Sanità. Una guerra tra poveri
Vorrei soffermarmi in questo articolo sul tema della salute e della sanità cercando di dimostrare che non sempre sono la stessa cosa. A parte la scarsa disponibilità di fondi per fare tutto di cui obiettivamente è difficile addebitare responsabilità eccessive a chi solo da poco si arrabatta a stare al governo soprattutto da parte di chi è stato seduto sulla cassa non molto tempo prima, anche perché sa bene che la sanità, se non stai attento (e pochi ci stanno), può rivelarsi un pozzo senza fondo come ha riconosciuto da poco lo stesso capo di Cinque Stelle definendola fonte di sprechi e di inefficienze.
Infatti, il rischio è che più ci metti soldi più li vedi risucchiare da un sistema fortemente inquinato da partiti, logge, lobby di case farmaceutiche o fornitrici di apparecchiature mediche e qualche volta anche penetrato da organizzazioni criminali (l’ultimo caso è quello del boss della mafia che è rimasto imprendibile per decenni facendo comunque il paziente della Asl) per cui non tutto va a favore di chi sta veramente male e non può per ragioni economiche rivolgersi altrove. E poi, anche se si mettessero più risorse, senza preoccuparsi di eliminare prima sprechi e inefficienze, davvero si riuscirebbero a retribuire in modo competitivo, con i Paesi da cui suonano le sirene, medici e infermieri che, quando si va a stringere, sembrano costituire il principale oggetto delle rivendicazioni? Insomma, voglio dire anche di quest’ultimo problema è bene farsene una ragione perché alla fine parliamo di stipendi pubblici italiani che, a tacere dei lavoratori e dei pensionati, fanno piangere non solo i medici ma anche gli insegnanti e i quadri amministrativi statali e degli enti locali quando confrontano le loro buste paga con i colleghi degli altri Paesi europei, le cui aspettative non sono meno degne di attenzione dei primi. Siamo sicuri che tutto si risolva aumentando il debito pubblico fino ai limiti dell’insolvibilità e che davvero i partiti politici abbiano a cuore la sorte degli ammalati quanto quella delle direzioni delle Asl o dei complessi ospedalieri?
In buona sostanza mi domando quante delle questioni legate alla sanità siano veri o falsi problemi, magari appena utili alla strumentalizzazione politica ma tanto bisognosi di essere inquadrati in un discorso più serio e complessivo. Poniamoci per esempio la domanda di fondo che guiderà gran parte del discorso che mi accingo a fare: a che serve curarci? Per vivere più a lungo, è la risposta più ovvia che viene in mente. Ma se noi italiani siamo il popolo che almeno nel traguardo dell’esistenza sta avanti a tutti gli altri in Europa e nel mondo veniamo appena dietro al Giappone (e al nugolo dei Paesi asiatici intorno al gigante cinese, come la Corea del Sud, Singapore, Taiwan, ecc.), questo obiettivo non è forse in parte raggiunto senza stare lì a ingurgitare farmaci e farci attraversare continuamente l’organismo da raggi X? È legittimo, quindi, premiare il comportamento di quella classe medica che non si pronuncia se non dopo avere costretto il paziente (mai definizione è stata più azzeccata per questo genere di utente) a peregrinare nei corridoi della sanità a fare le più svariate analisi, dopo le quali è difficile comprendere se sta male per qualche ragione organica oppure perché è depresso e sfiancato da attese snervanti (magari a digiuno), code e burocrazia se non addirittura dalla scarsa attendibilità degli esami prodotti da macchinari in stato di acuta obsolescenza, come si è scoperto di recente? Mi si obietterà: questo è vero, ma non è meno reale che la nostra popolazione anziana, ossia dopo i 60 anni, è quella messa peggio in Europa in quanto a salute. Quindi che cosa bisogna fare? La stessa scienza medica ci dice che la risposta migliore consisterebbe prima nella “prevenzione” e solo dopo nella “cura” (sempre che si esca dall’ambiguità di considerare la prevenzione solo un sottoporsi continuamente ad “analisi”). Non a caso i principali indicatori del benessere di questa fascia di popolazione nel mondo si riducono a tre elementi fondamentali: socialità, alimentazione e attività fisica. Onestamente non va trascurato anche un altro fattore non meno importante, vale a dire il reddito pro capite, che influisce sull’allungamento dell’età favorendo l’accesso, oltre che all’alimentazione più sana e all’attività sportiva e consentire un’esistenza più movimentata e goduta, anche a migliori cure mediche.
Soffermandoci proprio sull’indicatore oggetto principale della nostra riflessione, l’attività fisica come fattore di mantenimento di un buono stato di salute, è in qualche modo indicativo che tra le popolazioni rivierasche del Mediterraneo, ossia quelle tra le più restie al mondo a varcare il fiume dell’Ade, in quanto a benessere psicofisico eccella la penisola iberica che si distingue oltre che per la migliore socialità anche per l’attività fisica, una condizione qui misurata semplicemente sul numero di passi che l’anziano riesce a fare nella giornata che supererebbe quelli del coetaneo degli altri Paesi del Mare Nostrum, in primis l’Italia. Ciò dimostra ulteriormente che l’enfasi posta sull’aspetto strettamente sanitario non abbia lo stesso rilievo a livello internazionale che gli viene attribuito in Italia, almeno per quanto concerne il sano invecchiamento.
Alla luce degli argomenti che produco, ha senso domandare più risorse, che prima o poi si capirà è meglio dirottare le poche disponibili magari in direzioni più emergenziali dello Stivale come, per esempio, la difesa del territorio che quando si ribella al degrado non solo non chiede la tessera sanitaria alle sue vittime, ma esige interventi immediati per i quali è bene non farsi trovare con le casse pubbliche troppo sguarnite (come è capitato ad alcune regioni italiane che, dopo aver destinato la gran parte dei rispettivi bilanci alla sanità, ormai a corto di soldi, si sono ritrovate metaforicamente e quasi letteralmente con l’acqua alla gola)? Dal punto di vista delle attenzioni alla salute dei cittadini intanto si potrebbe incominciare a sistemare un po’ meglio il settore valorizzando proprio l’aspetto della prevenzione, come ha fatto, per esempio, l’Emilia Romagna che si è posta all’avanguardia in queste iniziative, organizzando palestre gratuite per la popolazione più anziana, e, più in generale, perché, pensando non solo agli anziani ma anche a chi tale diventerà nel tempo, non si ragiona seriamente su una vasta e seria campagna mediatica di prevenzione volta a promuovere stili di vita più salutari, soprattutto nell’alimentazione e nell’attività fisica (come ha fatto di recente, per estrarre un esempio a caso, la ministra della salute spagnola che ha invitato i connazionali a non sedersi a cena troppo tardi come è abitudine non solo loro)?
Tuttavia anche qui, attenzione a dove si mettono i piedi prendendo come riferimento l’attività sportiva giacché non è detto che vi sia una relazione diretta tra il benessere fisico e la pratica dello sport, come potrebbe apparire a un approccio superficiale e come sostengono per convenienza i grandi organismi di quest’ultimo quando enfatizzano gli eventi che organizzano. E ciò accade nella misura in cui ambiguamente cercano di far credere che quante più gare di un determinato sport si danno in televisione e quanto più si esaltano le gesta dei campioni tanti più saranno i giovani che si accosteranno alla disciplina sportiva preferita attratti da questo miraggio. È dall’analisi di questo aspetto che soprattutto vorrei partire, collegando a esso il ricorso all’attività fisico sportiva in funzione di prevenzione ma nello stesso tempo cercando di non nascondere dietro alcun dito un fenomeno come quello dello sport che spesso semplicisticamente viene assunto come riferimento in questo tipo di analisi. Infatti, accanto alle molte luci che il fenomeno presenta vi è anche un numero discreto di ombre che potrebbero renderne il ricorso addirittura controproducente posto anche che le istituzioni pubbliche appaiono propense ad attribuire importanza quasi esclusivamente alla versione di esso campionistico spettacolare, cosa che risulta evidente quando i vincitori fanno il giro trionfale dei palazzi del potere dopo avere riportato successi internazionali. In queste righe voglio dimostrare che le cose non solo non stanno esattamente come appaiono a una certa parte dell’opinione pubblica e alla gran parte dei decisori politici che quando subodorano una crisi dello sport sembra sappiano rispondere costruendo (o promettendo) sempre più stadi e impianti faraonici (anche col PNRR), ma anche come siano fuorvianti certe rappresentazioni del fenomeno rispetto a una percezione e a un utilizzo corretto dell’attività fisico sportiva finalizzata alla salute. Infatti, secondo come lo si utilizza, l’approccio allo sport, come si dice in questi casi, più che una soluzione può divenire parte del problema.
Sono appena cessate le Olimpiadi di Parigi che hanno abbagliato il mondo per il loro splendore e la loro risonanza, ma sulla quali sono possibili altri punti di vista anche per sfatare i luoghi comuni che circondano questo tipo di eventi. Ma procediamo con ordine partendo dalla presunta funzione formativa ed escatologica dello sport.
