di Lella Di Marco
Abbiamo conosciuto alcune giovani arabe musulmane, nate altrove e appena arrivate con le mamme che ci chiedevano aiuto per l’iscrizione al nido o alla scuola materna. Altre sono nate in Italia ed oggi sono tra i 16 e 18 anni. Sono figlie delle donne del Maghreb con le quali nel 1998 abbiamo fondato l’associazione Annassim, donne native e migranti delle due sponde del Mediterraneo e con le quali conti- nuiamo a praticare “azioni virtuose” con interventi nel sociale e nell’ambito culturale, restando critici nei confronti delle politiche sull’immigrazione non sempre all’altezza delle sfide che il fenomeno presenta.
Se per noi, 18 anni di attività presso l’Associazione possono già essere un buon motivo di bilancio, la sintesi del nostro impegno presenta delle falle, delle criticità da inscriversi nelle contraddizioni e nei vuoti della politica ufficiale. Del resto, l’immigrazione è stata sempre considerata una emergenza, un fenomeno nuovo al quale i nostri politici e forse anche la popolazione si sono trovati impreparati e così non sono mai prevalse strategie di lunga durata, miranti realmente ad una “sana integrazione” per favorire connessioni fra diversità e allargamento delle forme di democrazia. Non c’è stata la capacità di capire il fenomeno in senso politico anzitutto ma anche dal punto di vista antropologico. L’immigrazione è un imponente fenomeno storico e gli immigrati e le immigrate non sono una massa indistinta con caratteristiche storico-geografiche e culturali indifferenziate. Si tratta di individui con soggettività differenti, con sistemi valoriali e ricchezze umane ma anche bisogni da individuare, capire, valorizzare e sostenere.
L’emergenza è stata e continua ad essere affrontata in modo omogeneo e costante con interventi di accoglienza “caritatevoli” in cui i partiti politici, con responsabilità di amministratori, cercano di rincorrere le parrocchie, “donando, donando, donando” senza chiedere nulla in cambio, in senso civico. Sono state condotte iniziative utilizzando milioni di euro, oserei dire a fondo perduto, senza progetti di “istruzione”, di “educazione civica”, di insegnamento pratico ai principi della Costituzione italiana, in una realtà dicotomica socialmente. In senso neo coloniale: i bianchi, gli occidentali da una parte, custodi e assistenti; e gli e le immigrati dall’altra da accogliere e custodire. Sono stati creati migliaia di “assistiti”che hanno spesso coscienza dei diritti a beni di consumo ma non hanno consapevolezza dei doveri, mentre cresceva il contrasto con i/le nativi in mezzo a reciproci pregiudizi.
Se ci fermiamo a riflettere sulla provenienza delle donne con le quali facciamo intervento: Tunisia, Marocco, Algeria, Egitto, abbiamo sufficienti dati per affermare che il dialogo fra le donne della sponda nord e quelle della sponda sud del Mediterraneo sia tanto importante quanto difficile. Come del resto è difficile con le occidentali per le diffidenze e prudenze nelle relazioni.
Diverse sono le condizioni nei vari Paesi del Maghreb come diverse le situazioni nello stesso Paese Ad esempio, nel Marocco, che si sta sviluppando a macchia di leopardo, in termini culturali ed economici, relativamente alla identità delle donne e ai valori di formazione, la questione è complessa. Perenne è l’alternanza tra tradizione e innovazione, tra lecito e illecito, tra funzione produttiva e funzione riproduttiva, fra riconoscimento-valorizzazione dell’individuo e riconoscimento del gruppo come unico soggetto sociale. Tra le regole tipiche di modelli individualistici e altre tipiche di una società comunitaria, tribale con i suoi vantaggi, ovviamente, in assenza di uno stato sociale.
