Thomas Hobbes, dove «lo Stato sarebbe un corpo artificiale sorto dalla volontà degli uomini, nato dalla cessione volontaria dei loro diritti naturali, conseguenza di un patto stretto fra le parti per – fare società – e accettare la comune obbedienza sotto l’egida di un’autorità unica e riconosciuta» (Gros cit.: 5). E poiché questi principi contrattualistici dello Stato moderno sono nati per contrastare la miseria, il terrore, l’instabilità, le violenze reciproche, finché lo Stato non impone le sue regole di coesistenza, la miopia e la ferocia presenti nella mente di chi fa proprio l’assunto della sostituzione etnica, si sposa perfettamente con il pensiero di Vladimir Michajlovic Gudijaev, meglio conosciuto come Kirill Primo, di Putin, del fondamentalismo espresso dal sionismo estremista, messianico e no, dello Statuto di Hamas, del suprematismo bianco e via dicendo. Si tratta del potere della favola, per cui «lo Stato è un’entità fantasmatica, una favola che vive nella testa delle persone e che dev’essere consolidata attraverso la guerra» e la sopraffazione (Gros, cit.: 94), e che vince sulle capacità cognitive della razionalità.
Infatti, l’idea di uguaglianza, tanto invisa alle credenze razziste di chi ha fatto propria l’idea del complotto della sostituzione etnica (ma vedremo quali altre analogie emergono dal tema oggetto di questa riflessione), è strettamente connessa con l’idea della libertà individuale che, nella collettività composta di individui ciascuno portatore del proprio personale anelito alla libertà, pone ciascuno nell’inevitabile confronto con l’anelito altrui. Anelito del tutto sconosciuto agli altri animali sociali, come le api, le formiche, e costruito all’interno delle società di animali come gli uccelli e i mammiferi, costruendo gerarchie, e ponendo limiti e regole immodificabili (dai pipistrelli, ai babbuini, ai leoni, ai lupi, ai licaoni, ai corvidi, ai pappagalli), immodificabili perché in queste creature è assente la coscienza come veicolo per l’esame critico della realtà, a differenza degli umani, animali sociali e culturali, che, per questo motivo, hanno edificato società totalmente differenti fra loro.
Allora la prima ipotesi del problema è la conseguenza di una limitata capacità cognitiva, per cui la semplificazione, operata dagli abili manipolatori che forniscono ai destinatari un pensiero pensato alternativo al pensiero pensante, è la scorciatoia per approdare a una conoscenza farlocca, della cui falsità il destinatario non si preoccupa, essendo sdraiato sul toboga scivoloso dove la sua mente etero diretta lo conduce, mentre la seconda ipotesi attiene a una scelta deliberata di adesione a un mainstream condiviso. Ma in entrambi i casi la presa di coscienza prescinde radicalmente da ogni esame critico sulla complessità del reale, che, nel caso specifico, è caratterizzato dal fenomeno della globalizzazione, della libera circolazione dei capitali, della fungibilità assunta dal mercato del lavoro, dalle svariate e spregiudicate forme della delocalizzazione produttiva, e infine dalle cause climatiche, belliche, politiche, economiche delle migrazioni.
Allora, richiamando le modalità dell’argomentazione complessa, nel caso in esame, si possono rilevare le premesse che conducono alle conclusioni parziali o intermedie: una: “La presenza di un numero eccessivo di immigrati nel tessuto commerciale”; due: “le modalità dell’esercizio del commercio da parte degli immigrati”; tre: “La conseguenza sulle attività economiche dei cittadini autoctoni, che da questa presenza, e dalle modalità dell’esercizio del commercio di costoro, ricevono una danno”.
Ma la conclusione globale è data dall’ultima frase: “E’ in atto la sostituzione etnica”, sebbene esistano conclusioni intermedie, come “L’immigrazione deve venir bloccata” o “Le attività economiche degli immigrati sono un male e come tale va combattuto”, e infine “Il male consiste nel danneggiare gli autoctoni” e per ultima la conclusione finale: “Il male consiste nella sostituzione etnica” a cui deve aggiungersi una conclusione non detta: “la sostituzione etnica distruggerà il benessere della nazione italiana”.
Ne consegue che «la prima cosa da fare con argomentazioni complesse consiste nell’individuare le conclusioni parziali e distinguere anzitutto gli indicatori di premesse e conclusioni” attraverso gli “indicatori di premessa» (D’Agostini, cit.: 49) che legano implicitamente le premesse: si tratta di due “perché” e di due “infatti”, dove, dopo l’assunto iniziale sulla presenza eccessiva di immigrati, si inserisce un primo perché: Il numero di immigrati è eccessivo “perché inflazionano il tessuto commerciale”, e un secondo: “perché danneggiano le attività economiche e causano un impoverimento dei redditi della classe media”, per cui “bisogna bloccare l’immigrazione”, cosicché la prima proposizione introdotta dà supporto a quelle successive e introduce alla conclusione complessiva dell’argomento.
