Per gli Sguardi sul cinema di settembre, abbiamo proposto ai nostri collaboratori e collaboratrici il documentario, della durata di 79 minuti, Che ore sono, di Marta Basso e Tito Puglielli, uscito nel 2023, Per la densità e la specificità del tema affrontato abbiamo chiesto una riflessione a due psicoterapeuti, Amedeo Falci e Ferdinando Testa, che per la prima volta sono presenti su «Dialoghi Mediterranei», e abbiamo inoltre chiesto ai due giovani registi, che hanno realizzato il documentario nell’ambito della propria formazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, sotto la direzione artistica di Costanza Quatriglio, un commento ai quattro contributi raccolti (Dall’Orzo; Falci; Salanitro; Testa) e una restituzione dell’intenso percorso che li ha condotti alla concretizzazione di Che ore sono.
Il documentario, vincitore (con voto unanime) della seconda edizione del Premio Cinematographe.it, Miglior Film della sezione “Sicilia Doc” all’interno del Sole Luna Doc Film Festival 2024, ci conduce all’interno di uno spazio residenziale, non più chiuso e inaccessibile, mostrandoci le storie di vita di alcuni ospiti, Giuseppe, Ursula e Bianca e di altri pazienti affetti da problematiche di grave natura psichiatrica.
Eludendo la dimensione elencativa o didascalica del mero report, Che ore sono narra, a partire dalle stesse ferite dei registi (come essi stessi scrivono) senza retorica e senza i cliché (come i nostri commentatori, autori e autrici, hanno rilevato, soprattutto Testa e Falci), il quotidiano dolente di un piccolo gruppo, trattato farmacologicamente e accolto presso la comunità psichiatrica dell’Asp 6 di Palermo, alla Guadagna. Come spiegano i registi: «nella comunità (…) che abbiamo frequentato per circa un anno e mezzo, non si faceva terapia di parola. C’era una psicologa tirocinante, ma la sua presenza era irregolare e il suo lavoro considerato alla stregua di un’attività marginale, accessoria. L’unica terapia regolare era quella farmacologica, tre volte al giorno: alle 8; alle 14; alle 20, prima di coricarsi. Gocce e pillole. Stop».
Il tempo, elemento centrale del film (come evidenziato dalla reiterata domanda di Giuseppe, dal titolo del documentario e dai cinque contributi), tempo che va sempre reinventato (vd. Basso e Puglielli) scandito dalla terapia, sottolineato dagli orologi (alcuni non funzionanti) che Giuseppe stesso porta ai polsi, è un tempo statico e ripetitivo, organizzato in un continuum circolare, la cui regolazione dipende dalla cadenza coattiva del trattamento farmacologico, del cibo, del ritmo sonno/veglia, mostrando come:
«se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo» [1].
A questo tempo costrittivo «che contabilizza» (Salanitro), «il tempo dell’attesa» (Testa) è collegato uno spazio altrettanto sovra-ordinato e impenetrabile, quello della residenza periferica che ospita i pazienti. Pur non trattandosi, certamente, di una struttura manicomiale come quelle descritte da Franco Basaglia, nella casa dove Giuseppe, Ursula e Bianca sono ricoverati, tempo e spazio insieme, enti estranei e imposti, governano la vita e la struttura delle narrazioni dei protagonisti e la ripetitività degli eventi che caratterizzano le loro esistenze recluse. Il tempo, come afferma Platone, «immagine mobile dell’eternità», nelle narrazioni di Giuseppe, Bianca e Ursula, e nei gesti degli altri ricoverati, diventa a volte memoria, ricordo, frammento. Lasciando che affiorino sia la sofferenza, sia alcuni brevi istanti di felicità narrati nell’incipit del film, come evidenziato da Falci.