E poi sempre rimanendo sull’area Marocco-Tunisia, la tradizione risente di influssi arabo-islamici ma anche berberi. Realtà quindi complessa ma altamente fallocratica, espressa simbolicamente nel fallo come esterno e nell’utero come interno, in riferimento allo statuto dell’uomo e della donna e ai loro ruoli diversi nell’utilizzo dello spazio privato (la casa ) e di quello pubblico (la moschea, la strada, i bar, i mercati ) come luogo dell’incontro, del lavoro, dello scambio, della negoziazione. Esiste un proverbio berbero che sintetizza chiaramente i ruoli e i generi: «La donna nella propria vita deve uscire soltanto tre volte: dalla pancia di sua madre, dalla casa di suo padre a quella del marito, dalla casa di suo marito alla sua tomba».
Tuttavia non esiste omogeneità tra le donne originarie dei Paesi del Maghreb. Le differenze sono ancora notevoli, legate all’area di provenienza (zone urbane o rurali ), con maggiori o minori difficoltà economiche, con scolarizzazione o meno. Con tali contraddizioni sono arrivate le donne del Maghreb nel nostro Paese, e senza conoscere la lingua e i luoghi hanno cominciato a frequentare lo spazio pubblico e a seguire la crescita dei figli e delle figlie, magari con il sempre vivo desiderio di ritornare nel Paese di provenienza. Loro non cercano né vogliono integrazione ma un futuro migliore per i propri figli e chiudere l’esperienza della migrazione con il ritorno.
Le ragazze musulmane a Bologna
Abbiamo ritenuto fondamentale tale pre- messa per poter capire meglio la realtà delle giovani figlie adolescenti o appena mag- giorenni. Teniamo conto che la maggior parte delle immigrate proviene da zone agricole con esperienza di lavoro nei campi, non scolarizzate o con appena la frequenza alla scuola dell’obbligo. Da sottolineare che in molti villaggi la scuola più vicina si trova a qualche decina di chilometri da percorrere a piedi. In molte zone del Marocco, nelle zone agricole arriva la scuola mobile, maestri volontari si recano in roulotte con libri e quaderni per insegnare a leggere e a scrivere a chi non può recarsi a scuola. Tutto questo ha comportato difficoltà enormi per quelle donne in Italia: come parlare con gli insegnanti dei figli diventati spesso con l’età mediatori linguistici fra docenti e madri. Nella famiglia, invece, la donna ha mantenuto un ruolo centrale di educatrice delle figlie, di trasmettitrice dei valori della sua cultura di appartenenza, della religione musulmana, della conoscenza del Corano.
Il posto delle melegrane
Le ragazze musulmane delle quali parliamo sono ragazze che per alcuni anni hanno frequentato dei corsi in un progetto denomianto Il posto delle melegrane, gestito dall’Associazione Annassim presso il Centro Interculturale Zonarelli a Bologna. Non è una indagine sociologica ma si tratta di osservazioni sulle trasformazioni emotive e culturali di circa cinquanta ragazze musulmane che per quattro anni hanno seguito dei laboratori esperenziali sulla formazione dell’identità di genere, sul pregiudizio, sull’alterità, sul riconoscimento delle loro soggettività e sul rispetto nel contesto scolastico, nelle forme di divertimento e del tempo libero all’interno del gruppo dei pari.
Il titolo del progetto, rivolto a ragazze native e di origine migrante, con le melegrane evoca, nella metafora e nella storia mitologica del prezioso frutto mediterraneo, il concetto di tanti elementi raccolti in un unico involucro con tutti i valori positivi che gli si attribuiscono – dalla fecondità al buon auspicio, alla ricchezza del femminile – mentre “il luogo” è una rivendicazione civica rivolta alle amministrazioni locali perché facciano scelte culturali e politiche per “le ragazze” con specificità da fare emergere, valutare e sostenere nel loro sviluppo positivo
Il nostro gruppo di ragazze non è omogeneo, presenta quelle diversità riconosciute nelle madri di cui abbiamo parlato nella introduzione. In alcune è ancora forte l’attaccamento al modello materno e al riconoscimento e rispetto della madre, in altre prevale il pudore a parlare della madre non alfabetizzata, anche se l’amore per la sua figura ed il suo operato sono immensi. Del resto, maschi e femmine, apprendono molto presto dalle parole del Profeta espresse nel Corano che il paradiso si trova ai piedi delle madri.