Pertanto, la proposizione in esame, per mostrare tutta la sua complessità, dev’essere parafrasata introducendo i “perché” e gli “infatti”, e i non detti, poiché «l’esplicitazione del non detto è essenziale, perché nel non detto possono nascondersi tacite premesse non vere o inferenze fallaci» (D’Agostini cit.: 53-54). Questo perché «nella comprensione del linguaggio, orale o scritto, l’implicito svolge un ruolo di primaria importanza. Sono importanti le inferenze che si compiono a partire da ciò che non viene detto, ma per esempio viene fatto, o a partire da quel che viene detto, ma in particolari contesti, che ne mutano il senso» (ibidem: 56). Ne consegue che «l’analisi di un argomento è l’insieme di operazioni che vanno dalla parafrasi all’individuazione della struttura dell’argomento» ma deve porsi speciale attenzione alle «tesi implicite, ossia a proposizioni che non vengono enunciate espressamente ma che sono funzionali alla difesa della conclusione».
Detto questo, ne discende un corollario, per cui nel primo caso, parafrasando il Marx del Manifesto, si aggira nel mondo attuale il fantasma dell’incapacità di pensare, essendo venuto meno il collante fra questa capacità e il giudizio, cioè la pregnanza della lezione morale come tessuto sul quale opera la coscienza. L’esito è l’acquisizione di alcuni mantra, o slogan, artatamente elaborati per prendere il posto non tanto dei costumi morali, sempre suscettibili di decadimento e scomparsa, quanto di alcuni concetti che il pensiero usava per dare efficacia alla legge morale, legge morale che discende da un’esigenza di solidarietà, di empatia, di forza cognitiva nella distinzione tra il bene e il male, presente in tutte le specie senzienti, anche in una capra che ha stretto amicizia con un asino cieco e lo aiuta nell’accostarsi all’erba da brucare. Accade invece che alcune parole tratte dal linguaggio della politica vengano usate per definire gli eventi e indurre alla formulazione di giudizi che non sono tali, ma semplici ripetizioni pappagallesche (non si vuole con ciò offendere i pappagalli) della volontà e della progettualità di idee antitetiche alla citata legge morale.
Si tratta, dunque, di saper individuare, leggendo un saggio, le note che lo corredano. Ma, ovviamente, spulciarle e correre a verificarle rende il lavoro immenso, e inoltre non sono i saggi le fonti principali da cui le persone attingono le informazioni per costruire con esse le proprie opinioni. Ne consegue la necessità di affidarsi a qualcosa di credibile, per cui entrano in gioco le categorie concettuali, le griglie interpretative, gli assunti immediatamente verificabili come dati di realtà. Cioè quel che si è conosciuto e si conosce direttamente, ma che va distinto da quel che viene raccontato nelle forme dell’affabulazione camuffata da verità dimostrata, chiunque sia ad averlo fatto, perché così si torna all’assunto della verità rivelata e della verità dimostrata fino a prova contraria.
Ne consegue che i siti di giornali non scandalistici, un libro scritto secondo i criteri di cui si è appena parlato, ma soprattutto i siti istituzionali e quelli degli organismi internazionali, le decisioni giurisdizionali, la consapevolezza di come operano i meccanismi cognitivi inconsci, possano aiutarci a formare un tessuto di veridicità delle nostre credenze, che tuttavia devono essere messe in controluce con l’assunto iniziale in termini morali. Sono quindi due i criteri ermeneutici: uno tecnico, poiché lo schema interpretativo non dipende dai concetti, che appartengono alla sfera del sapere, bensì da procedure (Ferraris, cit.: 120) e uno etico.
Tuttavia, il criterio dell’etica non significa che esistano criteri assoluti, precostituiti come il decalogo di Mosè, acquisiti alla coscienza, sulla scorta dei quali la conoscenza accetta o rifiuta i fatti che entrano nella mappa mentale del soggetto. Si tratta invece di attivare una sensibilità critica, una vigilanza verso la capacità di corruzione e di diffusione silenziosa del male, essendo il male molto più riconoscibile del bene (Laura Boella, Dipartimento di Filosofia, Università Statale, Milano), palese, ad esempio, nella proposizione esaminata poco fa.
Certo, questa vigilanza dev’essere attivata da un’energia specifica che si tramuta nell’uso del linguaggio, la cui povertà, come abbiamo visto, è sinonimo di semplificazione e, in ultima analisi, di negazione del discorso. Negazione che apre la strada alla violenza che «comincia laddove il discorso finisce, poiché le parole usate per combattere perdono la loro qualità di discorso e diventano dei cliché». Ed è proprio il livello di penetrazione dei cliché nel nostro linguaggio e nei nostri dibattiti quotidiani a darci la misura non solo di quanto ci siamo privati della nostra facoltà di discorso, ma anche di quanto siamo disponibili a ricorrere a mezzi di violenza per risolvere le controversie, talché «l’esito di tutti questi tentativi è l’indottrinamento… pericoloso perché scaturisce da una degenerazione della comprensione e non della conoscenza”. Ne consegue che l’esito della comprensione è il significato, che noi generiamo nel processo stesso della vita mentre cerchiamo di riconciliarci con ciò che facciamo e subiamo, mentre l’indottrinamento favorisce la lotta totalitaria contro la comprensione e finisce per introdurre l’elemento della violenza nella sfera politica» (Hanna Arendt, Archivio, 1950-1954, Feltrinelli, 2003: 80).