In questa circostanza abbiamo visto governanti di diversi Paesi esibirsi, per prima cosa, nell’invocazione della cosiddetta “tregua olimpica”, quasi ormai non ci fosse altro da fare per i conflitti del mondo, soprattutto in Ucraina e in Medio Oriente rispetto alle cui vicende è stata particolarmente auspicata. Si tratterebbe di mantenere fede a un istituto che nei secoli e fin dalle origini, ci dicono gli storici, avrebbe caratterizzato il periodo di svolgimento delle gare garantendo uno sprazzo di convivenza alieno dalla barbarie. È vero, ma solo nelle intenzioni. Infatti, il periodo di pace originariamente stabilito da Ifito per recarsi nella sede dei giochi senza incappare in guerre locali era garantito solo dalla potenza lacedemone che si era assunta i relativi compiti di polizia perché nei suoi confini si trovava Olimpia. Si trattò comunque di un divieto che nell’antichità fu frequentemente violato [Aledda 2002: 87]. In epoca moderna tra i fondatori dei giochi olimpici l’idea di proclamare un’analoga tregua si fece strada con molta gradualità posto che le edizioni iniziali non avevano avuto un sufficiente consenso a causa della scarsa partecipazione di Stati e di atleti, per cui fu solo quando il movimento olimpico incominciò ad assumere le dimensioni che presenta tuttora e a destare, quindi, un maggiore interesse, che i suoi dirigenti decisero di inserire nel messaggio olimpico l’invito a tutti i Paesi del globo a rispettare la tradizionale tregua dalle guerre per non disturbare i Giochi. Ciò, comunque, non impedì che fossero le gare ad arrestarsi e non le ostilità belliche durante le due guerre mondiali [1].
Un altro pregiudizio duro a morire è che l’organizzazione delle Olimpiadi porti un vantaggio economico agli Stati. Il maggiore studioso di questo aspetto dello sport, Andrew Zimbalist, dimostra esattamente il contrario, sostenendo che solo gli studi ex ante delle Olimpiadi si affannano a dimostrare che queste presenterebbero vantaggi come l’incremento del Pil nazionale e un aumento della ricchezza, tutte previsioni ad usum delphini regolarmente smentite dalle analisi ex post [Zimbalist, 2015]: non fu a caso, quindi, che l’economista Mario Monti, che sicuramente aveva una maggiore capacità di discernere questi dati, da presidente del Consiglio dei Ministri escluse Roma dalla candidatura ai Giochi olimpici. La Grecia ha iniziato il tracollo economico che tutti conosciamo dopo avere organizzato le Olimpiadi del 2004; il Canada ha avuto sulla groppa per svariati decenni le Olimpiadi di Montreal con lo stadio rimasto inutilizzato fino a qualche tempo fa finché non giunse la decisione di trasformarlo in struttura polivalente anche per destinazioni extrasportive e così pure gli economisti più seri hanno sfatato la favola che fu grazie alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 che la Catalonia e la Spagna hanno conosciuto l’ascesa economica che le caratterizza tuttora, mentre si trattò solo di una felice coincidenza [Zimbalist, passim]; l’Italia ha visto gravare sul contribuente per i vent’anni successivi i costi delle Olimpiadi di Roma del 1960.
Nel Secondo Dopoguerra solo le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 e di Atlanta del 1996 hanno dato profitti, ma solo perché erano private e nessuno ha avuto la necessità di costruire altri stadi e impianti o inventarsi una nuova viabilità perché tutto ciò esisteva e al massimo andava data una rinfrescata [Zimbalist; Caillat-Brohm]. La notizia sullo scarso successo dei giochi olimpici è tale che il Cio non è più sommerso dalle candidature di città come accadeva un tempo tanto che molte volte deve andare a cercarsele da solo, e non diversamente deve fare ormai anche la Fifa, come accadde per i campionati del mondo nel Qatar, non mostrando alcuna ritrosia al pagamento di tangenti ad alcuni dei propri dirigenti cinicamente disponibili a organizzarli in ambienti ormai sempre più incompatibili con la salute degli atleti [Bernaudeau].
Sotto quest’ultimo profilo, va detto che oggi lo sport incontra maggiori e impreviste difficoltà a celebrare i suoi trionfi nell’ambiente che gli dovrebbe essere più congeniale, ossia quello della natura, per effetto del surriscaldamento terrestre che coinvolge sempre più vaste aree del mondo. «Ormai le partite di tennis sono diventate delle guerre di attrito…tutto ciò è disumano», avrebbe commentato al microfono dell’emittente per cui lavorava lo spettacolo che gli si presentava agli occhi, John McEnroe, nella gara tra Medvedev e Rublev con gli atleti sfiniti dal caldo nel sole cocente degli US Open di New York [2]. Naturalmente parliamo dei giochi estivi perché quelli invernali pare che abbiano una sorte migliore, anche se spesso apparentemente perché solo un Paese avaro di informazioni economiche serie come la Russia ha lasciato calcolare agli altri quanto le è costata Sochi, e l’Italia incomincia già a sentire per Milano Cortina le consuete turbolenze giudiziarie che conosce in vista delle competizioni internazionali sportive (e non solo). Per dirla tutta alla base dell’esigenza di sbalordire, dimostrare e fare ancora meglio delle precedenti edizioni, oltre all’edificazione di cittadelle olimpiche che sono di difficile riutilizzazione, vi è il problema dei costi proibitivi di impianti quasi impossibili da riciclare in strutture più adatte a un’eventuale pratica sportiva quotidiana.
Il flop si riscontra, come è già avvenuto a Parigi, col settore che si pensa sarà più favorito dalle gare, ossia quello turistico. Ed è qui che di solito si registrano i maggiori smacchi, come accadde a Rio de Janeiro nella Coppa del Mondo di calcio, in cui per la finale Brasile-Argentina gli albergatori che si aspettavano un grande afflusso di turisti rimasero delusi perché, nonostante il Maracanà fosse pieno come un uovo, le decine di migliaia di tifosi argentini più che negli alberghi dove erano attesi preferirono pernottare a costo zero nella spiaggia libera di Copacabana [Zimbalist] [3]. In occasione dei giochi notoriamente gli hotel sparano i prezzi alle stelle anche perché sanno che la maggior parte dei clienti fa parte delle delegazioni sportive dei diversi Paesi con budget già pianificati per affrontare qualsiasi costo della trasferta, cosa che invece fa scappare il turista ordinario tanto impaurito dalla lievitazione dei prezzi e dal caos di questi eventi che, a quel punto, preferisce rinviare ad altra data l’eventuale visita. Così a Parigi abbiamo visto i corrispondenti della stampa internazionale fare da cassa di risonanza alle lamentele degli operatori perché i turisti “sportivi” erano lì solo per le gare (se non per che cosa?) e disertavano le tradizionali attrazioni della Ville Lumière. Quindi, è chiaro che gli Stati e le città (queste ultime le vere titolari dei giochi olimpici) accettano l’organizzazione di eventi sportivi come le Olimpiadi e i campionati di calcio solo per assicurarsi una vetrina internazionale e registrare nell’immediato un successo politico interno.
Non solo per queste ragioni sostengo che è necessario controllare con molta cautela i frutti che cadono dall’albero dello sport prima di assaggiarli. Ho accennato sopra all’ingenuo approccio della classe dirigente italiana a questo fenomeno cui attribuisce automaticamente risultati di palingenesi sociale. Ciò avviene basandosi sulla professione di mezze verità e di sensazioni cui sono destinati a cascarci appena gli speech writer dei papi, dei presidenti della Repubblica o del Consiglio oppure dei ministri competenti che esaltano e additano ai giovani i successi sportivi cercando di convincerli che questa è la giusta via per migliorare la loro condizione fisica, svilupparne la sana socialità, ecc. ecc., perché la realtà è ben diversa. E ciò anche perché l’adesione all’attività, come si può apprendere consultando qualsiasi onesto operatore sportivo del territorio, si concretizza solo a condizione che nel contesto esista una società o un centro sportivo cui possano fare riferimento i ragazzi interessati; ma se questa ricettività è assente a nulla serve il fuoco momentaneo che li ha avvicinati a quella disciplina sportiva.