Le nostre riflessioni sono basate su osservazioni di pratiche quotidiane e percorsi biografici diversi, partendo dal bisogno diffuso di conoscere, senza filtri né mistificazioni, la realtà delle cosiddette seconde generazioni, le difficoltà e soprattutto il loro smarrimento identitario e culturale. Problemi la cui soluzione postula probabilmente un nuovo modello di cittadinanza che sviluppi coesione sociale nell’accoglienza delle diversità. Allo stato delle cose, sia maschi che femmine di origine migrante, hanno dovuto sviluppare per autodifesa un doppio registro di appartenenza, una doppia mappa di aspettative affettive e culturali e un duplice processo di acculturazione e socializzazione. La situazione è difficile e complessa. È quella che fa dire ad una mamma irachena «mia figlia ha capito tutto: se è a scuola saluta con buon giorno, appena entra a casa saluta con Assalam alaicum. Ascolta le lezioni con attenzione ma se le spiegazioni dell’insegnante contrastano con i principi del Corano lei lo fa notare. Come ad esempio quando si parla dell’evoluzionismo di Darwin».
Altro esempio l’episodio riportato da una mamma egiziana, protagonista la figlia nata in Italia al terzo anno di liceo scientifico. Un compagno di classe aveva chiesto alla ragazza come facessero l’amore le ragazze musulmane: episodio finito in modo pesante con discussione accesa in classe, denuncia alla preside della intraprendenza del ragazzo, difficoltà di quest’ultima a gestire quella che di regola può essere considerata una normale discussione fra ragazzi. Ma episodi simili sono frequenti come “il complotto”per togliere il velo alle ragazze musulmane con relative conseguenze di disciplina all’interno delle aule scolastiche o l’obbligo per le ragazze in corsi di formazione a togliere il velo. Episodi che caratterizzano la quotidianità esistenziale delle adolescenti, sottolineata da una perenne estraneità bi-dimensionale: rispetto alla famiglia con la loro cultura, le tradizioni di appartenenza da una parte e il sentimento di estraneità relativamente ai/alle coetanei che ne avvertono la diversità.
Da tale situazione emerge comunque un disagio che, a volte, sfocia in conflitto violento e in azioni apparentemente irrazionali. Le difficoltà delle ragazze sono parallele a quelle di tanti genitori che non riescono o non vogliono capire le trasformazioni in atto, le abitudini e la cultura del Paese che li accoglie, e temono, per le figlie, una contaminazione con l’Occidente. Abbiamo assistito ad interventi limite, come su Amina, sedicenne studentessa alla scuola per stiliste, ri-spedita in Marocco dalla nonna, perché amoreggiava con un coetaneo italiano, o Zorha, picchiata e costretta a rimanere a casa legata, perché il padre voleva impedirle di indossare la minigonna e s-velarsi davanti ai maschi. L’altro rischio che si corre è che la conoscenza di tali episodi, dalla scuola al quartiere, possano suscitare ulteriori pregiudizi legati alle etnie, alla religione, alla arretratezza culturale. In ultima analisi rifiuto che provoca altri pregiudizi e altri rifiuti.
Le figlie della migrazione fra transizione e appartenenze multiple
Fare interventi con gli adolescenti richiede grandi qualità: sensibilità e amore per l’altro, capacità di accoglienza, di ascolto, di disponibilità a fare esperienze assieme, di mettersi in gioco, come sanno i pedagogisti, sanno fare i docenti e le docenti, come dovrebbero sapere i genitori. Ma il nostro lavoro è una scelta volontaria confidando anche nelle nostre professionalità e competenze. Se è vero che tutte le identità sono in transito, lo stato di transizione nell’adolescenza è fortemente presente. La transizione all’età adulta è difficile per tutti, autoctoni e non, soprattutto oggi, per le particolari condizioni storico-geografiche che spingono a sollecitazioni e a ripensamenti continui, senza punti fermi, senza linearità di percorsi come accadeva in passato.