Sempre presente il nodo delle relazioni, dell’affettività, della genitorialità interrotta, dell’amore negato o anelato, ci mostra quanto il sistema delle relazioni interpersonali, con i figli, con i genitori, tra i ricoverati, sia al centro. Come affermano Gallese e Morelli in Cosa significa essere umani [2], «tutti abbiamo bisogno di riconoscimento (…) questa dinamica invisibile spiega la sofferenza che interviene quando nessuno riconosce la nostra differenza, causando la mancanza totale di validazione del nostro essere.» Ecco emergere il “noi” di cui siamo parte, visto in una prospettiva paradigmatica che presuppone un’integrazione tra mente e corpo e che combatte ciò che Gallese e Morelli definiscono “opacizzazione dell’io”. “Ciascun individuo”, nota Dell’Orzo, è «immerso nella società e fa parte di differenti reti relazionali comunitarie», ed è dunque «il magma inscindibile di percorsi, relazioni, traumi e conquiste, caratteristiche individuali e alterazioni dell’io indotte, esacerbate o attutite nell’incontro del sé col mondo circostante».
Pur vivendo in un doloroso presente, la coscienza e la rievocazione del passato e delle proprie radici, apre all’attesa del futuro e del cambiamento, oltre l’epilogo del film. In tal senso il tempo di Giuseppe, Ursula e Bianca viene percepito e restituito da questi in termini soggettivi: l’orologio, infatti, con le lancette che scandiscono la misura degli accadimenti fisici, si traduce nel tempo interno e originario della loro coscienza in cui prevalgono le fratture psichiche, le sofferenze, gli irrisolti. Una pastosa e confusa temporalità discontinua, fatta anche di pause e silenzi che, nella percezione soggettiva, restituisce e contiene i vissuti giovanili, infantili, adolescenziali.
Come ci raccontano i registi, la lunga permanenza dentro la struttura ha consentito che si istituisse un legame fiduciario tra gli stessi film-maker e i pazienti, che si lasciano riprendere mentre ascoltano musica (insieme piacere e dissociazione), mentre siedono, o parlano al telefono, o sensualmente danzano (Salanitro), mentre emergono, tra rabbia, malinconia e tenerezze smarrite, le contrastanti emozioni, mentre evocano liberamente e con sofferenza a volte implosa un’infanzia incompresa, caratterizzata da abbandoni, disconoscimenti, violenza, o il proprio recente passato contraddistinto da fratture dolorose e da perdite alle quali non si rassegnano e che, come notano alcune letture, vengono talvolta simbolizzate attraverso oggetti sostitutivi, quasi fossero oggetti “transizionali” [3].
Giuseppe, nello specifico, racconta in modo disconnesso il misconoscimento della propria identità da parte della famiglia, poi pettina i lunghi capelli neri che lo fanno somigliare a un indiano d’America; Ursula il rifiuto e l’abbandono (che, come dice Dell’Orzo, «diventa esso stesso una malattia»), le scelte conseguenti che l’hanno portata a prostituirsi, lo stigma da parte della famiglia di origine e la perdita della relazione con i figli; Bianca la crisi che ha rappresentato un punto di non ritorno e di crollo della propria condizione, comunque rivendicata e in parte mantenuta (essere comunista e berlingueriana, pacifista e ambientalista), e alla perdita delle relazioni amicali e familiari, soprattutto con la figlia alla quale lascia amorevoli messaggi in segreteria, ridotte a fantasmatici simulacri.
Cedimenti, autolesionismo, tentativi di suicidio, «naufragi affettivi» (Falci) corpi che, come affermano i registi, raccontano la sofferenza; corpi che devono essere accolti e riconosciuti superando la visione tradizionale, come afferma Basaglia: «in medicina, l’incontro tra medico e paziente si attua nel corpo stesso del malato. Questo corpo, che si offre al medico per essere curato, non corrisponde al “corpo vissuto”, al “corpo proprio”, con tutte le modalità e le implicazioni soggettive ad esso inerenti, ma viene considerato dal medico nella sua nuda materialità ed oggettualità. Che il corpo visitato dal medico appartenga al soggetto specifico che lo vive e lo significa, ciò esula dalla finalità del rapporto che viene ad instaurarsi. Quel corpo sofferente, significante del soggetto de-personalizzato, non viene preso in causa in questa relazione particolare, ma viene mantenuto ad una certa distanza. In questo senso «l’incontro tra medico e malato si attua attraverso quel corpo oggettivato dallo sguardo psichiatrico che lo esamina, (…) ed un corpo cui non viene data altra alternativa oltre essere oggetto agli occhi di chi lo esamina. Corpo estraneo, dunque, a quest’ultimo quanto al soggetto che lo significa, pur essendo insieme il momento cruciale e la finalità stessa della relazione» [4].