Lo sport più praticato in Italia, il nuoto, si sviluppa inarrestabilmente grazie alle piscine comunali e private presenti capillarmente nel territorio e al passa parola tra chi lo pratica e non all’ospitare eventuali campionati mondiali o alla pubblicità di una Federica Pellegrini; come pure la ginnastica che viene al secondo posto come pratica di base, sia pure non nelle forme che presenta quella agonistica, cresce nel consenso popolare solo grazie a una rete di più di ventimila palestre presenti nel territorio nazionale e ai suggerimenti di medici ed esperti. E ciò a tacere dei parchi e degli spazi verdi di cui abbonda il Paese dove frotte di cittadini di tutte le età si dedicano a coltivare le più elementari attività dell’atletica, dalla corsa alla marcia. La squadra delle ragazze della pallavolo che in Italia ha tanto fatto parlare per la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi, divenendo in qualche modo icona anche dell’orgoglio femminile, è cresciuta nel corso di decenni nel più rigoroso silenzio stampa fino a divenire lo sport più praticato dalle donne (è indicativo che quasi al settanta per cento lo sia solo nella relativa federazione ribaltando colà una percentuale che quarant’anni fa era a favore dei maschi).
Possiamo davvero raccomandare la pratica dello sport ai giovani perché giova alla salute e alla tasca?
Vi sono poi tante altre ragioni che dovrebbero creare un’allerta nello sport di alto livello, su cui ricamano (e campano) stampa e media, giacché qualunque medico onesto voi interpelliate vi dirà che un eccesso di attività sportiva fa solo del male. Se si nota, nel quotidiano salutare i grandi atleti che abbandonano questa valle di lacrime, difficilmente si vedrà che hanno superato la settantina d’anni. Naturalmente parliamo di quel modo di praticare lo sport, impegnativo ed estremo, che si vorrebbe convincere i ragazzi a seguire sia pure implicitamente una volta che gli si presenta quella agonistica come la formula più semplice per raggiungere successo, fama e ricchezza e…buona salute. In realtà si tratta di un’attività quella sportiva che un professionista in genere non riesce a sostenere per più di una decina d’anni ma che finisce per lasciare tracce indelebili sul suo corpo, oltre che nel muscolo cardiaco nella struttura ossea con artriti, artrosi e deformazioni che lo segneranno per tutta l’esistenza rendendone spesso difficile anche la deambulazione; se poi ha fatto il pugile o il giocatore di football – americano – i danni al cervello saranno irreversibili, come dimostrano le denunce dell’abbondante letteratura medica specializzata [Bourgat, 19]. Ma anche lo sportivo della domenica non sempre è destinato a stare meglio perché, se non controlla lo sforzo fisico e la sua preparazione non si ispira a severi criteri di gradualità, stretching e di riscaldamento muscolare, che per essere a norma oltretutto esigerebbero la presenza costante (e costosa) di un personal trainer, rischia di trascorrere il resto della settimana afflitto da contratture, stiramenti, micro traumi e nel tempo sempre di più avrà la postura di un rudere incerto nell’incedere, traballante nelle ginocchia e nelle anche sempre che lo abbia risparmiato l’ernia del disco, oltre che presentare un organismo intossicato da antidolorifici e pomate.
Trattando del professionista va osservato che, per migliorare le performance e combattere affaticamento e stress, difficilmente riuscirà a fare a meno degli aiuti esterni, e qui parliamo soprattutto di assunzioni di sostanze dopanti. Nel qual caso le conseguenze si faranno sentire nel tempo sotto forma di disturbi cardiaci o epatici che non sarà più possibile attribuire solo a un passato fatto di sforzi e di licenze giovanili. Alla luce di queste considerazioni non è difficile ammettere che la passerella degli atleti olimpici o dei campionati mondiali delle discipline più osannate e che fanno esultare le folle, commuovendo con le loro storie i giornalisti e gli scrittori di sport, in fondo è costituita da modelli di ruolo che in prevalenza hanno avuto una certa familiarità con le droghe sportive. E, poiché questa finisce per essere una realtà con la quale anche un giovane che si avvicina alla pratica sportiva sarà costretto prima o poi a fare i conti, è lecito ritenere che affrontare un’attività di questo tipo comporti un’elevata probabilità statistica di essere caratterizzata dal rischio di rovinarsi la salute assumendo sostanze proibite. Anche perché in questo campo, a meno che a monte non si accertino attività illecite di spaccio e più in generale criminali, di competenza e di interesse della giustizia ordinaria (sempre che i relativi ordinamenti le perseguano, che non sono tutti), per effetto del circuito perverso che si innesta fondando un sistema, le più ampie responsabilità che lo caratterizzano finiscono per scaricarsi quasi esclusivamente sugli atleti che diventano così unici capri espiatori, autentiche vittime sacrificali del meccanismo sanzionatorio sportivo. E ciò eludendo le vere responsabilità che andrebbero ricercate in primo luogo nei dirigenti che, chiedendo risultati a qualunque costo, implicitamente autorizzano questo genere di scorciatoie al successo e, poi, nei medici sportivi compiacenti (o sottopagati e precari [Bourgat, 12]) che presiedono all’assunzione delle sostanze proibite col precipuo compito di riuscire a mascherarne l’uso, non senza escludere gli allenatori che davanti a questa realtà di solito girano la testa dall’altra parte.
Altro aspetto fuorviante dello sport è costituito dai compensi da capogiro dei grandi atleti, che fanno scandalizzare i benpensanti e, pur motivando i giovani aspiranti al successo, rappresentano una sfaccettatura dell’attività agonistica di alto livello che merita qualche approfondimento. Mezzo secolo fa raccontava il grande giornalista sportivo, Paolo Valenti che, assistendo a un incontro di pugilato con un amico, un professore di latino e greco, a un certo punto questi gli si rivolse commentando sdegnato “Ma ti sembra giusto che questi due per prendersi a pugni guadagnino molto più di un professore?”. Al che il giornalista argutamente gli rispose: “Perché quando tu fai lezione hai ventimila persone che assistono?”. Le leggi del mercato valgono in modo spietato anche nello sport i cui compensi tengono conto non solo del numero di spettatori che vi assistono direttamente (e che fin dalle origini dell’utilizzo del mezzo televisivo, in Usa, furono considerati anch’essi parte dello spettacolo come successivamente il pubblico in studio nei giochi e nei programmi contenitore del piccolo schermo [Aledda, 2000: 131]), ma anche e soprattutto delle audience miliardarie dei giochi olimpici e dei campionati mondiali di calcio e quelle milionarie nei singoli Paesi.
Certo i guadagni dei professionisti dello sport sono ingenti e agli occhi dei più appaiono sproporzionati, ma anche qui occorre andare oltre l’apparenza per non creare illusioni in chi eventualmente facesse un pensierino su questo tipo di carriera. Facile condannare integralmente il fenomeno sulla base delle cifre che corrisponde lo star system, giacché nello sport le carriere sono spesso brevi, intense ma effimere, per cui se per caso non fai bene i tuoi calcoli, una vita di successo economico e mediatico facilmente si tramuta in un’esistenza fatta di stenti e di insostenibili depressioni. In questo campo calcoli americani hanno dimostrato come la vita del professionista sportivo che può estendersi in media per non più di cinque anni (casi come Michael Jordan, in genere costituiscono eccezioni), si snoda in un lasso di tempo in cui un atleta ha bisogno di accumulare tutto in una volta i guadagni per la pensione, fare gli investimenti oculati allo scopo di mantenere il capitale il più fresco possibile per la vita rimanente, pagare l’organizzazione che lo circonda (segretarie e segretari, addetti stampa, procuratori, commercialisti, estetisti, uomini immagine, ecc.) e non trascurare le ulteriori spese derivanti dal suo status [Aledda, 2000: 184 ss.]. Perciò non tutti arrivano a stare bene al termine della carriera giacché a fronte di alcuni rari saggi e previdenti e, soprattutto, messi in guardia, la gran parte è penalizzata dall’avere vissuto alla giornata, all’altezza della propria fama e conforme alle aspettative dell’età in un ambito dove è facile guadagnare ma ancora di più lo è spendere e spandere, che in qualche modo fa parte dello status symbol. La morale, quindi, è: pericoloso additare ai ragazzi e ai giovani scorciatoie dell’esistenza rappresentate da modelli di ruolo come i grandi campioni dello sport che vincono medaglie e dominano gli schermi piccoli e grandi perché non sai mai che cosa accadrà dopo l’età giovanile che non sempre si avvantaggia dell’esperienza e della saggezza (purtroppo si parla troppo poco della vita successiva all’attività agonistica dei grandi sportivi, che spesso vengono collocati in un museo virtuale quasi in attesa dell’abbandono definitivo dell’esistenza terrena) [4]. Sostiene il sociologo afroamericano, Harry Edwards, dell’Università della California di Berkeley, noto organizzatore della protesta del Black Power di Carlos e Smith alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968 quando i due ragazzi erano suoi allievi, che un giovane di pelle nera statisticamente ha maggiori possibilità di riuscita come medico o avvocato piuttosto che come campione nei quattro grandi sport americani (baseball, football, basket e hockey su ghiaccio) dove le probabilità di successo sono di circa una su mille per chi frequenta il college [Edwards].