Nel nostro lavoro non abbiamo raccolto biografie né favorito la “separazione” delle giovani musulmane dalle altre. Abbiamo privilegiato una linea intra-generazionale per individuare la configurazione identitaria di queste giovani musulmane che, nate in Italia, parlano la lingua italiana e stanno crescendo quotidianamente, gomito a gomito con italiani/e e altri giovani provenienti da culture e Paesi altri. Tale metodologia ci ha permesso di individuare valori comuni, spesso inconsapevoli, ma emersi in “un luogo fisico comune”, che condivisi possono costituire il punto di partenza per destini comuni. Ecco come da appartenenze multiple sono emersi punti in comune. Ne riportiamo – a titolo esemplificativo – solamente due, relativamente all’istruzione e alla questione del velo.
L’istruzione
Di seguito alcune espressioni spontanee, senza mediazioni linguistiche.
Mariem (italo-egiziana, 16 anni, Liceo classico)
Iqra, studia, leggi, impara, conosci: è un insegnamento del Corano. Io ogni giorno se non studio e non scrivo, sto male. È come se non vivessi o sprecassi la mia vita. Purtroppo nella storia dell’umanità è sempre mancata la parità di diritto alla cultura, inteso come sapere tra uomo e donna. In molte zone del mondo poco sviluppate, ancora oggi, andare a scuola, studiare, conoscere non è un diritto acquisito. Ci sono realtà in cui alle ragazze l’accesso all’istruzione è negato e il livello complessivo di alfabetizzazione è molto basso. La scarsa scolarizzazione, l’ignoranza, è una delle peggiori malattie sociali. Si nasce uguali, con un cervello che va tenuto allenato, messo in azione con strumenti culturali adeguati, ma non tutti hanno la possibilità di farlo. A molti, tale diritto è negato, donne e ragazze diventano dunque macchine da riproduzione senza diritto di pensiero e di scelta. La cultura rende liberi. Liberi di decidere con consapevolezza della propria vita. Liberi di conoscere e godere dei propri diritti. Liberi di pensare ed esprimere il proprio pensiero. Liberi di essere liberi.
Naomi (Gran Bretagna, 23 anni )
Come ricercatrice all’università, lo studio è diventato la mia vita e per questo penso in modo conscio sul valore dello studio. Ho scelto questo lavoro per passione e per il piacere dell’apprendimento e di nuove conoscenze. E passando la mia vita a studiare, mi rendo conto sempre più delle tante cose che ancora non conosco e che ancora devo studiare. Studiare le lingue significa per me non solo la capacità di comunicare ma anche scoprire nuove forme di conoscenza. Per me lo studio significa tutto: l’autonomia, il lavoro, il piacere, il viaggio, la ricerca. Mi rendo conto di quanto sono stata fortunata nel poter perseguire questa strada.
Mariana (Ucraina, 16 anni, Liceo scientifico)
Siamo fortunate a vivere in un Paese e in un periodo dove l’istruzione è a portata di tutti, perché fino a qualche secolo fa solo persone ricche potevano permettersi di studiare, in prevalenza maschi. In Ucraina, il Paese da dove vengo, ad esempio, fino all’800 alle donne non era permesso studiare. Con l’arrivo dell’Unione Sovietica uomini e donne dovevano studiare fino a una certa età e credo che dovrebbe essere cosi in ogni Paese. A mio parere è importante studiare. Personalmente devo ancora studiare molto. So che è e sarà difficile ma ne varrà la pena per avere un futuro migliore, sia per me che per la società a cui appartengo. Se ignorante non vuoi restare vedi di studiare.
