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Tra dissipazione e solitudine. Noterelle e divagazioni da una lettura

1-eredita-dissipate-coverdi Aldo Gerbino 

Poi a un tratto si fanno / gravi: e a lavarsi tornano / umilmente ridicoli… / perché si vergognano / di trovarsi felici / senza lavorare [Vann’Antò, da “Contadini al mare”, 1945]. 

Leggendo le Eredità dissipate, assistiamo in modo palmare al pluridecennale cammino analitico condotto da Francesco Virga. Un tragitto non privato di quell’eccitante e proficua ossessione che fa brillare quei suoi smalti critici, in cui Gramsci, di certo non a caso primario oggetto delle sue attenzioni, fu ed è, la vivida attrazione verso una figura esemplare della nostra cultura. Un baricentro per l’autore, sin dalla sua lontana tesi di laurea capace di trasformarsi, per necessaria e intima disposizione, in un nucleo indefettibile nel quale convergono i nodi dell’uso abnorme del potere, alimentando così il proprio pensiero di un efficace imprinting esistenziale.

Ma, si potrebbe anche asserire, come da tale sua giovanile esigenza sia maturato il bisogno di protrarre sempre più avanti l’interesse di tale indirizzo in un oggi offerto quale irrinunciabile testimonianza, e che trova identificazione in questa raccolta di saggi concretata, appunto, nel volume Eredità dissipate: Gramsci, Pasolini, Sciascia (Diogene Multimedia Editrice, Bologna 2024), arricchiti, in appendice, da una catenaria d’interventi critici: da Claudia Calabrese a Salvatore Costantino a Santo Lombino, da Nicolò Messina a Gaspare Polizzi a Bernardo Puleio. Un oggi qui posto quale esito d’integrità intellettiva nutrita nell’ardente combustibile che da sempre ha covato in Francesco, docente e saggista, per natura avverso a quei raddolcimenti provenienti dal mondo tradizionale e la cui fallacia è stata già dialetticamente esaminata da Eric Hobsbawm e Terence Ranger (The Invention of Tradition,1983).

Ciò, ovviamente, non è cosa da poco in quanto egli trasporta tale sua condotta d’analisi lungo un processo di traslitterazione capace di ricollocare i ‘cercatori di verità’, dalla pedana della ideologia all’ampio palco della idealità; qui vengono riversate pasión e amore per la conoscenza e la prontezza a decrittare i segnali della gestione politica al fine di partecipare a quelle dinamiche sociali che hanno mosso questi grandi intellettuali.

Non è un caso che Luigi Russo, critico letterario, storico della letteratura italiana e direttore della Scuola Normale di Pisa, scrivendo sulla ‘sua’ rivista «Belfagor» intorno alla poesia risorgimentale (“I poeti-numi del 1848”; Vallecchi n.2/ 31 marzo del 1948: 129-142), evidenziava come l’interno fuoco della poesia civile, e forse dell’interezza espressiva del lavoro poetico, si estendesse nella fervida agitazione della politica. Così, prendendo ad esempio Foscolo nell’inno terzo delle Grazie, lo storico di Delia vi legge una poesia la quale, proprio in tale suo “velo” foscoliano, «non spegne le passioni politiche, ma le assorbe e le sublima. Nitido il verso suonerà al poeta (egli aggiunge); ma quel verso nitido ribolle dentro di tutta la febbre della storia, a cui gli uomini che vengono dopo attingono dolcezza ma anche furore di vita e di combattimenti».

Questo pensiero si colloca, stabilendo quasi una sorta di vicinanza parallela e visionaria, all’asserzione di Leonardo Sciascia ‒ l’empirista eretico per Pier Paolo Pasolini ‒ che possiamo raccogliere dal lucido saggio su Pirandello. Qui, in una Sicilia del primo Novecento, mortificata e impoverita dall’aspra violenza del lavoro (esempio emblematico, l’esercito dei “Servi” chini nei cunicoli delle miniere e amaramente cantati da Calogero Bonavia), si staglia la sanguinosa gravezza della cupa mafiosità, gli intricati lacci con la borghesia. Da tale opprimente povertà e dall’esilio migratorio di un popolo soffocato ecco, valvola di nuova consapevolezza, vien colto dallo scrittore di Racalmuto lo sfiatare di un inatteso dono offerto da quei poeti dell’Isola che rispondono ai nomi di Pirandello, Rosso di San Secondo, Di Giovanni, Lanza: coloro i quali hanno contribuito a liberare, dalle stringhe di tale realtà, l’epifanico avvento della poesia.