Il tempo, mancante, evocato, doloroso, carente della libera esperienza vitale, ha però nel film una radicale funzione etica e politica: pur guardando al desolante passato attraverso le storie dei protagonisti, il tempo rotto e svuotato, omogeneo e scarnificato delle e dei pazienti psichiatrici, mette in evidenza quanto la narrazione di ognuno possieda un valore rivoluzionario, segno della coscienza emergente e dei processi esistenziali sui quali intervenire e agire con azione riparativa, per invertire ciò che nota W. Benjamin a proposito de L’Horloge di Charles Baudelaire, quando «la consapevolezza del tempo che scorre vuoto e il taedium vitae sono i due pesi che tengono vivo il congegno della melancolia» [5].
Come notano alcuni autori, in particolare Falci, la Legge n. 180, del 1978, conosciuta come Legge Basaglia «stabilì l’abolizione degli ospedali psichiatrici, dove risiedevano prima le persone emarginate dalla società e dalle famiglie, recluse e private dei loro diritti sulla base di attestazioni mediche». Cassando i manicomi e le terapie abitualmente attuate, in teoria le modalità di cura e di aiuto ai pazienti e alle famiglie sarebbero dovute mutare radicalmente, ma la rivoluzione basagliana non si è mai realmente innestata nella nostra società, affermano opportunamente Basso e Puglielli. La trasformazione del manicomio da luogo di contenzione, di abuso e di cancellazione dei diritti collettivi e individuali a spazio più aperto di cura e condivisione, è avvenuta solo in parte. Ciò nonostante, come rilevano Falci e Testa, «ogni disagio grave non deve essere trascurato e deve essere guardato con attenzione». Si tratta infatti di «un dovere etico di fronte alla sofferenza mentale», quasi dimenticando «che in ognuno esiste una parte sana ed una malata e il nostro compito è quello di negoziare tra queste due parti. Inoltre, questa visione simbolica e negoziatrice la possiamo applicare anche al sociale, con la consapevolezza che il conflitto, adeguatamente compreso e utilizzato, è fonte di trasformazione e liberazione di energia, la libido, da mettere al servizio della creatività» (Testa).
L’ospedale psichiatrico, alla stregua delle carceri una sorta di “istituzione totale” non è più come quello descritto da Nellie Bly, giornalista americana di fine XIX secolo, o rappresentato in film come Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman, ma come ben esplicitato dal film di Basso e Puglielli e come ribadiscono con forza i commenti degli autori e delle autrici (v. a es. Dell’Orzo) che l’hanno con attenzione anatomizzato, i luoghi dove siano accolti i pazienti psichiatrici necessitato di un sostanziale ripensamento, così come le politiche sociali, urbane e sanitarie che trattino la questione. Tra luogo, politiche, azioni e città esiste una profonda interrelazione che andrebbe approfondita e affrontata, anche in rapporto alla struttura urbana e al sostegno alle famiglie, purtroppo assai spesso carente [6]. È infatti fondamentale che vengano varate nuove politiche di salute mentale rigenerative in ambito generale e all’interno di strutture che possano accogliere i pazienti, allestendo nuovi spazi esterni e interni che possano maggiormente accogliere le famiglie. La rete di salute mentale, infatti, che si fa carico della domanda legata alla cura, all’assistenza e all’inserimento dei pazienti dovrebbe comprendere, oltre ai Centri preposti in stretto raccordo con medici di base e famiglie, reali e continuative azioni di collaborazione con il terzo settore, con le varie agenzie di settore della compagine territoriale e con gli Enti di governo urbano ed extraurbano. Quanto concerne il “recovery”, con cui si intendono i processi di riabilitazione tesi a far riacquistare autonomia e qualità della vita, ovviamente dietro valutazione di personale specializzato e competente, esso dovrebbe essere portato avanti in spazi né iperprotettivi e passivizzanti né segreganti, ripensando l’idea del “margine”.