Shaiu (Cina, specializzanda)
In Cina, per legge, se la prima nata è femmina, si lascia in ospedale in attesa di un maschio. Io sono nata femmina e per prima. I miei, che all’epoca erano ricchi, hanno pagato una tassa che ha permesso loro di tenermi. Sapendo questo, per tutta la vita ho cercato di dimostrare loro quanto valgo. A 18 anni mi sono trasferita negli Stati Uniti dove ho conseguito una laurea in lingua inglese, per due anni mi sono specializzata in Giappone. Adesso frequento un master in Italia, in economia aziendale e sto cercando di organizzare una scuola di lingua e cultura cinese. Oggi ho 26 anni e conosco cinque lingue. Ho sempre lavorato e studiato, per sapere, conoscere ed essere riconosciuta, rispettata, avere strumenti di autodifesa e un posto autorevole nel mondo.
Cao (Cina, 20 anni, Accademia d’arte)
La virtù della donna è l’ignoranza, far studiare una figlia femmina è come buttare acqua a terra. È un proverbio cinese. Altri proverbi come questi sono diffusi in molte zone della Cina. Per secoli è stata impedita alle donne la scolarizzazione. Io voglio studiare, non solo sui libri. Voglio praticare lo studio come amore e interesse per le persone, le loro culture e i loro Paesi. Il mondo intero e tutti gli esseri viventi sono l’oggetto del mio studio.
Maria (Italia, 20 anni, universitaria)
I miei genitori non hanno avuto la possibilità di terminare gli studi per questo ho sempre sentito la responsabilità di dare il meglio. Impegnarmi non solo nello studio ma in tutto quello che faccio. Studiare come dovere, ma anche come piacere. Studiare per far sentire la mia voce quando è necessario. Studiare come resistenza in una società, a mio avviso, ancora troppo sessista. Una società dove la donna è meglio che stia zitta, che non pretenda troppo e che resti al suo posto. Studiare per conoscere il mondo, per andare oltre la nostra realtà e per avere delle alternative. Studiare per conoscere noi stesse e le nostre capacità. Per poter pretendere di più.
Yanet (Eritrea, 16 anni, Istituto tecnico aziendale)
Senza lo studio di questi anni di scuola sarei un’adulta più debole socialmente, più dipendente da mio marito e con meno autorevolezza nei confronti dei miei figli. Sarei relegata in casa, alle sole faccende domestiche e alla cura dei familiari. Senza leggere e scrivere e poter conoscere il mondo. La cultura rende una persona libera. Purtroppo nella società attuale cultura e istruzione sono più carenti nelle donne che negli uomini. Sono ancora molti i Paesi che non garantiscono lo stesso diritto di istruzione alle donne, lasciandole nell’ignoranza: la peggiore malattia della società. Donna non può essere sinonimo di casalinga. Tutto questo deve cambiare.
Arsema (Eritrea, 16 anni, Liceo pedagogico)
Se non fossi andata a scuola sarei restata ignorante, senza saper ne leggere ne scrivere. Sarei stata derisa da tutti e sarei stata esclusa dalla vita sociale. Restare ignorante vuol dire non avere un protagonismo reale nè in famiglia nè fuori. Vuol dire non poter scoprire le origini e il senso delle cose. Senza lo studio la mia stessa vita non avrebbe senso.
La “questione del velo”
Se si parla di Arabe l’accento cade subito sull’essere loro “velate”. Il velo è ancora oggetto di discussione, di critiche, di esclusione. Non abbiamo registrato casi eclatanti come in Francia con le misure drastiche nei confronti delle giovani musulmane, con il conseguente sorgere del movimento Ni putes ni soumises (Né puttane né sottomesse) scoppiato nelle banlieue francesi nel 2003, semplicemente perché le donne musulmane a Bologna non sono ancora coscientizzate né organizzate, ma nella democratica capitale emiliana le ragazze velate non sono ammesse, ad esempio, a frequentare lo stage come estetista-parrucchiera. Sana di origine marocchina, 22 anni, ha rifiutato di toglierlo, rinunciando alla specializzazione, optando per lavorare come assistente di base. Ma anche in tale campo se i vecchietti sono un po’ razzisti non vogliono l’assistente velata e scura di pelle.