Ecco perché non è il caso di crearsi soverchie illusioni in questo campo, ma neanche sotto il profilo dell’apparente parità sessuale o della capacità dello sport di abbattere le barriere etniche e razziali a partire dalle sue espressioni più elevate, come sembra far credere il sistema di persuasori occulti che si è creato oggi intorno allo sport. A ciò si oppone un saldo patrimonio ideologico originario dello sport moderno ben custodito, sia pure con la massima riservatezza, dallo zoccolo duro dell’establishment sportivo olimpico [Hoberman 1984]. Non bisogna dimenticare che lo sport moderno è stato inventato in Gran Bretagna e colà concepito come un sistema di valori destinato a diffondersi, per prima cosa, sul suolo nazionale in forza della necessità di portare via dalla strada, per mezzo di un’attività dalla forte connotazione formativa, le masse di giovani abbandonati a sé stessi a causa dell’absent father, il padre assente perché occupato tutto il giorno a lavorare nelle fabbriche nell’incipiente società industriale [Burtstyn, 2000: 54 ss.]. Una formula questa che divenne presto popolare nel sistema di istruzione secondario e universitario, grazie anche all’opera di Arnold, rettore del college di Rugby e grande apostolo della nuova religione dello sport, e all’appoggio convinto della Chiesa anglicana e protestante che elaborò ben presto uno strumento apposito di propaganda, le YMCA, Young Men Christian Association e la corrispondente femminile YWCA.
In secondo luogo, lo sport è andato diffondendosi nel vasto impero coloniale con l’intento di imprimervi un’impronta civilizzatrice di matrice anglosassone, anche attraverso la formazione e l’affermazione di una classe dirigente locale acquisita ai valori culturali e democratici britannici. Ciò è avvenuto favorendo l’ibridazione fra tradizioni sportive locali, come accadde con il polo nell’area indiana, e le proprie, come il cricket e il rugby, che divennero, e molti rimangono tuttora, gli sport più praticati in Paesi come l’India, l’Africa del Sud e l’Oceania. Il messaggio sportivo britannico si propagò anche oltre i confini dell’impero coloniale coinvolgendo tutti i territori in cui il mondo anglosassone perseguiva con tenacia i propri interessi economici, da cui la tendenza, ad esempio, a denominare “internazionali” molti dei primi club sportivi, di cui in Italia oggi sopravvive la radice in una delle maggiori società calcistiche, la milanese “Inter”.
La portata politica della cultura sportiva è stata analizzata acutamente da Norbert Elias ed Eric Dunning sottolineando la contemporanea nascita dello sport e del parlamentarismo inglese, laddove il gentleman abbandonate le aule parlamentari scendeva immediatamente nei campi da gioco trasformandosi così in sportman [Elias-Dunning]. Non è un caso che a Singapore, grande colonia britannica che, nelle intenzioni dell’impero e del Governatore Raffle avrebbe dovuto costituire la porta di accesso alla Cina, l’assemblea legislativa abbia ancora sede accanto al Cricket and Ground Club, dove la classe dirigente locale faceva prove di democrazia e di applicazione allo sport nel modo descritto da Elias, come pure è significativo che a Buenos Aires il Jockey club, fondato dal Presidente Carlos Pellegrini dopo un suo viaggio in Europa in cui si entusiasmò alla nuova moda sportiva assistendo a una corsa dei cavalli a Parigi, sia poco distante dal Parlamento nazionale [Aledda 2002: 319].
Lo sport al suo apparire denota un carattere decisamente virile e al giorno d’oggi esso in profondità rimane ancora un bastione estremo del maschilismo in cui le donne hanno appena cessato di rivestire quella funzione ancillare dei tornei medievali, che consisteva nell’esaltare e fare da premio alle prodezze maschili [Sabo-Runfola]. Dopo essere tradizionalmente relegata a forme di pratica fisica più congeniali alla sua presunta delicatezza come il tennis, ma essere fortemente criticata quando si volle dedicare alle passeggiate in bicicletta e divenire avversata dalle famiglie perché incubatrice di omosessualità [Cahn, 1994: 59 ss.; Fusco], solo in tempi più recenti il gentil sesso è riuscito a crearsi un proprio di spazio. Tuttavia, bisogna tenere presente che a) lo show business retribuisce le femmine assai meno dei maschi, b) lo sport femminile ha un pubblico numericamente inferiore, c) le donne possono competere solo tra di loro (sperimentazioni diverse, in quanto piccole concessioni alla cultura paritaria, servono a rimarcare in modo ancora più conclamato l’inferiorità femminile), d) la classe dirigente delle donne – segnatamente tecnici e dirigenti – è quasi del tutto maschile; e, infine, non meno importante, e) che le attività in cui la donna realizza migliori performance fisiche, come il ballo sportivo o certe forme di ginnastica artistica, tendono a non essere annoverate nelle manifestazioni sportive, bensì tra quelle artistiche. Oggi, comunque, la marcia dell’elemento femminile nello sport, cui corrisponde talvolta l’arretramento dei maschi in alcune discipline sportive laddove, come per esempio nella pallavolo (o nel calcio, il soccer, in Usa), presumibilmente per il timore della perdita di virilità della medesima specialità, procede in modo trionfale come dimostra ormai l’equivalenza numerica delle rappresentanze maschili e femminili nei giochi olimpici dei principali Paesi del mondo. A questo punto il problema è capire se una maggiore femminilizzazione dell’attività sportiva aggiungerà un valore etico allo sport oppure se anche le donne, fattesi trascinare in un equivoco discorso di “parità”, non saranno risucchiate nelle prassi peggiori dello sport campionistico e spettacolare.
Va ancora sottolineata l’incidenza sull’intendimento del fenomeno sportivo, soprattutto in ordine all’opportunità di trasmetterlo acriticamente alle giovani generazioni, del carattere elitario e razziale che esso possiede fin dalle origini sulla base dell’assunto del corpo perfetto e naturale. Un requisito che, nella visione dei suoi inventori, poteva essere appannaggio, in Europa, solo del gentleman, uomo bianco e nobile, e oltre oceano lo divenne per l’americano Wasp; ideologia questa dalla quale discendono diverse conseguenze, tra cui i pregiudizi e i veti che ancora in misura maggiore o minore persistono. Il possesso della qualità di vero sportsman era attestato, intanto, dal fatto che proprio per effetto di questa caratteristica il predestinato non aveva la necessità di addestrarsi, da cui l’avversione nei confronti del professionismo praticato dai ceti inferiori proprio in ragione di una presunta e conclamata inferiorità fisica e di classe che imponeva loro il bisogno di allenarsi, come vedremo meglio tra poco. Non solo ma la partecipazione alla pratica sportiva dei ceti inferiori fu consentita al massimo in funzione di arbitri: quanto pesa questo lascito nello sport lo si vede nel fatto che l’arbitro, in inglese denominato umpire, ossia al di “sotto dei pari”, cioè i nobili (comunque figura scarsamente importante perché le partite in origine iniziavano con i due capitani che fissavano le regole del gioco sancendole con una stretta di mano e l’arbitro doveva solo adeguarsi [5]), nella visione del tifoso arrabbiato sugli spalti ancora oggi continua a essere un disgraziato etichettato come un “venduto”, perché in fondo è un povero diavolo e perciò in cambio di soldi accetta di truccare le partite a favore degli avversari, e pure “cornuto”, perché è tanto sciocco da lasciare la moglie sola di domenica sera per recarsi ad arbitrare le partite.
Il disprezzo nei confronti dei “professionisti” non si attenuò neanche quando si allargò la partecipazione ai ceti inferiori, di cui avevano bisogno i club per vincere le gare, poiché questi si allenavano a pagamento, come abbiamo detto, cosa che il vero nobile evidentemente non poteva fare. E anche se il “proletario” aveva l’ esigenza di allenarsi per colmare il gap con il gentleman, tuttavia proprio grazie a questo espediente dava migliori risultati in campo, da cui il processo che gradualmente porterà alla professionalizzazione di tutto lo sport di alto livello. Quindi, nello sport l’atavica avversione al professionismo e la preferenza per il dilettantismo, che hanno costituito i pilastri del movimento sportivo fino agli ultimi decenni del secolo precedente, quando questa distinzione ipocrita fu definitivamente abbandonata anche nei giochi olimpici, aveva una sottile giustificazione di classe. Infatti, i proletari, i lavoratori manuali, nel dedicarsi alla pratica sportiva erano accusati di essere favoriti dallo svolgere “per professione” mestieri pesanti che tradivano i valori profondi dello sport dando loro un indebito vantaggio fisico (celebre il caso del padre dell’attrice Grace Kelly che fu squalificato dalle gare di canottaggio poiché era considerato un “professionista” visto che facendo il …muratore aveva una forza fisica costruita e non “naturale”). Per queste ragioni l’entusiasmo che mostriamo tutt’oggi per lo sport paralimpico incontrerà sempre limiti di accettazione nell’ambito dello sport, impercettibili quanto si vuole ma sempre limiti, che, sia pure con revisioni moderne, è pur sempre dominato dall’ideale del corpo sano e perfetto.