A tal proposito Falci ricorda: «dal punto di vista medico ed istituzionale non veniva preso in considerazione come gli effetti della cronicizzazione e della reclusione si intersecassero irreversibilmente con i disturbi della sfera mentale, aggravando il deterioramento della personalità degli internati». All’interno delle strutture ospedaliere e residenziali (extra ospedaliere) quindi si dovrebbero svolgere programmi terapeutici e socioriabilitativi, che possano offrire opportunità nettamente emancipative, incrementando la rete relazionale e gli scambi con il mondo esterno.
La collocazione delle strutture dovrebbe, inoltre, privilegiare aree urbanizzate per scongiurare l’isolamento delle persone ospitate favorendo gli scambi sociali con il quartiere i cui spazi potrebbero, anche in prossimità delle residenze, essere ripensati in termini di “porosità” e usi alternativi (es. orti urbani; piccoli mercatini; piazze protette; ecc.). Diventa interessante, poi, ipotizzare ulteriori forme di “abitare assistito” sperimentato anche tramite il cosiddetto «budget di salute» [7], a patto che esso non divenga una discriminante economica tra pazienti appartenenti a differenti categorie sociali, non privilegiando quindi i più abbienti a scapito di quelli economicamente e socialmente più fragili [8]. Oltre alle risorse monetarie e professionali dell’individuo e della famiglia, andrebbero potenziati e incrementati infatti i finanziamenti pubblici e privati (ipotizzando partnership pubblico/privato con opportuni incentivi), insieme a quelli provenienti dall’azienda sanitaria, dai servizi sociali del Comune e dalle energie del terzo settore (opportunamente finanziato), con l’obiettivo di sviluppare piani terapeutici ad hoc avallati dai pazienti, favorendo dinamiche di incremento della fiducia in sé e del senso di autoefficacia, pensando a un reintegro nella vita sociale. Tali temi dovrebbero essere inclusi all’interno degli strumenti di programmazione e di pianificazione territoriale e urbana, alle varie scale della progettazione.
Torna alla memoria un racconto cinematografico di grande potenza, offerto dal film del 2003 (durata 360 m.), di Marco Tullio Giordana, La meglio gioventù. Ispirato anche dall’opera di Franco Basaglia il film racconta, tra l’altro, il processo riabilitativo di Giorgia Esposti (Jasmine Trinca) che ricoverata in un ospedale psichiatrico viene sottoposta a vari trattamenti tra cui l’elettroshock. Uno dei protagonisti, il più anarchico e pulsionale Matteo Carati (Alessio Boni), decide di portarla via, insieme al fratello Nicola (Luigi Lo Cascio) che poi diverrà giusto uno psichiatra alternativo, per metterla al sicuro. Giorgia, purtroppo rifiutata dal padre che non intende riprenderla a vivere con sé, viene riportata in clinica e poi ritrovata alcuni anni dopo, in stato di semi incoscienza e delirio, da Nicola, ormai psichiatra autenticamente “basagliano”, in un sotterraneo di una casa di cura, dove sono rinchiusi in condizioni disumane numerosi pazienti. Nicola prende in cura la ragazza che, detto in sintesi, migliora progressivamente tanto da poter uscire dall’ospedale e trasferirsi in una casa famiglia dove inizierà una nuova vita, più autonoma, aperta all’esterno e alle attività sociali e lavorative. Come sostiene ancora Basaglia: «dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale [...]; viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione» [9].
Come opportunamente ricorda Falci:
«La radice fenomenologica della critica basagliana valorizzava, per l’appunto, una diversa concezione del ‘malato mentale’ come essere umano da riabilitare soprattutto nel suo valore di persona. Bastava ascoltare le semplici richieste ‘umane’ portate avanti dagli internati: poter uscire, tempo libero, rapporti umani con il personale di cura, possibilità di relazioni umane e di ripristino dei contatti con le famiglie. Attraverso il riconoscimento della sua essenza di ‘soggetto’ proprio nell’avanzamento di tali richieste, il degente era destituito dal suo ruolo di ‘folle’, venendo restituito alla sua esistenza e presenza di uomo in relazione con il mondo».