Comunque oltre le difficoltà pratiche per chi cerca lavoro, le ragazze come le loro mamme sono pronte ad affrontare qualunque disagio. Se indossano il velo e crescendo indossarlo, è per loro che vivono in Occidente una scelta, sono determinate a difenderlo, come diritto, come espressione identitaria. Sotto il velo si gioca tutta la partita per le musulmane. C’è la loro formazione etinca, la loro soggettività, il diritto ad essere riconosciute e rispettate come musulmane. A non essere confuse con le “occidentali”, cioè come portatrici di cultura occidentale dalla quale non devono lasciarsi contaminare. E la lotta significa per loro, da una parte, difendersi dagli attacchi di compagni e compagne che le sentono diverse dal gruppo, dall’altra contrastare le paure dei genitori, portatori di tradizioni che temono la contaminazione e con essa la minaccia alla parte più consistente della loro identità.
Fouzia (18 anni, Liceo scientifico) lamenta gli attacchi nei suoi confronti da parte di amici che “scommettono” sullo strappare il velo dalla sua testa.
Fatima (16 anni, Scuola professionale stiliste) si rammarica per le continue critiche delle insegnanti donne che la vorrebbero come le altre native e che sottolineano come nella cultura islamica indossare il velo sia segno di sottomissione al marito
Isrla (13 anni, origini marocchine) indossa già il velo come scelta sua perché fisiologicamente è già “ donna”. Vuole essere riconosciuta come tale anche se non è molto consapevole di cosa ci sia storicamente e culturalmente dietro il velo. È arrivata da noi molto in fretta, lasciandosi accompagnare dai genitori, perché ha capito che i laboratori sarebbero stati utili ad una migliore crescita e formazione delle ragazze. Lei da tempo ha sentito sulla sua pelle che le ragazze e le donne non sono proprio libere e con gli stessi diritti degli uomini. La sua nonna, quando lei va a trovarla in un villaggio vicino Casablanca, le racconta della vita pesante che ha vissuto tra casa, figli, marito e duro lavoro nei campi. Le ha detto che la nascita di una femmina non è mai stata considerata una fortuna per la famiglia e che molte neonate sono state fatte morire sotto la sabbia del deserto in attesa che nascesse il figlio maschio. Lei capisce che nelle case comandano i maschi e che lei e sua madre non hanno voce in capitolo Tollera malamente il padre ma non accetta che il fratello, di venti anni, debba comandare su di lei ed essere maggiormente considerato in famiglia. Ma Isra ha già deciso: vuole frequentare il liceo classico, specializzarsi all’università per un lavoro riconosciuto e stimato professionalmente, per vivere tranquilla nella sua autonomia economica
Olfa (22 anni, di origine tunisina) non rinuncia all’unico segno visibile sulla sua testa . Non riesce a respingere la tradizione culturale della sua famiglia nonostante il desiderio di innovazione, la volontà di seguire le trasformazioni che avvengono nel mondo. Ma ha difficoltà ad accettare e ad essere accettata completamente dai e dalle coetanei italiani. Così frequenta tranquillamente l’università con progetti di specializzazione in lingue, magari in Francia per lavorare come interprete, hostess o mediatrice. E intanto a Bologna pratica attività di volontariato nel gruppo di giovani musulmani Islamic Reliew.
Le figlie sono diverse dalle madri anche se ne sono una inevitabile continuazione. Loro si muovono tra tradizione e modernità. Sono per noi la mediazione con il mondo di provenienza dei loro genitori, che non siamo riusciti a capire fino in fondo. Lavorare sulle giovani musulmane significa capire meglio il problema delle culture dei migranti e intervenire per evitare malessere, chiusura a riccio, solitudini, ghettizzazione. In ultima analisi per governare i conflitti che una volta accesi, lungi dallo spegnersi, producono integralismi e violenze.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’associazione Annassim.
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