Allora, poiché l’assenza del discorso è il prodotto della semplificazione del linguaggio, causata, nella migliore delle ipotesi, da mera superficialità, questa semplificazione opera a causa di una sostanziale incapacità di pensare e di giudicare, rendendo la persona permeabile a ogni forma di cliché o di ordine, anche i più terribili, purché coerenti con la detta semplificazione, così come dimostrò il processo contro Otto Adolf Eichmann.
D’altronde, data questa premessa, ne consegue lo stretto legame che avvince il pensiero non cognitivo, non specialistico, ma come bisogno naturale della vita umana con la coscienza, il principale e ineludibile vincolo per la comprensione del significato della legge morale, che interviene «quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che tutti gli altri credono e fanno» (H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, 1987: 288) e si esprime come «attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto».
Questo accade «attraverso un pensiero rappresentativo», la mappa della mente, come abbiamo detto, «che procede prendendo in considerazione il punto di vista degli altri e che a questi altri è diretto». Il che ha, come corollario, l’ulteriore significato per cui «il pensiero, avendo a che fare con la rappresentazione di cose assenti, è la premessa del giudizio esercitato sulle cose a portata di mano, cioè sul fatto che ogni essere umano è in relazione con l’altro, così come ciascuno è cosciente di sé stesso e della propria coscienza morale» (Maria Laura Giacobello, La Storia di Hanna Arendt, Comprensione e giudizio, Humanities, anno III n. 6 giugno 2014), intesa come capacità di pensiero opposta o al male radicale prodotto dall’ottusità del pensiero, o di menti diaboliche. Si pensi all’Olocausto voluto e ordinato da Hitler, all’uccisione per fame di oltre 3 milioni di ucraini (Holdomor) per volontà di Stalin, alla teorizzazione della necessità del terrore leninista e trotskista, e nel passato più lontano, al terrore giacobino, al contenuto delle lettere di Badoglio a Mussolini per chiedere l’autorizzazione a sterminare l’intera popolazione cirenaica per stroncare la guerriglia anti italiana, e alla deportazione di questa che causò la morte di 50 mila esseri umani in pochi mesi, alle scelte stragiste dell’attuale governo israeliano che giustifica e ordina i bombardamenti sulla popolazione di Gaza, uccidendo migliaia di esseri umani per colpire una minoranza di terroristi, alle migliaia di missili e di colpi sparati sulle città ucraine, incenerendole, per sconfiggere e conquistare il Paese invaso per ordine di Putin, alle bombe atomiche sul Giappone, ai 30 mila desaparecidos argentini, assassinati innocenti, ai milioni di uccisi dal regime di Pol Pot, ai Gulag coi milioni di Uiguri internati dal governo di Pechino.
L’elenco raccapricciante è quasi interminabile, ma si tratta, anche, e ne vedremo fra poco le manifestazioni, della connessione tra il male e l’assenza di pensiero che comporta una radicale incapacità di esercitare le facoltà di giudizio critico, essendo il pensiero l’imperativo etico, sua necessaria premessa. Si tratta dunque di analizzare sia i singoli eventi quotidiani, sia quelli avvenuti nel passato senza pretendere di definire cosa sia il buono, il giusto o il coraggioso in sé, ma riconoscendolo nelle sue manifestazioni particolari (Maria Teresa Panseri, Il significato etico del pensare, in Pensare il Bios, Rivista di Filosofia n. 5/ 2008). Ciò sostanzia il giudizio con una forte connotazione morale, come spazio della libertà umana, dove il pensiero agisce in modo critico attraverso la ricerca di senso, antitetico all’assenza del pensiero che permette di aderire all’organizzazione del male (M. T. Panseri, cit.: 105).
Tuttavia, per chiarire la ragione ultima del rifiuto di ricorrere a criteri precostituiti (osiamo dire precotti) c’è un dato ulteriore da prendere in esame, così come emerge dalla storia europea del XX secolo, e che, purtroppo, allunga i suoi tentacoli nella contemporaneità, con effetti diversi, ma con sostanziale omogeneità di contenuti. Il fatto non solo che l’esistenza di quei criteri precostituiti, sostanzialmente religiosi o di civiltà culturale, non hanno impedito le nefandezze criminali e disumane in parte elencate sopra, ma che non hanno impedito che chiunque, vicino di casa, amico, conoscente, agisse come se quelle categorie di giudizio si fossero polverizzate sotto l’imperio di una volontà dominante, e soprattutto infestante, che aveva conquistato le menti, per cui vennero meno culture, gusto, autonomia di giudizio intellettuale, dove solo alcuni seppero dire di no. Si pensi a uomini come Schindler e Perlasca, ad esempio, o alle persone che cercarono di salvare Anna Frank e la sua famiglia, non sostenuti da un credo religioso, da una metafisica, da una poetica, ma per dignità e onestà con sé stessi, cioè dai principi, punto di partenza per il pensiero. E poiché ogni azione umana è tale in quanto mossa e determinata dal pensiero, la sua assenza, che spesso è camuffata da scetticismo, è scetticismo verso quei principi e significa o una pulsione verso il nichilismo, il che fa a pugni con l’imperativo morale che ogni essere ha verso il suo prossimo, al quale dobbiamo la necessità della fiducia verso il futuro, massimamente da parte di chi ha figli giovinetti, sia con il senso della chiamata nel mondo di ciascun essere umano, o di una pulsione verso un ideale opposto ai detti principi.