Non a caso, a conferma di quanto sia valida l’affermazione di Benjamin Constant che la realtà si manifesta nei dettagli, la definizione della partecipazione olimpica attualmente adottata costituisce un ripiego di quella che sarebbe stata più appropriata se si fosse utilizzato il termine “paraolimpico”, inizialmente proposto ma che pare non sia stato concesso dal Cio giacché rientrava in un marchio di sua proprietà, su cui avrebbe mostrato un’apparente e, dal suo punto di vista, comprensibile gelosia. Tutto ciò va constatato senza dimenticare che il mondo del sport è guidato da uomini la cui età media, come nel Cio, è la più elevata tra gli analoghi contesti internazionali, inclusi quelli religiosi, creando il paradosso che un’attività pensata prevalentemente per giovani sia totalmente gestita da vecchi. Non solo, ma l’appartenenza sociale alla vecchia nobiltà e all’alta borghesia del nucleo fondante del Cio, conservatrice e coloniale, ne hanno fatto un elemento distintivo fino a pochi decenni fa rafforzandone la natura di organismo solo formalmente democratico ma nella sostanza fortemente impregnato di ideali conservatori e autoritari. Da qui la maggiore cedevolezza che nella loro breve storia hanno dimostrato alcuni dei suoi dirigenti nei confronti dei regimi totalitari, come fu per le Olimpiadi di Berlino nel 1936 la posizione del presidente Brundage che cedette a Hitler accontentandosi di alcune assicurazioni formali per tranquillizzare l’opinione pubblica ebreo americana e per tutta la “Guerra fredda” l’acquiescenza dello storico presidente Samaranch verso l’Unione sovietica, di cui era stato a lungo ambasciatore spagnolo) [6].
Per dirla tutta, la struttura, la composizione e l’ideologia del Comitato Olimpico internazionale sono giustificate da alcune contraddizioni e lacerazioni profonde che si porta appresso il fenomeno sportivo. Le visioni degli storici che, da un lato, si nutrono di una concezione dello sport di tipo braudeliano, una corrente carsica che attraversa tutta la storia scomparendo e riapparendo occasionalmente nel tempo, come i giochi olimpici, per esempio, o le discipline dell’atletica leggera, le gare della forza o i giochi della palla, testimoniati fin dall’antichità in tutte le società [Aledda 2002: 5 ss.]. Per converso, anche coloro che reputano esista una cesura netta tra lo sport moderno di invenzione britannica e le precedenti espressioni della fisicità anche in senso culturale come furono, per esempio, la ginnastica greca e l’educazione fisica rinascimentale, convergono nell’idea che la pratica sportiva si dibatta costantemente tra democrazia e totalitarismo, libertà e autorità [Holt]. Nel primo senso, nell’antichità si è sempre contrapposta la “ginnastica greca” come spazio di libertà e di libera adesione, degna figlia della grande democrazia ateniese, a quella spartana, che invece era forzata e funzionale a obiettivi egemonici possedendo quindi una conduzione e una vocazione autoritaria (proiezione che intervenne più di recente quando i regime sovietico cercò di organizzare le Spartachiadi in opposizione alle Olimpiadi occidentali).
Analogamente in epoca moderna, il trionfo dello sport anglosassone è stato visto, anche per le ragioni sopra esposte, come l’affermazione di un’attività non a caso fondata nel Paese inventore della democrazia in contrasto con le ginnastiche paramilitari del Continente europeo, principalmente il Turner tedesco di Frederich Jahn, che ben si coniugava con le tendenze autoritarie dello Stato prussiano e la ginnastica francese del Colonnello Amoros che rispecchiava con analoghi intenti il revanscismo dell’Esagono. Nel senso, invece, delle dinamiche interne allo sport si è osservato correttamente che, nella maggior parte dei casi, l’aspetto della libertà si limita appena all’adesione del singolo alla disciplina sportiva o al suo eventuale abbandono, dopo di che è tutto un passare attraverso varchi in cui la libera scelta dello sportivo si riduce appena al gesto atletico sia pure nella misura in cui esso non sia assoggettato a norme tecniche interne e comportamentali esterne. Da qui il prevalere delle figure autoritarie nello sport, dall’allenatore all’arbitro i cui giudizi e le loro decisioni sono insindacabili, e la coercizione dei regolamenti che vietano il ricorso dell’atleta alle giurisdizioni ordinarie senza l’autorizzazione dell’autorità sportiva o rendono legittimi, come negli sport violenti, comportamenti che nella società più vasta sono sanzionati penalmente. Tutto ciò non è né irrilevante né casuale rispetto all’attrazione che esso esercita sulle componenti giovanili giacché frustrazione e supina obbedienza sono spesso insite nella pratica dello sport influendo negativamente sulla costruzione della personalità di chi l’abbraccia, soprattutto nella misura in cui favorisce comportamenti conformi e gregari.
Se il principio del corpo perfetto e “sano” si è imposto come ideologia fondante dello sport moderno, si comprende anche perché non sia mai cessata, ma anche sempre perduta, la guerra contro il doping. La domanda che si pongono di frequente molte persone, anche estranee al mondo dello sport, è perché qui si mostri tanto accanimento contro l’assunzione di sostanze che altererebbero la competizione, mentre altrettanta attenzione non si riscontra in altri campi dove pure questa non è meno acuta, come nella politica, negli affari o nello spettacolo, per esempio, in cui è noto circolano sostanze di tutti i tipi per migliorare i rendimenti e reggere lo stress, creando quindi, come nello sport, un ingiustificato vantaggio competitivo rispetto a chi se ne astiene. Infatti, nessuno si scandalizza o interviene (come quando in Italia un servizio televisivo mostrò che nel Parlamento l’assunzione di cocaina fosse comune a molti deputati e si mise tutto rapidamente a tacere) e né vi è alcun “controllo antidoping” nei tanti ambiti lavorativi e di impegno professionale coinvolti, a meno che non si tratti di droghe ricreative il cui spaccio sia in contrasto con le leggi penali e la cui assunzione presenti profili un po’ più criminali. La differenza è che in quest’ultima ipotesi assumere sostanze dopanti non contrasta, come nello sport, con impianti ideologici specifici, ma solo con l’eventuale bisogno di mantenere il corpo sano, la cui gestione comunque rientra nella sfera del libero arbitrio ancora di più in un’epoca caratterizzata da una maggiore accettazione del suicidio assistito (eccezione questa talvolta ammessa come dirimente anche in ambito sportivo in alcune sentenze dei tribunali americani [Aledda, 1996: 197]).
Che si tratti di un principio, quello della lotta al doping, che si trascina in modo rassegnato anche in ambito sportivo è dimostrato dal fatto che esso ormai costituisce solo un postulato ideologico, che lascia abbastanza indifferenti i dirigenti che non sono mai stati troppo interessati alle conseguenze della loro politica di sfruttamento dello sport sulla salute: l’importante è che sia chiaro a tutti che assumere droghe nell’attività sportiva “appaia” illegale, non importa che lo “sia”, formalmente non solo perché arreca danni alla salute ma anche perché altera la competizione, benché sottovoce si sussurri che nel momento in cui tutti le assumono non vi dovrebbe essere svantaggio reale per alcuno (e in certi sport, come quelli di forza, si stima che ormai siamo quasi al 90 per cento dell’assunzione di steroidi e anabolizzanti) [Aledda, 2004]. A questo punto l’accettazione di pratiche formalmente proibite diviene sempre più un paradigma strettamente funzionale allo show business: poiché per recuperare l’investimento nell’impresa sportiva è indispensabile “vincere” o comunque avere successo, con tutto quello che ciò significa, e perché questo sia possibile con una certezza più prossima a quella matematica è necessario non solo disporre di atleti tecnicamente in grado di raggiungere gli obiettivi ma anche che non rifiutino di pareggiare il rischio del finanziatore dando la disponibilità ad assumersene a loro volta uno analogo riguardo alla propria salute. Emerge il circuito che abbiamo descritto sopra basato sulla triangolazione atleta-dirigente-medico che costituisce un modello chiuso e capace, quando riesce ad attirare nuove leve, di trascinare nel suo vortice tutti i giovani aspiranti alla pratica sportiva, che con la dovuta gradualità e le doverose iniezioni di cinismo dovranno mostrarsi nel tempo disponibili ad assumersi docilmente i necessari rischi anche in ordine alla loro salute in funzione, appunto, del risultato.