Antonio Gramsci

Antonio Gramsci

Coltivatori di eresie, dunque, Gramsci, Pasolini e Sciascia son posti nella veste di veri e propri ‘anatomisti della natura umana’, pronti ad esercitare il loro magistero sulle esistenze affinché facciano propria una nuova consapevolezza civile, accogliendo i nuovi umori gemmanti dallo strato germinativo della società. Dal travaso gramsciano ricevuto da Pasolini (intellettuali e potere, omologazione delle masse, TV, consumismo), al contributo di antropologi di vaglia, da De Martino a Cirese, unitamente al registro critico della scrittura sciasciana, non possono non emergere le intollerabili discrasie infiltrate negli interstizi tra classi dominanti e subalterne fino a preconizzarne, nell’arco del ‘secolo breve’ e violento, la baumaniana liquidità del nostro presente o le variabili del postmoderno.

Per Virga il ligante di tale umano trittico è riscontrabile nella loro comune azione posta in quel vischioso collagene sociale permeato, sia durante la loro vita sia dopo la loro scomparsa, dall’incomprensione e da quell’ostinato non comprendere come la contraddizione, l’opposizione possano essere stimolanti esercizi per la crescita del pensiero libero. Diverse, peraltro, appaiono le urgenze degli eretici che agiscono, senza condizionamenti, sull’architettura plastica del loro stesso pensiero critico, politico e artistico: dall’avvento, come detto, della poesia al canto popolare, dalla dinamica felibrista al nucleo rovente della lingua al turgore del mito, ad una nuova lettura antropologica delle masse.

La loro empatica partecipazione civile fluisce col trasportare le osservazioni della lingua dilatandola sullo scenario dialettale, interrogandosi sulla sopravvivenza o sull’agonica trasformazione della cultura popolare e dell’assuefazione alla subalternità, al trasformismo. Lo scrittore della raccolta “La meglio gioventù”, dagli anni Quaranta, è lettore privilegiato delle lotte dei contadini friulani; nel 1950, tocca la realtà delle borgate, delle loro angustie, delle violenze e doglianze del sottoproletariato romano. Una subalternità il cui ritratto, da Gramsci a Cirese, si tinge di realtà umilianti, di miserie comportamentali in un registro calco delle devianze del potere, della pervicacia di una incipiente, quanto feroce, massificazione.

Leonardo Sciascia e Ferdinando Scianna alla festa di Santa Maria del Monte a Racalmuto, 1987; e alla casa della Noce, 1986 (ph. Angelo Pitrone)

Leonardo Sciascia e Ferdinando Scianna alla festa di Santa Maria del Monte a Racalmuto, 1987; e alla casa della Noce, 1986 (ph. Angelo Pitrone)

Una camera picta elaborata in parole, in atti e fatti che sbalzano, non necessariamente citati, anche dall’Uva puttanella. Contadini del Sud di Rocco Scotellaro. Vi sono anche i contadini di Vann’Antò della poesia in quartine “Contadini al mare”, tratta dalla raccolta “’U vascidduzzu” (vincitrice, nel 1951, del ‘Premio Cattolica’ la cui giuria era formata da Eduardo De Filippo, Salvatore Quasimodo e Luigi Russo). Essi commuovono, in quanto tracciano un tragitto d’esistenza all’ombra d’una preoccupata scoperta della felicità, proprio nel momento in cui provano vergogna per aver usufruito d’uno scampolo di appagamento ‘rubato’ alla crudezza del loro lavoro.

E c’è anche il popolo-formica raccontato e vissuto con realistica lucidità da Tommaso Fiore, di quel suo insistere sul diffuso bisogno di libertà dei ‘cafoni’ pugliesi, verso i quali, osservava: «se le nostre idee sono giuste» (un’esistenza connaturata alla vita dello spirito) di certo «la saggezza popolare non può, sia pure indistintamente, esserne lontana». Una contiguità ai bisogni sociali surriscaldata (sostanziata) dalla lingua (Virga non a caso rimanda al pasoliniano quadro di chiusura del “Volgar’ eloquio”), il tutto scosso da quel vortice di bioatmosfere che furono in altri momenti consegnate nell’ambito di questa letteratura d’opposizione (così intese Sciascia): dall’affresco del Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, agli interventi magico-realistici dell’etnologo Ernesto De Martino, degli scritti sulla Lucania, sul Salento, al grido giunto dalla civiltà agropastorale in Sicilia con voci dalle diverse sfumature ed estetiche: da Ignazio Buttitta, a Giacomo Giardina a Giuseppe Giovanni Battaglia.