Infatti, purtroppo, il cammino della coscienza verso la conoscenza della realtà è reso faticoso e spesso impossibile dall’uso strumentale della sua interpretazione. Accade cioè che quanto disse Clemenceau al rappresentante di Weimar, se aggiornato ai tempi odierni, dove la verità di fatto è pretermessa dalle opinioni, trasforma quell’aneddoto nella traccia archeologica del funzionamento della mente non più governata dalla ragione (alias coscienza).
Questo poiché oggi non assistiamo alla trasformazione dei fatti in opinioni, bensì delle opinioni in fatti. E poiché tale trasformazione, attingendo in modo subliminale al tessuto della mente scavalcando la coscienza, è uno strumento per la conquista del potere, consente di aggregare le moltitudini non avvezze all’uso della ragione. Allora le opinioni così trasformate diventano verità di fatto che incidono sui sentimenti e inducono all’azione, senza che agisca su di essa la coscienza, dal momento che tale trasformazione cancella i fatti sgraditi mutando la menzogna in fatti.
È accaduto cioè che la politica, e i cacciatori di consenso si siano modellati «sulla pubblicità: messaggi stringati che richiedono sforzi di concentrazione minimi, l’uso delle parole per formare immagini di alto impatto anziché argomentazioni che facciano appello all’intelligenza», poiché «la pubblicità non è una forma di dialogo razionale, non dimostra con delle prove, ma associa i suoi prodotti a un insieme particolare di immagini. Non consente replica: il suo scopo non è suscitare la discussione, ma indurre all’acquisto» (Colin Crouch, Post democrazia, Laterza, 2007: 33). Ma la menzogna è causa del male, equivale alla differenza tra il nascondere e il distruggere, come accadde a Trotskij, cancellato dagli archivi e poi eliminato dal mondo dei viventi (Arendt cit.: 63).
Tutto ciò non è una novità, sia chiaro. Già negli anni trenta il politologo e costituzionalista Karl Loewenstein aveva rilevato, esaminando quanto stava accadendo nei diversi Paesi europei, che era in atto la sostituzione dei governi costituzionali con governi emozionali, poiché «un governo costituzionale implica lo Stato di Diritto, che garantisce la razionalità e la calcolabilità dell’amministrazione, mentre preserva una sfera circoscritta di diritto privato e di diritti fondamentali» (Loewenstein, Democrazia militante e diritti fondamentali, Quodlibet, 2024: 16), il che, in varia misura, sta accadendo anche ora nella stessa Europa occidentale. Infatti, la portata di una Costituzione indipendente, garantendo la libertà di espressione, il bilanciamento dei poteri e agendo sulla libertà di insegnamento e sulle garanzie delle minoranze, può impedire le derive istituzionali, e non è affatto casuale che ci siano forze politiche che vogliono stravolgerne l’impianto.
Eppure uno degli ostacoli più difficili da superare per l’essere umano è costituito dal muro eretto attorno alle sue credenze, politiche o religiose che siano, per scardinare le quali il manicheismo dogmatico (vedremo fra poco il significato di questo lemma) si è inventato la conversione sulla via di Damasco, non finalizzata a scardinare il potere delle credenze, ma a sostituirne una con un’altra altrettanto inscalfibile, che altro non è se non la trasformazione di un’opinione, contrabbandata come verità di fatto, con un’altra fittizia verità di fatto. Esattamente il contrario dell’approccio a tali questioni proposto dalle regole della filosofia della scienza, cioè di verificare un’ipotesi provando a confutarla. Viceversa, la caduta da cavallo è un fenomeno emozionale tipico dell’allarme che suona quando arriva il nemico all’improvviso, la calata degli Unni o l’orda degli immigrati subsahariani o del subcontinente indiano pronti ad aggredire il benessere della classe media. Fatto utile per manipolare il consenso, certo diverso da quello di altre epoche, sebbene agisca sempre sul medesimo terreno, poiché la volubilità dell’elettorato discende dal fatto che sono le emozioni a innescare le azioni, che a loro volta influenzano il pensiero che si articola sulle loro conseguenze, non come creatore delle premesse intellettive delle azioni. Anzi, i manipolatori del pensiero evitano accuratamente di sollecitarlo, per evitare che agisca sullo stato della coscienza.