Purtroppo bisogna sconsolatamente ammettere che il ricorso a questi “aiuti” è divenuto uno dei principali strumenti di attrazione della moda sportiva lungo la scia di una cultura ormai ampiamente diffusa nella società, vale a dire quella farmaceutica per effetto della quale ogni problema di natura psicofisica a qualsiasi età e condizione trova la sua soluzione in una pillola. Ormai siamo arrivati al punto che, in ambiti come quelli dello spettacolo, segnatamente nel cinema, si vedono attori esibire fisici scultorei ottenuti non solo con gli esercizi con i pesi [Cowart- Yesalis, 1998: 39 ss.]. Dopo di che la moda risulta ampiamente diffusa anche in ambito amatoriale, come dimostrano le frequenti irruzioni delle forze dell’ordine nelle palestre private dove si sequestrano droghe e integratori proibiti con destinazione signori la cui massima aspirazione non è guadagnare la medaglia olimpica ma solo di divenire “Mister condominio” o “Mister beach”.
Infine il ricorso al doping è alimentato (e giustificato) nello sport anche dalla frustrazione dovuta, soprattutto nelle specialità individuali, al fatto che ormai si sono superati tutti i limiti umani tanto che per oltrepassare gli attuali record non basta più il duro allenamento. Perciò, spingendo più in avanti lo sguardo ci si rende conto che non è più sufficiente neanche il doping farmaceutico, ma in prospettiva si potrebbe prendere in considerazione anche quello “chirurgico” nell’ambito di una moderna concezione di corpo cibernetico. Questo potrebbe voler dire che i record della velocità, per esempio, domani potranno essere abbattuti solo da chi avesse il coraggio di farsi montare due protesi al posto delle gambe (e non una come si presenta oggi l’atleta paralimpico, che comunque si deve adeguare al ritmo più contenuto di quella naturale) o possedere un braccio artificiale che getti o colpisca con maggior forza di quello che gli ha dotato madre natura e che lui ha esercitato perché solo grazie a queste modificazioni potrà andare oltre le performance del fisico tradizionalmente considerato “perfetto” e battere il muro del suono dei record. Come si vede spingere i giovani a praticare lo sport attraverso i modelli più reclamizzati significa anche avviarli a dei percorsi di cui nessuno conosce ancora bene gli sbocchi.
Altra caratteristica che sembra presentare all’esterno lo sport moderno è l’abbattimento delle barriere cosiddette razziali, erette nel secolo scorso in coincidenza con l’affermazione delle teorie biologiche sulla razza, nel caso specifico in omaggio al citato principio che il corpo perfetto poteva essere solo quello dell’uomo “bianco”. Le Olimpiadi di Parigi e prima di esse i campionati europei di calcio in Germania sono sembrate il trionfo della società multietnica e così da molto tempo anche tante altre gare sportive, al netto dell’esposizione degli atleti di colore agli incessabili insulti razzisti nelle curve degli stadi. Anche qui sono tante le impressioni distanti dalla realtà. Se ciò, per esempio, può valere per qualche specialità come il calcio, le cui partite mondiali sembrano quelle di un campionato sudamericano, o per l’atletica leggera, la cui finale dei cento metri rimanda più a una gara dei Giochi panafricani, non è così per lo sport nel suo complesso. Quando questa polemica si sviluppò negli Stati Uniti negli anni Ottanta, dove anche lì vi erano i “Vannacci” locali infastiditi che la rappresentanza olimpica non rispecchiasse esattamente la razza americana, gli osservatori più attenti fecero notare che la prevalenza degli atleti di pelle nera costituiva solo un’illusione ottica, dovuta al fatto che nelle più popolari discipline dell’atletica eccellevano gli afroamericani, per esempio nelle corse veloci, ma quando già si passava alle altre specialità, incluse le corse più lunghe del Track and Field, questi incominciavano a scarseggiare. Qualcuno fece notare che se i neri eccellevano in alcune gare di atletica e nel basket, erano quasi del tutto assenti nelle discipline olimpiche più “nobili” come il nuoto, la ginnastica, la scherma, il tiro a segno, il tennis, ecc., per cui alla fine erano presenti nelle rappresentative americane praticamente al dieci per cento, numero che corrispondeva al rapporto esistente nella popolazione nordamericana.
Naturalmente tutto ciò in Usa non poneva a tacere il problema, anzi serviva a rafforzare un altro pregiudizio, ossia che questa anomala concentrazione di afroamericani in alcune specialità e la contemporanea assenza nelle altre più “nobili” confermava la loro oggettiva inferiorità razziale. Questa materia fu accuratamente esaminata e trattata da John Hoberman in un saggio che fece clamorosamente giustizia di tanti luoghi comuni in questo campo, anche perché l’autore era un professore bianco dell’Università del Texas e dimostrava che, a ben vedere, alla base di queste asserzioni vi erano solo dimostrazioni pseudo scientifiche, che l’autore definisce da tabloid, (come per esempio che i neri fossero fisicamente inadatti al nuoto) [Hoberman 1997]. In realtà il fenomeno aveva solo una giustificazione sociale perché alla preponderante presenza degli atleti neri nelle squadre di basket e football corrispondeva non solo una maggioranza nel pubblico di spettatori bianchi, ma che questa si replicava anche nei ruoli dirigenziali e tecnici oltre che in quelli in campo più significativi, come il quarterback nel football. E tutto ciò, per effetto di un sistema che volutamente teneva fuori l’elemento di colore dal “vero” sport, quello dei bianchi, asserzioni come questa che furono successivamente smentite dal successo avuto nel golf, lo sport per antonomasia del ricco bianco, da elementi come l’afroamericano Tiger Woods, tuttora considerato il più grande golfista di tutti i tempi.
In un Paese come l’Italia la presenza di stranieri, dietro la pressione delle lobby interessate prevalentemente ai benefici dello spettacolo sportivo, è stata consacrata dalle leggi che introducono eccezioni negli ingressi e nell’attribuzione della cittadinanza, in un campo appunto come quello dello sport i cui successi sono la spia di primati che un Paese vorrebbe vantare nell’economia e in altre attività più paradigmatiche dello sviluppo ma non di facile dimostrazione come nello sport in cui i risultati sono più accertabili matematicamente…Ecco un’altra ragione per cui tutta la politica si affanna a stare vicina ai campioni dello sport, che tuttavia non costituiscono certo lo specchio di una società come quella italiana che, per una buona metà, non intende essere multietnica e, sotto il profilo dell’attivismo fisico, è tra le più sedentarie del mondo occidentale. Come dire grande consenso e solidarietà per gli sportivi dalla pelle nera che fanno “grande” la “nazione” ma, a prescindere dal disagio che molti atleti di colore nel calcio manifestano nello spogliatoio, non so quanto la nostra premier accetterebbe di uscire la sera con Jacobs e sono sicuro che Vannacci mai inviterebbe a cena Paola Egonu. Come dire, nulla di nuovo sotto il sole per la civiltà che ha inventato la figura del gladiatore.
Ma vediamo ora l’aspetto che ha fatto dello sport il fenomeno più mediatizzato del nostro tempo e che si erge come un macigno capace di sbarrare l’accesso a intendimenti della pratica sportiva che non siano esclusivamente di entertainment. Lo sport ha sempre costituito e costituisce tuttora una branca importante dello spettacolo fin da quando alla Abc americana, negli anni Ottanta, compresero, con il mitico Roone Arledge, che si trattava di un format che più economico di così non poteva darsi per l’azienda dal momento che non erano necessarie studi e registi per montarlo ma bastava recarsi in un campo con un bravo commentatore e una telecamera per avere tutto ciò che occorreva allo spettacolo, dal pubblico agli attori ai registi e ai tecnici. Perciò dalle origini tardo ottocentesche del suo avvento in cui spettatori erano in prevalenza gli stessi atleti con relativo codazzo di familiari e amici rivolti a incoraggiare i propri beniamini, ai giorni nostri in cui le audience mondiali sono costituite dai guardoni degli stadi il cui esercizio fisico si limita appena alla camminata che separa il parcheggio dallo stadio oppure al getto di oggetti contundenti in campo avversario o alle grottesche partite mimate di rugby tra opposte tifoserie, persone, quindi, che dallo spettacolo si ripropongono solo di ottenere eccitazione, identificazione col campione o con i colori per cui si esibisce, fino allo scarico della propria aggressività: dalle campestri e periferiche origini di questo spettacolo del tempo, dunque, ne è passato. Tempo in cui, comunque, l’attività sportiva ha cambiato notevolmente tavola di valori, obiettivi e finalità, relegando ai discorsi ufficiali i caratteri primigeni dell’etica e del fair play dei suoi inventori, che avrebbero dovuto costituire i pilastri di quell’arena simbolica destinata al controllo delle pulsioni giovanili, con l’obiettivo di incanalarne l’aggressività in un alveo valoriale analogico alla creatività artistica. Oggi la pratica fisico-sportiva è sempre meno intesa come disciplina personale in funzione della salute fisica e mentale, e anche quando ciò accade appare concepita più con i caratteri di una moda esteriore che di una convinzione culturale interiorizzata.