Una necessità di rilevare da ogni fonte quella agognabile «fraternità umana» e di come la contraddittorietà esista sin dalle profondità genetiche delle relazioni parentali emerse e riscontrabili in Pasolini nell’intervista con Jean Duflot, “Il sogno del Centauro”: «In realtà», afferma il poeta, «con il passare del tempo, dopo l’infanzia, l’immagine si è moltiplicata, e insieme con essa il rifiuto si è diversificato: si è mutato in odio trans-storico o metastorico, per cui sono stato indotto a identificare con l’immagine paterna tutti i simboli dell’autorità e dell’ordine, il fascismo, la borghesia… nutro un odio viscerale, profondo, irriducibile, contro la borghesia, la sua sufficienza, la sua volgarità: un odio mitico, o se si preferisce, religioso». Ma anche si differenziano, come in un chroma key, le «persone vive», tangibili, in quanto «per mezzo del friulano» ‒ egli avverte – «venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il pro­prio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. All’inizio ne ebbi però una visione troppo estetica, fondavo una specie di piccola accademia di poeti friulani. Col passare del tem­po avrei imparato man mano a usare il dialetto quale stru­mento di ricerca obiettiva, realistica». Un ‘mistero del carattere contadino’ posto a genesi dei suoi romanzi, per quei reietti della società i quali, come per Sciascia, sono metafora di un Sud del mondo immersi nell’inestricabile simbiosi tra lingua e realtà umana, affetti contrastanti e profondità dei sentimenti, tra ritualità religiosa e laica, e dai quali temi Virga ne sottolinea, anche sulla scia dell’antropologo napoletano (con qualche suggestione esercitata da Giuseppe Cocchiara), in che modo «il pensiero del folklore stia col pensiero di Gramsci in un nesso organico e sostanziale, esistenziale».

Scatti per Pasolini, catalogo Mostra nell’agrigentino “Centro Pier Paolo Pasolini”.(ph. Mario Dondero)

Scatti per Pasolini, catalogo Mostra nell’agrigentino “Centro Pier Paolo Pasolini” (ph. Mario Dondero)

Ancora una lingua, ancora dialetti e loro declinazioni, che toccarono lo stesso Sciascia già con l’attenzione giovanile dedicata alla antologia della poesia romanesca prefata dallo stesso Pasolini (Il fiore della poesia romanesca, S. Sciascia 1952). Vi risaltano considerazioni che investono l’unità della lingua, così dell’intelletto e del cuore, tema che interessava molto l’autore di Casarsa, attraverso quei margini frastagliati della poesia in cui, scrivendo di Roma, si guarda alle dinamiche della stessa lingua ‘rionale’, al meticciato prodotto dalle maglie linguistiche meridionali e dalle fimbrie settentrionali. Lingua e canto visti anche come epifenomeni riflessi criticamente, e con intense sollecitazioni (ad esempio, intorno al 1958, con la giovane Giovanna Marini) che consentono lo sviluppo del loro arco lungo e interagente tra poesia e canto popolare agitando il fertile colloquio critico/folklorico su cinema e musica: un differenziarsi del realismo poeticamente tragico con un ‘realismo rosa’ grazie al coinvolgimento del popolo minuto della provincia italiana.

Allora, politica e musica toccano e definiscono l’ulteriore dichiarazione pasoliniana rintracciabile in “Le regole di un’illusione” (Fondo P.P. Pasolini, 1991: 274): «la musica popolare non ha storia: il suo livello culturale si pone oltre agli eventi storici; è sempre preistorica. Anche quando se ne conosce la data di nascita, la sua collocazione è fuori dalla storia» (blog ‘Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa’, 2016; G. Bruni). Per il poeta, canto popolare, dialetto plebeo e borghese si svolgono in «un gioco di compromessi»: tra sacrilegio e intelligenza. Cultura popolare e dinamiche della subalternità, sono ben evidenziate da Virga, con il percorrere la cupa forza del potere e innescando l’ellissi di quei dispositivi intellettuali in cui l’esistenza appare sempre presente con la sua inusitata crudezza e con una sua precisa morfogenesi leggibile sin dall’esperienza di “Poesie a Casarsa” (accolte con interesse da Contini), sotto l’acceso fuoco dell’«idioma materno»: la materna locutio.