A questo punto deve chiarirsi perché a ogni messaggio, immagine, slogan, suono, strillo, lampo di luce che colpisce l’emotività, squilla dentro di noi una reazione, così come, se in un cinema affollato qualcuno grida “al fuoco, al fuoco!” tutti balzano in piedi e cercano di fuggire. È il medesimo meccanismo cognitivo dei nostri antenati che vivevano nelle foreste e nelle caverne, poiché nei cervelli umani sono in funzione due interruttori. Uno che, al ricevimento dell’impulso, attiva la reazione di fuga o di attacco, necessario a salvare la pelle ai nostri antenati che reagivano a improvvise minacce, o a suoni minacciosi o a pericoli incombenti e sconosciuti mentre il secondo interruttore è molto diverso: è quello che, di fronte ai medesimi impulsi, fa scattare la parte razionale, riflessiva, la parte meno animalesca del nostro cervello, quella che spinge l’homo sapiens a fermarsi e a ragionare, e a prendere in esame non solo il messaggio visivo o sonoro che contiene l’allarme, ma i suoi presupposti, le sue cause, i suoi artefici, le ragioni della sua natura e le conseguenze dei suoi effetti. Che poi è quello che ci ha consentito di uscire dalle caverne e probabilmente di cessare di mettere nel pentolone gli stranieri, anche se i nostri attuali governanti vorrebbero reintrodurre l’usanza.
È comunque probabile che i nostri antenati cavernicoli che privilegiavano il funzionamento del secondo interruttore siano in gran parte finiti nelle pance dei predatori o fatti a pezzi dalle tribù ostili o inceneriti negli incendi boschivi e via dicendo, mentre la selezione naturale ridusse il numero di chi non ascoltava l’allarme quando scattava il primo interruttore. Alla fine, la maggioranza dei sapiens attuali possiede un primo interruttore ipertrofico e un secondo quasi sempre spento. Tuttavia la nascita (o l’invenzione) della scrittura e il dialogo, hanno consentito lo sviluppo delle funzioni del secondo interruttore, la cui operatività non dipende dalla reazione istintiva del cavernicolo, ma attiva le funzioni cognitive superiori, cosa ben chiara ai propagandisti politici e ai maghi della pubblicità: gli slogan, i messaggi semplificati, le musiche bandistiche, le marce militari, le arringhe dei capipopolo, le paure indotte dai complottisti, sono tutte operazioni che hanno il medesimo scopo: suscitare forti emozioni, spegnere il senso critico, impedire l’approfondimento sul contenuto del messaggio, impedire il confronto delle idee.
Le ideologie, a differenza degli ideali, si nutrono di slogan, e mentre gli ideali sono idee che si nutrono di parole, e invogliano allo studio e all’analisi di quanto li sostengono e di quanto li contraddicono, poiché gli slogan sono parole senza idee, e che hanno tutti una cosa in comune: tutti contengono un dato di verità, ma contengono anche qualcos’altro, cioè il significato che diverge dal significante, poiché il significante è il testo letterale del messaggio, o la concione nel social o sul palco di un tizio o una tizia che si presentano indossando un abito rassicurante (il camice bianco o la veste professorale, o la divisa di appartenenza a un gruppo, o la faccia già conosciuta). Ma il significato è nascosto, e richiede fatica e senso critico per venir decodificato. Lo sapeva molto bene Goebbels col suo Ministero della propaganda e dell’illuminazione del terzo Reich (Galli Ideologia, Il Mulino, 2022: 24) e lo sanno i politici che privilegiano i comizi al confronto, rifiutando le conferenze stampa come un inutile “rito polveroso”. E questa è la ragione per cui nessuno esamina il fondamento della legge morale scevra dall’imposizione.
Questo fatto, tuttavia, è strettamente connesso con l’attuale aumento esponenziale delle informazioni, categorizzate per blocchi (unico modo di gestirle), che ha avuto un effetto catastrofico sull’intelligenza, sulla morale, sulla tenuta della democrazia, essendosi accompagnato alla crescita esponenziale dell’infosfera dominata dal mondo digitale, in cui, come vedremo, impera il manicheismo dogmatico, a sua volta connesso con la trasformazione delle opinioni in verità di fatto.
Si noti, in proposito come il Manicheismo, sin dalle origini in Persia nel III secolo d.c. ad opera di Mani, sostenendo la contrapposizione assoluta e il dualismo tra i due principi del bene e del male, considerati divini in eguale misura, fosse pacificamente un’opinione ammantata di verità, mentre il Dogma, essendo una proposizione accettata come vera in assoluto e quindi non soggetta a discussione, è analogo alla verità di fatto.
Ebbene, le ricerche scientifiche su quanto accade nel panorama informatico, hanno accertato che «il 72% degli utenti internet tra i 16 e i 74 anni in UE leggono siti, giornali e riviste on line» ma questo arricchimento informativo attraverso un oceano di input è faticoso, e il cervello va a risparmio energetico, talché vengono trattenute pochissime informazioni affinché sia più facile orientarsi e comprendere (Quattrociocchi e Vicini, Polarizzazioni, Franco Angeli ed. 2023: 57), cosicché l’interpretazione selettiva trasforma il significato dei contenuti scelti in modo che risultino coerenti ai valori dell’utente. Ma non solo: le persone cedono al fascino di narrazioni che addolciscono la complessità, tracciando nessi di causa-effetto tra gli avvenimenti (ibidem: 30) dove proliferano le storie complottistiche. Inoltre, le scie dei social individuano e raccolgono abitudini, amici e ciò che piace, e questo, attraverso un sistema informatico, il BOT, che utilizza algoritmi elementari che assorbono le dinamiche di influenza destinate ad agire sui singoli utenti del socialnetwork (Ibidem: 113).