Se l’obiettivo non è solo assistere, ma destituire il ruolo di “folle” e di escluso, e abilitare al reintegro in comunità e in famiglia, va ribadito con forza l’insieme di azioni e politiche da implementare e portare avanti, attraverso un costante e profondo ripensamento. Accesso alla casa, “cluster housing” (mini alloggi a schiera con giardino), possibilità di trascorrere periodi di tempo in famiglie diverse da quella di origine per recuperare benessere (inserimento eterofamiliare) sono forme documentate che portano benefici rilevanti, tra cui la diminuzione di uso di ansiolitici o di ricoveri, che portano i pazienti verso una maggiore autonomia. Sarebbe inoltre opportuno ripensare le residenze stesse in termini di servizi di comunità e prossimità per organizzare con le persone e le loro famiglie azioni di assistenza domiciliare anche a casa propria, in alloggi indipendenti o in cohousing. A tali forme di comunità diffusa che incontrano la malattia (come suggerisce Basaglia) al di fuori delle istituzioni partecipano non solo il terzo settore, ma anche le parrocchie. Un insieme di realtà attive finalizzate a coinvolgere parenti e amici con un approccio fondato sul dialogo e sul confronto aperto con psicologi, psicoterapeuti, anche al fine di seguire gruppi multifamiliari per mettere in evidenza la stretta relazione di interdipendenza tra disagio psichico e traumi e per favorire la risocializzazione di chi abbia gravi disturbi di personalità.
In tal senso è utile ricordare il contributo della già citata Nellie Bly. La reporter americana, infatti, nel 1887, fingendosi paranoica di fece internare nel manicomio di Blackwell’s Island (oggi Roosevelt Island), e portò avanti un’inchiesta tesa a scoprire le condizioni delle milleseicento ricoverate, mettendo in luce le violenze subite da queste che, internate, difficilmente avrebbero visto la luce fuori dall’ospedale psichiatrico. Durante quei dieci giorni – il cui resoconto fu pubblicato sul quotidiano newyorchese «New York World», diretto da Joseph Pulitzer, e poi nel volume Ten Daysin a Mad-House – che misero in evidenza un rimosso che non riguardava solo gli Stati Uniti, ma l’intero pianeta, Nellie subì maltrattamenti e violenze, insieme alle numerose donne ritenute pazze, incontrate dalla reporter newyorchese. Una rimozione voluta dalla «società dei sani che mantiene il volto verso la parete della grotta, vacuamente impegnata a dare una forma e un senso a quella realtà altra così complessa e intimamente risonante da non riuscire a essere colta, a essere catalogata, se non nella stilizzazione deformata di una sua ombra piatta», come afferma Valeria Dell’Orzo.
Soggetti fragili, esclusi, emarginati, che rimandano all’esercito di spiriti erranti e senza patria, senza cittadinanza, privati di ogni diritto (Falci) che dall’istituzione dei manicomi fino alla loro abolizione vissero giorni di vero orrore. Un passo emblematico, tratto dal libro di N. Bly rende chiara quale fosse la condizione delle ricoverate a Blackwell’s Island:
«The water was ice-cold, and I again began to protest. How useless it all was! I begged, at least, that the patients be made to go away, but was ordered to shut up. The crazy woman began to scrub me. I can find no other word that will express it but scrubbing. From a small tin pan she took some soft soap and rubbed it all over me, even all over my face and my pretty hair. I was at last past seeing or speaking, although I had begged that my hair be left untouched. Rub, rub, rub, went the old woman, chattering to herself. My teeth chattered and my limbs were goose-fleshed and blue with cold. Suddenly I got, one after the other, three buckets of water over my head–ice-cold water, too–into my eyes, my ears, my nose and my mouth. I think I experienced some of the sensations of a drowning person as they dragged me, gasping, shivering and quaking, from the tub. For once I did look insane. I caught a glance of the indescribable look on the faces of my companions, who had witnessed my fate and knew theirs was surely following. Unable to control myself at the absurd picture I presented, I burst into roars of laughter. They put me, dripping wet, into a short canton flannel slip, labeled across the extreme end in large black letters, “Lunatic Asylum, B. I., H. 6.” The letters meant Blackwell’s Island, Hall» [10].