Un insieme di saggi, questo, in cui si dà spazio ad una sorta di ‘anima interna musicale’ (termine caro a Silvestro Baglioni, otorinolaringoiatra degli anni Venti) e all’interezza di quel ‘pensiero musicale’ che attraversa punti fondativi del linguaggio poetico e filmico di Pasolini, sottolineato in volume da Claudia Calabrese. Il valore della contraddizione cui facevamo cenno assume energia per la sua capacità di opporsi al proprio stesso pensiero, e ciò vale in particolare per Pasolini, per Sciascia. Su Pasolini narratore Giorgio Bárberi Squarotti parla di «lacerazioni interiori, fatti della storia e la loro natura estrema: strazio, diversità, opposizioni alla norma; per Fortini vi è primaria l’antitesi, la “duplicità e ubiquità polare»; Sciascia rivendica a sé la libertà di mutare il proprio punto di vista a chiarimento del suo approdo etico verso la società.

E ciò, dalla ricchezza di un cammino nell’Intra moenia dei saggi (ristampa di una seconda edizione), Virga sciorina i suoi ragguagli appesi al vento del rimprovero insito nel titolo, parlando appunto della ‘dissipazione’ di tale ricchezze di pensiero. Dissipazione in quanto, per omologia alla meccanica, registra la trasformazione d’una energia in altra che va ineluttabilmente perduta, dissipata, dispersa. Una dissipazione associabile all’abbandono, alla derelizione, per usare un termine giuridico che Cesare Brandi coniuga con la città di Palermo, per sottolineare l’incapacità politica ad incanalare le giuste energie dissipandone nel silenzio valori e funzioni utili alla crescita della società civile; dissipazione ancora come dispersione e obsolescenza, quindi consumo accelerato e incontrollato (argomenti tracciati da Argan e, proprio a Palermo nel 1968, sottolineati dalla critica militante di Francesco Carbone) e che trainano amaramente, apocalitticamente verso quelle umoralità presenti in Dissipatio H.G., illuminante romanzo degli anni Settanta dalle tinte distopiche, opera del ‘fobantropo’ suicida, Guido Morselli.

i__id1992_mw1000__1xPer Sciascia, la irredimibilità; per Pasolini, a seguito del suo antropologico liquore gramsciano modellato poi sulla misterica e rovente fascinazione del mito (tracimazioni da Mircea Eliade), non vi è altra possibile conclusione: visionaria, inaspettata, la quale, poggiando ancora una volta sul tema della lingua, porta il poeta a rileggere, nell’intimità di una riscrittura personale, allegorica e tragica, Dante. Ciò accade nella sua postuma e incompleta Divina Mimesis dimodoché Dante, la sua lingua, coincidono drammaticamente con il suo stesso finis vitae, e, allo stesso tempo, può ricordarci come vi sia, nei tre scrittori, altro ligante: quello della ‘solitudine’ la quale, emblematicamente in Pasolini, conduce alla conquista di terre estreme, d’improcrastinabili confini.    

Nella Poesia in forma di rosa egli accenna, infatti, ad «un’idea che risale al 1963, ma finora» – egli lamenta – di non esser «riuscito a trovare la chiave giusta. Volevo fare qualcosa di ribollente e magmatico, ne è uscito qualcosa di poetico come Le ceneri di Gramsci, anche se in prosa. Per questo, pubblico appena i primi due canti: a un inferno medioevale con le vecchie pene si contrappone un Inferno neocapitalistico. Ma siamo, per il momento, al «“mezzo del cammin di nostra vita”, all’incontro con le tre fiere». Diffuso dopo la tragica morte del poeta e scrittore (1975), in una «Nota dell’editore» – si riferisce – furono rintracciati, tra questi suoi “Frammenti infernali”, appunti, foglietti: «un blocchetto di note… addirittura trovato nella borsa interna dello sportello della sua macchina; e infine, dettaglio macabro ma anche – lo si consenta – commovente, un biglietto a quadretti (strappato evidentemente da un blok-notes) riempito da una decina di righe molto incerte – è stato trovato nella tasca della giacca del suo cadavere (egli è morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso)». Sì, Palermo qui è pre-immaginata dallo scrittore quale orrido scenario del proprio assassinio. Palermo ‘la Terribile’, d’altronde, è l’aggettivo che troviamo persino nel deamicisiano ‘Cuore’. Luogo che diventa palco di rappresentazione onirica e, per bizzarra legge del contrappasso, zattera d’un ‘bene’ fluttuante e tenace, portatore di un vessillo su cui può essere trascritto, ‒ e il pessimismo di Francesco Virga forse ne trarrebbe lenimento ‒ quel verso di Jannis Ritsos che ci ricorda con perentoria assolutezza, il «valore delle cose nude». 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).

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