Da lì, alla polarizzazione di gruppo il passo è breve e inarrestabile, poiché non si tratta di stupidità, ma di conformazione cognitiva, in quanto «l’essere umano tende alla coerenza e ognuno adotta comportamenti che servono a ridurre lo stress psicologico causato da convinzioni che smentiscono le sue. In uno sforzo di autotutela il cervello mette in atto due strumenti cognitivi: uno detto “Challenge avoidence”, evitare le sfide, sfuggendo così allo smascheramento dei propri errori; e l’altro detto “Reinforcement seeking”, ricerca di rinforzo per scoprire che si ha ragione» (ibidem: 85-86).
Viceversa, soltanto la disponibilità ad affrontare uno sforzo mentale può causare un cambiamento: non stupidità, dunque, ma una naturale pigrizia intellettuale. E non solo, poiché l’uso dei like coi quali si aderisce a un’opinione, passa attraverso una dimensione verbale dialogica condivisa, caratterizzata da sintesi e schematismo (ibidem: 87), cioè dalla povertà linguistica della semplificazione, che diventa mezzo di identificazione sociale (ibidem: 78-79) creando così un sistema concettuale che non passa attraverso la coscienza critica, ma costruisce categorie psicologiche con cui viene descritto il mondo. Ed ecco come le opinioni si trasformano in verità di fatto condivise da gruppi il cui pensiero viene scambiato in un ininterrotto ping pong di pensieri iper semplificati e uguali. Sono le c.d. echo chambers, nelle quali, ad esempio, dilagano e trionfano le tesi della cancel culture sulla distruzione delle statue dei personaggi del passato che offendono le minoranze, come se quest’azione servisse a modificare la storia cancellando la memoria, in modo analogo alla disintegrazione dei monumenti archeologici a Ebla, o delle grandi statue del Budda in Afganistan, ritenute il veicolo di verità pericolose e antitetiche a quelle dominanti.
Ora, come abbiamo visto, essendo l’emotività fonte dei sentimenti, il contenuto emotivo delle informazioni ne determina la diffusione, mentre vengono costruite e rafforzate le c.d casse di risonanza, essendo gli utenti attratti dalle notizie che rafforzano le loro memorie preferite e rifiutando quelle che le minano (ibidem: 104-105).
Detto questo, un semplice esame sulla natura delle informazioni che attivano l’emozione, consente di rilevare come «quando persone che la pensano allo stesso modo parlano tra loro, è molto probabile che finiscano per estremizzare le proprie opinioni» (ibidem: 114). Si tratta della c.d. polarizzazione di gruppo. Ebbene, «i contenuti più promossi dalle piattaforme o che hanno più successo sono quelli che fanno leva sull’indignazione. Nel nostro Paese, come accertato da un’indagine svolta per il Corriere della Sera nel 2018, il tema dell’immigrazione l’ha fatta da padrone, mentre l’indagine di Peter Pomerantsev, consulente della Casa Bianca e premio Pultizer Anna Applebaum, ha accertato che i politici del campo c.d. populista sono accomunati da un linguaggio infiammatorio e idee controverse per attirare l’attenzione e dividere l’elettorato in rozze guerre di “noi” e “loro” (ibidem: 115,117).
Tutto ciò comporta un’ulteriore riflessione sulle conseguenze dei fatti sociali presi in esame, poiché l’indagine del Corriere della Sera e Ca’ Foscari sul “constructive journalism” parte dal presupposto che «l’odio è un’emozione umana, e in quanto tale, non si può reprimere o annullare» e che appartiene a una «libertà inalienabile, e si esprime» come accadde all’esplosione della pandemia del Covid 19, «nel desiderio del male altrui» (ibidem: 122), con l’effetto di spingere all’azione, talché «le conseguenze di azioni di comunicazione possono essere terribili per le vittime. Possono essere organizzate da chi voglia sfruttare le debolezze altrui per ottenere vantaggi economici o per aggregare consenso in chiave politica» (ibidem: 123).
Altresì questo fenomeno è connesso con la disinformazione capace di attivare le emozioni e di incidere sulle mappe mentali degli utenti, il che, analizzato sul piano delle polarizzazioni di gruppo, porta a rilevare quanto e come la trasformazione delle opinioni in verità di fatto supportate dalle echo chambers, trasformi facilmente la menzogna in verità e metta in azione conflitti mentali fra gruppi, trasformando il luogo del confronto in lotte tribali.