Ripensare i metodi e ripensare gli spazi vuol dire intendere il sistema di connessioni non come virtuale, ma come “incarnato”, fatto di spazio, tempo, memoria, persone, relazioni, scambi, flussi, corpi. Spazio e tempo per la vita che arriva, dove sperimentare presenza, attaccamento, riparando i traumi infantili, le “impronte di nascita”, e quelli delle esperienze successive, dove l’annichilimento del male possa sfumare, essere integrato e trasformarsi, come in ogni processo di guarigione.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] F. Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, 1964, in F. Basaglia, Scritti I 1953-1968, Einaudi, Torino, 1981.
[2] V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa essere umani. Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024.
[3] D. W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando editore, Roma, 2015.
[4] F. Basaglia, Le contraddizioni della comunità terapeutica,1970, http://www.persalutementale.altervista.org/files/01Contraddiz-ComTerap-70.pdf.
[5] W. Benjamin, Appendice a “La Parigi del Secondo Impero in Baudelaire”, in W. Benjamin, Opere Complete VII, Einaudi, Torino, 2006.
[6] Vd. Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Piano nazionale degli interventi e dei Servizi sociali, 2021-2023, Agosto 2021, https://www.lavoro.gov.it/priorita/Documents/Piano-Nazionale-degli-Interventi-e-dei-Servizi-Sociali-2021-2023.pdf.
[7] C. Daina, “Disturbi psichiatrici gravi, i percorsi di riabilitazione dopo il ricovero in ospedale: che cosa sono e dove si fanno”, in Corriere della Salute, 4 maggio 2024, https://www.corriere.it/salute/24_maggio_04/disturbi-psichiatrici-gravi-i-percorsi-di-riabilitazione-dopo-il-ricovero-in-ospedale-che-cosa-sono-e-dove-si-fanno-eb9a3433-15a0-46db-aa71-85236bddexlk.shtml?refresh_ce.
[8] F. Basaglia, L’istituzione negata, 1968, nella ristampa: Baldini Castoldi Dalai, Milano, 1998.
[9] F. Basaglia, “La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione”, 1964, in F. Basaglia, Scritti 1953-1968, Einaudi, Torino, 1981.
[10] N. Bly, Ten Days in a Mad-House, NORMAN L. MUNRO, PUBLISHER, 24 AND 26 VANDEWATER STREET, NEW YORK, 1887, https://digital.library.upenn.edu/women/bly/madhouse/madhouse.html.
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Flavia Schiavo, architetto, architetto del paesaggio e PhD in Pianificazione Territoriale. Prof.ssa Associata presso la Università degli Studi di Palermo, insegna Urbanistica (Laurea in Urban Design per la città in transizione) e Laboratorio di Progettazione urbanistica (Corso di Laurea in Architettura). È componente del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Architettura, Arti e Pianificazione. Ha al proprio attivo numerose pubblicazioni (saggi e monografie), in italiano, spagnolo e in inglese, che sviluppano articolati temi di ricerca: fonti non convenzionali (letteratura e cinema per interpretare città e territorio); linguaggio urbanistico; partecipazione, conflitti, azioni e pratiche bottom-up in ambito urbano; parchi e giardini; sviluppo e questioni sociali, economiche e antropologiche nel contesto della Rivoluzione Industriale; arte, culture urbane e contaminazioni. Tra i titoli delle monografie: Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004, Sellerio, Palermo; Tutti i Nomi di Barcellona, 2005, FrancoAngeli, Milano; Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, 2017, Castelvecchi, Roma; Lettere dall’America, 2019, Torri del Vento, Palermo; New York: entre la tierra y el cielo, Ediciones Asimétricas, Iniciativa Digital Politècnica, Barcelona, Madrid, 2021; Lo schermo trasparente. Cinema e Città, Castelvecchi, Roma, 2022; Nata per correre. New York City tra il XIX e gli inizi del XX secolo, Aracne, Roma, 2023; 8 lezioni newyorchesi. La Democrazia delle Città, la Democrazia della natura, Il Sileno edizioni, Cosenza, 2023. Fa parte di Comitati scientifici di prestigiose collane editoriali (FrancoAngeli) e di Riviste del settore. Ha organizzato seminari, simposi, meeting, convegni nazionali e internazionali e ha condotto lunghi periodi di ricerca in Italia e all’estero, in Europa (UAB, Barcellona) e recentemente negli Stati Uniti (Columbia University, New York City).
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