I due caratteri fondanti dello sport, dunque, l’aspetto formativo salutistico e quello spettacolare, dopo essersi mossi in parallelo e di comune accordo per quasi tutto il XX secolo, nell’ultimo quarto hanno finito per imboccare direzioni opposte e provocare clamorose sviste. Anche per questa ragione le discipline più “viste” non sono quelle più “praticate” a) nelle scuole, dove sono privilegiate quelle dai caratteri più vicini all’offerta formativa, per esempio più la pallavolo e meno il calcio; b) nella pratica libera e quotidiana dell’uomo e della donna qualunque che preferisce lo jogging e la marcia o la piscina e la palestra alla frequentazione di società sportive che propongono solo un esercizio funzionale alle discipline sportive di alto livello. In quest’ultimo caso, a parte l’analogia formale che spesso fa rientrare ufficialmente in un’unica definizione di disciplina sportiva le varietà in cui si manifesta, e perciò tutte le attività di palestra sono “ginnastica” e le sgambettate all’aperto si definiscono “atletica”. Nella realtà le pratiche appaiono sostanzialmente differenti nella misura in cui la ginnastica praticata dall’utente alla ricerca del puro benessere fisico, per esempio, non è quella definita artistica dagli aspiranti atleti olimpionici, ma un’altra che assume la denominazione di “dolce” a designare un carattere meno agonistico e spinto; ed egualmente la corsa non è contro il cronometro ma è magari contro il sovrappeso, il nuoto non è alla ricerca dei tempi migliori ma, per ipotesi, ha solo l’obiettivo di scaricare le tensioni quotidiane, nei giochi di squadra dilettantistici prevale lo scopo ricreativo, ecc.
In questo modo è possibile comprendere anche la differenza che esiste nella cultura sportiva tra le espressioni sportive del passato e quelle del presente, come vuole un’autorevole tradizione di studi da Jacques Ulmann ad Allen Guttman, dove in testa alle prime ci sarebbe la grande tradizione greca che vedeva l’uomo impegnato a gareggiare contro l’uomo mentre nello sport contemporaneo l’uomo si misura contro il tempo e altri fattori esterni rappresentati dagli inconvenienti della società moderna automatizzata e sedentaria. Con l’ulteriore differenza che mentre il primo si cimentava in nome della religione (il grande significato non solo dei giochi olimpici, istmici, corinzi, ecc. greci, ma anche di quelli gladiatori romani che risalirebbero alle cerimonie funebri etrusche) l’uomo moderno gareggia per lo più in nome della scienza, il record, inclusa quella medica e della salute per quanto andiamo esponendo in questa sede [Guttman], anche se non manca chi ha accostato i riti dello sport moderno a quelli delle religioni: stadi come tempi, giocatori come sacerdoti, pubblico come fedeli, ecc. [Novak].
In questa evoluzione riflettendo sul target principale e più naturale dello sport, ossia la componente giovanile, rimane l’amara constatazione che lo sport ha perso molto della caratterizzazione che lo distingueva fino a qualche decennio fa in cui i ragazzi correvano nei campetti e i “grandi”, genitori e curiosi, stavano a guardare questa attività, appunto, da “ragazzi”. Oggi, non solo la preponderanza del lavoro intellettuale su quello manuale, il mito dell’eterna giovinezza e il bisogno di scendere di peso fanno sì che le palestre siano affollate da persone di mezza età, impiegati e professionisti che anche nel mondo del lavoro hanno bisogno di esibire il giusto phisyque du role e la capacità fisica e mentale di reggere la forte competizione lavorativa e sociale, ma anche l’occhio è cambiato. Infatti, il genitore-tifoso moderno è quello che spesso combina solo guai nell’orientare in senso competitivo il figlio nello sport, scaricando su di esso le frustrazioni di “sportivo” mancato o di persona che nella vita comunque non ha ottenuto il successo che si aspettava e sente il bisogno di proiettarle sul figlio o sulla figlia. In questo senso la pressione sulla pratica sportiva nei confronti dei giovani è divenuta concentrica per effetto di una sorta di triangolo delle Bermude che si è venuto a creare tra giovani – genitori – allenatore operatori sportivi, in cui sprofonda ogni significato valoriale.
Questa è la realtà fatta di chiaroscuri che vive tutti i giorni il mondo dello sport benessere che vede la sedentarietà giovanile aumentare sempre più rapita dalla schiavitù dei piccoli schermi e da coloro la cui età avanza (e non perdona) imponendo di trafficare sempre di più tra bilancieri, scarpette da runner, abbigliamento tecnologico e strumenti come smartphone e smartwatch che danno i ritmi dell’attività misurando performance e salute (per carità, nessun rimprovero giacché sono tutti oggetti simbolici e ausili che possiede anche l’autore di questo articolo). Direzioni veramente impensabili per gli inventori dello sport moderno che puntavano a avere come target bambini e ragazzi e oggi si ritroverebbero a trattare con anziani la cui partecipazione, a conferma del dato inizialmente esposto che spiega come quelle popolazioni presentano un invecchiamento più in salute del nostro, nei Paesi nordici già dagli anni Ottanta si raggiungevano livelli di partecipazione del 70/80 per cento contro la nostra che appena sfiorava il 40% per l’Istat (ma poco più del sei per cento per il Coni) [Aledda, 2003: 9 ss.] . Oggi anche quest’ultima, sia pure a fatica, cerca di stare al passo con la prima. Ma evidentemente non basta.
In buona sostanza dobbiamo fare i conti con una realtà sportiva per un verso contraddittoria e, per un altro, polarizzata sia pure in modo squilibrato. Da un lato vi è lo sport spettacolo, con la sua caratterizzazione professionale ormai accettata anche nelle società cosiddette dilettantistiche in cui, oltre a retribuire gli allenatori che un tempo prestavano gratuitamente la propria attività, si danno rimborsi spesa e mance anche ai più giovani atleti che, mi viene raccontato, in assenza di questi “incentivi” facilmente abbandonano lo sport o cambiano società. In tutti i casi, pur con questi limiti, è innegabile che la pratica sportiva abbacina folle di spettatori in gran parte indifferenti e non affetti da alcuna invidia sociale per le eccentricità e i guadagni stratosferici dei campioni dello sport. Quindi vi è il fardello inevitabile del doping, il cui impatto, tuttavia, è attenuato dall’indifferenza dei molti che vedono in questo e nelle sue conseguenze un rischio professionale abbastanza normale come in tante altre attività a maggior ragione di una come questa che comporta uno sforzo fisico e uno stress superiore. Il ricorso a sostanze dopanti, per completare il discorso avviato in precedenza, è stato metabolizzato rapidamente dai tifosi, dopo gli atleti, come dimostrarono alcune ricerche in questo ambito quando già il problema incominciava ad assumere contorni preoccupanti. La più celebre, infatti, fu condotta a Chicago negli anni Ottanta tra i campioni dell’atletica leggera cui veniva domandato a) se avessero preferito assumere il doping pur di vincere una medaglia olimpica e morire subito dopo o b) se al contrario senza assumere il doping avessero preferito vivere più a lungo rinunciando alle medaglie olimpiche, laddove la maggior parte degli intervistati fu per la prima soluzione. Sull’altro fronte si colloca l’altra dimensione costituita dall’attività sportiva della quotidianità, i cui protagonisti in generale sono abbastanza disinteressati alle vicende dello sport campionistico, soprattutto essendo in gran parte donne, o se si mostrano attaccati a qualche disciplina accade perché hanno un passato da sostenitore o da praticante, militanza questa che conferisce loro un maggiore contegno e una più genuina sportività (in genere è il pubblico del basket e del volley o di altre discipline di squadra e individuali diverse dal calcio).
Un ruolo determinante nel creare fraintendimenti o percezioni negative del fenomeno sportivo è il sistema istituzionale che si presenta con un parallelismo e una lampante contraddittorietà che non mancano di produrre ambiguità e incertezze nella gestione. In pratica succede che, per effetto dell’inscindibilità dei principi dell’etica e della tradizione sportiva, gli stessi organismi di governo dello sport, sia internazionali sia nazionali, sono nello stesso tempo giudici e imputati, custodi di valori sempiterni dello sport e trasgressori seriali dei medesimi, giacché sono organizzatori dello sport pulito e di quello meno pulito, e così via: come dire, da noi sempre le stesse facce sia al Quirinale quando si officiano i valori fondanti dello sport sia in campo quando occorre sbracciarsi per le vittorie della nazionale. Come ho accennato sopra, la maggiore ambiguità è quella del Cio, non a caso anche la più studiata, giacché per convinzione comune il Comitato olimpico internazionale è apparso nel medesimo tempo come sacerdote dello sport disinteressato, puro e dilettantistico, e disinvolto comitato d’affari nell’organizzazione delle sue attività e, per finire, pure esitante censore del doping e delle pratiche antisportive [7]; un gruppo di persone che si è sempre proclamato estraneo alla politica, ma che di questa, in ultima analisi, ha fatto la sua bandiera elaborando proprie linee e andando all’occorrenza contro i principi democratici, a incominciare dalla sua gestione [Houlian; Hill].