Come si può constatare, in tutto questo, dominato dalla tecnologia, è totalmente assente l’intervento della legge morale che, viceversa, costituisce un caposaldo dei principi etici del liberalismo, che ha inventato anche i valori costituzionali sanciti nella nostra Legge Fondamentale in vigore dal 1948, il cui fondamento etico è radicalmente contestato dai vari manicheismi dogmatici che vedono nel liberalismo la causa prima del Capitalismo, come male assoluto da abbattere, per cui l’astuzia malevola della Ragione capitalista contrabbanda il Capitalismo, male assoluto, sotto l’egida dei valori universali, anch’essi quindi da abbattersi.
Si ponga attenzione, ad esempio, all’assunto per cui ogni manifestazione delle relazioni umane in Occidente è ritenuto frutto, effetto e causa della relazione umana funzionale al Capitalismo, talché la morale, in tutte le sue forme, essendo irrimediabilmente borghese, è uno strumento del dominio subliminale del Capitalismo, come viene argomentato e ripetuto nell’interessante e coltissimo testo di Mimmo Cangiano intitolato Guerre culturali e neoliberismo (Ed. Nottempo, 2024), secondo il quale l’universalismo capitalista consiste nella creazione di una società in cui gli esseri umani si rapportano tra loro in quanto dominati dal concetto universale astratto della merce, vale a dire da quella direttiva che riformula ogni relazione con i propri simili come rapporto mercificato e finalizzato al consumo, e «si fonda su ostilità e divisioni (di classe, di genere, di razza, di alienazione dei propri simili, competizione fra gli stessi capitalisti) che vanno continuamente rinfocolate quanto standardizzate attraverso la falsa coscienza» (ibidem: 61).
Ne consegue, in ossequio al dogmatismo proclamato, che quanto argomentato da Edward Freeman in Business Ethics, 1984, secondo il quale il Capitalismo non deve badare al solo profitto, ma a tutti i portatori di interessi coinvolti, come l’ecologia, le malattie, il trust, il dumping, non è una seria ipotesi finalizzata a impedire le derive del Capitalismo, tanto quanto, se ne può dedurre, la falsa coscienza di Bob Kennedy, che, poco tempo prima di venir ucciso, sostenne che il PIL non dovesse venir considerato il punto di riferimento della felicità collettiva, ma si tratta del parto della medesima ideologia da abbattersi, cioè l’universalismo dei valori. Mutatis mutandis, ragionando allo stesso modo, anche la Primavera di Praga di Dubcek nel 1968, come progetto di umanizzare il Comunismo, sarebbe stata logicamente stroncata dai carrarmati del Patto di Varsavia…
Non solo, la negazione radicale di ogni lotta culturale intrapresa contro le derive spietate del neoliberismo, molto ben argomentate e incontrovertibili nel libro di Cangiano, e sovrapponibili alla critica di Colin Crouch (Post democrazia, cit.), sono da respingersi, in quanto frutto della morale borghese, che ostacolerebbero i progetti di abbattimento del Capitalismo, poiché lo rafforzerebbero adattandone le sovrastrutture ideologiche a un modo di operare simbolico più tollerabile, «verso un Capitalismo dal volto umano» (ibidem:106).
Sul punto è interessante ricordare come la Terza Internazionale, il Comintern, attivo dal 1919 al 1943, sostenne che la socialdemocrazia tedesca, per analoghe ragioni, era molto più pericolosa del Nazionalsocialismo di Hitler. Il dogmatismo manicheo sui cui presupposti si basa il progetto rivoluzionario nella sua visione del mondo diviso in amico (bene assoluto) e nemico (male assoluto) non si arresta nemmeno di fronte agli «intellettuali di sinistra organici a un capitalismo sempre più attento alla dimensione immateriale dei consumi» talché tutte le problematiche sociali occidentali (razzismo sistemico, ideologia multiculturalista, globalizzazione del pianeta, scalata sociale delle minoranze, trasformazione sociale, decolonizzazione, sessismo, soggettivazione della Storia, il fascismo come nemico delle libertà individuali e repressore di quelle civili) non sono dall’Occidente stesso risolvibili se non attraverso l’abbattimento del Capitalismo e, pertanto, si deve inerire, la distruzione della stessa società e civiltà occidentale, di cui si rifiuta l’etica tout court (ibidem: 137, 140, 141). E pazienza per le vittime necessarie…
Ora, premesso che non è questa la sede per svolgere un’ampia analisi e un commento esaustivo di un testo, che, si ripete, è pregevole per la sua ricchezza argomentativa e documentale (d’altronde chi scrive ha passato 35 anni della sua vita a redigere sentenze di I e II grado ben consapevole dell’aporia del sistema giudiziario persuasivo di cui ha fatto parte, per cui può venir motivato tutto e il contrario di tutto, così come alle dotte argomentazioni contenute in Guerre culturali ben può seguirne un quintuplo a loro sostegno). Osiamo comunque una riflessione ardita, ricavata liberamente dalla lettura di Emmanuel Levinas (Alcune riflessioni sulla filosofia dell’Hitlerismo, Quodlibet, 1996) e di Donatella Di Cesare (Heidegger e gli ebrei, Boringhieri 2016), per cui il marxismo, come fonte ideale sui cui fondare l’eredità mostra qual è il compito dell’essere umano, come ultimo compito dell’umanità, essendo l’uomo un essere di pura potenza.
Allora questo, ponendosi in contraddizione con il liberalismo coincidente con la forma della libertà sovrana della ragione, avrebbe un punto in comune con l’hitlerismo, assumendo che l’essere, nella sua materialità, determina la coscienza così come l’essere heideggeriano coincide con l’ente e lo supera costruendo in Terra il suo dominio. Vabbè, potenza del dogma…
Non è questo il punto, però, bensì evidenziare come queste forme di manicheismo dogmatico siano comuni in ogni ideologia, mossa da semplificazioni utili al tirare il proprio carro, come lo slogan tatcheriano del TINA (There is no alternative), o anche confondendo le cause con gli effetti, tanto da sostenere che non si producono i grembiulini rosa a causa delle differenze di genere, ma si esalta la differenza di genere per giustificare l’incremento della produzione dei grembiulini, o si sostiene che non è la guerra a causare un incremento nella produzione delle armi, ma è il Capitalismo, attraverso i produttori delle armi, a causare la guerra, con buona pace del comunista Kim il Jung.
Parimenti liquidare le dottrine keynesiane come inadatte ad affrontare le problematiche del Capitalismo assumendo che non garantiva più i livelli della domanda aggregata per cui l’investimento pubblico non era garanzia di ripresa, ha almeno quattro significati:
1) Semplificare il keynesismo schiacciandolo sulla teoria della moneta del grande economista, obliterando la sua opera successiva e più importante, cioè la “Teoria generale”;
2) Individuare lo sviluppo del Capitalismo come frutto di una legge storica deterministica;
3) Non comprendere come e perché il neoliberismo sia stato il predatore in agguato fin dal 1938, nel preparare il suo assalto al mondo in attesa del momento propizio…;
4) Ignorare la complessità dello sviluppo delle dottrine keynesiane, attraverso la lezione di Sraffa, di Joan Robinson, di Federico Caffè e in oggi del nostro Alessandro Roncaglia, come minimo…
Ne consegue che oggi, di fronte alla globalizzazione economica che sembra aver ridotto gli Stati nazionali a meri soggetti in competizione con soggetti non politici ma meramente economici, come le grandi multinazionali, l’uso di slogan semplificatori introiettati dai soggetti come leggi storiche ineludibili, offre ai manipolatori del pensiero l’opportunità di aggregare consenso verso progetti di modifiche istituzionali rappresentate con estrema semplificazione lessicale sull’immigrazione, la repressione, il controllo della Giustizia, lo scontro generazionale e altro.
In conclusione, chi scrive ritiene che tutti abbiamo bisogno di credere in un dato di verità necessario per intravvedere il punto di approdo del percorso accidentato attraverso l’oceano del dubbio, tanto più vero quanto più pregnante è il riconoscimento del pluralismo delle idee (Si veda in merito il bel libro di Giancarlo Bosetti, La verità degli altri, Boringhieri 2019). Tuttavia, ogni approdo non significa la cancellazione della realtà attraversata perigliosamente, bensì il punto fermo al quale ci si afferra perigliosamente, poiché il percorso non finisce lì, così come insegna la storia dell’umanità.
E soprattutto perché l’oceano del dubbio non scompare con l’approdo al dato di verità: anzi, le sue onde minacciose, le sue profondità inesplorate, i fondali tenebrosi in cui giacciono le vittime che hanno dovuto soccombere agli uragani e alle tempeste scatenate dai dogmatici, ai gorghi e ai predoni che lo abitano, e non smette mai di aggredire l’approdo, erodendone la consistenza.
Ne consegue che la credenza non può fare a meno d’essere messa in questione, e ogni volta significa perdere la presa sul luogo di approdo. Quanto il pensiero occidentale abbia portato se stesso ad avventurarsi sull’oceano del dubbio ha due significati: il primo è tale da aver più e più volte capovolto, con le sue premesse cangianti, quel dato di verità, e ciò con effetti spesso catastrofici. Ma il secondo significa aver permesso la trasformazione della conoscenza in credenza razionale, e prescinde per questo motivo del tutto dall’idea che tale binomio equivalga a una posizione di forza vincente.
Anzi, e proprio oggi, si assiste allo scricchiolio di quel binomio aggredito non dal dubbio, salutare per impedirne la trasformazione in dogma manicheo, ma da dogmi manichei sempre più forti. Che l’esito sia la sconfitta di tale binomio condannato a vivere un’esistenza catacombale, non gli toglie il suo valore, che sta nella continua necessità di mettere in relazione i fatti con la loro interpretazione sincretistica, ma significa altresì la sua estraneità al dato di potenza rivestito di verità, che impone con la violenza il dominio sulle cose e sulle menti.
In definitiva, purtroppo, si deve concordare col bel libro di Maurizio Ferraris edito dal Mulino nel 2016: L’imbecillità è una cosa seria … e terribilmente pericolosa!
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.
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