Se poi si scende a livello nazionale, il caso italiano è emblematico per racchiudere nello stesso guscio tutte queste contraddizioni. Il governo dello sport è stato affidato dallo Stato italiano integralmente al Comitato Olimpico Nazionale Italiano, appunto il Coni, un soggetto pubblico che, dal Dopoguerra, esercita codesta funzione con alterne vicende. In un primo tempo non vi era competizione sportiva in Italia, fosse dilettantistica o professionistica, amatoriale o di alto livello, scolastica o parrocchiale, che non dovesse avere l’autorizzazione del Coni per essere svolta (naturalmente attenuato, come tutte le cose italiane, dal fatto che il più delle volte queste regole rimanevano solo sulla carta). Il risultato era il paradosso di un organismo preposto alla gestione dello sport di alto livello, quello olimpico per antonomasia, che, come una volpe messa alla guardia del pollaio, doveva occuparsi ambiguamente anche della promozione, per la quale era più naturale che dovessero intervenire altri soggetti, sia pubblici sia privati, ma più vicini alle forme elementari di pratica sportiva. Questo abbinamento apparentemente contraddittorio, tuttavia, da un certo punto di vista, come quello per esempio della promozione dello sport salute, non lo è nell’ideologia dello sport di alto livello che, convinzione molto presente nel fondatore del movimento olimpico, De Coubertin, ha sempre visto nell’allargamento della base dei praticanti il presupposto necessario per la selezione dei futuri campioni.
Un’ambiguità questa, del tutto fa brodo, che pur comprensibile nelle epoche in cui lo sport si affermava in una società ancora caratterizzata dalla pesantezza fisica quotidiana nel lavoro e nella vita sociale, è stata alla base della gestione dello sport italiano fino a quando nell’ultimo ventennio non ci si è incominciati a domandare se non fosse il caso di scindere i compiti della gestione olimpica (come del resto capita in quasi tutti i Paesi del mondo che aderiscono al movimento olimpico) da quella dello sport di base più funzionale ai momenti educativi e della salute. Da qui i tentativi di circoscrivere in sede legislativa il ruolo del Coni per cui, accanto a quella che si occupa delle preparazione olimpica e con le sue federazioni di quello di alto livello, oggi vi è una branca denominata “salute” che dovrebbe seguire tutto il resto. Ciò non significa che l’ambiguità sia scomparsa del tutto nonostante l’apparente comunione di intenti e la coincidenza delle affermazioni di principio. Per cui, se un presidente della repubblica o un’alta carica pubblica o religiosa esalta l’importanza della medaglia olimpica per convincere i giovani a seguire l’esempio dedicandosi all’attività sportiva, probabilmente intende che tanti ragazzi possono sfuggire alla logica perniciosa della strada e delle compagnie pericolose proprio grazie allo sport e divenire così migliori cittadini. Viceversa, l’alto esponente dello sport che pronuncia un discorso perfettamente identico pensa, invece, che tanti giovani potrebbero essere attratti dallo sport per fare questo ancora più grande e vantaggioso economicamente e politicamente per chi lo gestisce o ne trae direttamente o indirettamente soddisfazione politica, infischiandosene del doping e delle altre derive esistenziali. In questo caso ciò che conta non è quello che si dice, ma il retro pensiero che nasconde l’equivoco.
Il risultato di questa apparente scissione del mondo dello sport pur in una conclamata comunione di intenti è la mancata ricaduta sociale sul benessere fisico che costituirebbe la funzione più elevata della pratica sportiva. Infatti il paradosso è nelle conseguenze pratiche giacché, essendo le due finalità – sport spettacolare e promozionale – unificate istituzionalmente, può accadere che la regione o l’ente locale che, avendo iscritto nel proprio bilancio delle somme per l’incentivazione sportiva con finalità di benessere per la popolazione amministrata, in concreto finisca per confondere le due cose ponendo sullo stesso piano l’interesse del tifoso passivo con quello del praticante amatoriale, ripartendo le risorse finanziarie a disposizione con lo sguardo più benevolo verso la compagine di calcio locale o di qualche altra manifestazione sportiva che procura maggiore consenso elettorale o d’immagine. In questo caso ha ben ragione il filosofo francese Robert Dedecker quando sostiene che, lo sport, “nuovo potere spirituale planetario” in ultima analisi è contro l’uomo [8].
Che cosa fare, in conclusione?
Con queste poche righe non intendo certo sottovalutare il problema della sanità pubblica e il merito che ha avuto l’Italia nel conquistarsi i primi posti nel mondo in questo ambito. Ma è necessario che alcune cose risultino le più chiare possibili, anche se le analisi che offro riguardano il più generale contesto occidentale, dove c’è chi ha già fatto molto in materia di prevenzione (che, ripeto, non è quella che intende la classe medica ufficiale fatta di analisi e di controlli del personale), come i Paesi del Centro e Nord Europa, e chi ha fatto quasi nulla come l’Italia. Come pure non mi astengo dal riconoscere che il sistema regionale, che nel nostro Paese ha la competenza in materia, riguardo alla sanità risulta alquanto sbilanciato tra una regione e l’altra da rendere difficile generalizzare troppo; infatti alcune hanno corso e altre stanno ancora ferme al palo, per usare una metafora sportiva. Per esempio, per quanto riguarda il panorama nazionale, soprattutto nell’Italia meridionale veramente questo è il primo problema, direi sportivamente ex aequo con la siccità, gli incendi boschivi, la disoccupazione, il sistema scolastico, i trasporti e l’ordine pubblico, a tacere della criminalità e della corruzione oltre che della povertà crescente. Proprio una bella compagnia, che comunque e stranamente non sembra far tremare i polsi alla classe dirigente locale!
Il problema della sanità va affrontato seriamente rendendosi conto anche quali sono i vantaggi della prevenzione per come la tratto in questa sede. Non c’è dubbio che esiste una larga fascia di popolazione che, per condizioni economiche e sociali, svantaggi ambientali o di qualsiasi altra natura (pensiamo a zone ad alta densità di inquinamento oppure dove vi sono insediamenti industriali tossici che sono alla base di rischi tumorali) presenta patologie delle quali non ha alcuna responsabilità. Ma vi è anche di chi soffre di disturbi ereditari, familiari o dovuti semplicemente al caso con cui spesso e senza alcuna ragione colpiscono le malattie, che non va trascurata. Si tratta di fasce di popolazione meno fortunate a favore delle quali dovrebbero andare le preferenze e le precedenze nel sistema sanitario anche nel senso che, per la parte del discorso che ho svolto, questa corsia dovrebbe restare quanto più libera da parte di chi si crea da solo i guai alla salute trascurandosi, lasciandosi andare, abbandonandosi all’alcol o alla droga, abusando dei piaceri della tavola oppure adagiandosi colpevolmente nel dolce far nulla, magari davanti al calcio in televisione con birre, coca cola e patatine. Non voglio qui riaffermare una sorta di ideologia di un superuomo, come in qualche modo hanno fatto gli inventori dello sport britannico, ma semplicemente fare un richiamo ad un’etica della responsabilità.
Così pure non intendo portare via il giocattolo al vasto popolo degli “allenatori della nazionale” che trova appagamento principalmente nella “partita” domenicale (o in qualunque giorno della settimana si svolga), in mancanza dei quali popolazioni che hanno scarsamente reagito, prima al passaggio degli Unni e poi dei Lanzichenecchi, a seguire delle squadracce fasciste, potrebbero tirare fuori una grinta da far sembrare al confronto Robespierre un pacioso esponente di Amnesty International. Infatti, ho omesso volontariamente nelle mie analisi di trattare tutto quel filone ostile alla pratica sportiva che va dalla Scuola di Francoforte alle più estreme analisi marxiste di Vinai, Scott e Bohm e psicoanalitiche di Lauguidomie che lo considerano, nella sua versione spettacolare, solo un oppio dei popoli, uno strumento di controllo delle masse elaborato dalle classe superiori, segnatamente i capitalisti, per addomesticare e tenere sotto controllo la classe operaia.
Ciò che voglio dire è una cosa, se vogliamo, abbastanza ovvia e cioè che trovo il discorso sulla sanità nella politica e nella società italiana privo di vie di uscita se lo si sgancia dall’aspetto della prevenzione, ossia da un abito con cui un individuo può condursi fisicamente e psicologicamente, possibilmente prima che sia contrassegnato da pessime abitudini, quindi fin dall’età della ragione, se non addirittura prima. Perciò reputo sproporzionata l’enfasi posta dal sistema mediatico, e per la parte che gli riguarda dai decisori politici, sullo sport campionistico spettacolare senza dare alcuno spazio ad alternative nel trattare il tema della partecipazione sportiva. Un simile approccio ai problemi non avviene in altri campi di analogo interesse generale in ordine al tema della responsabilità e della solidarietà sociale, tanto per citarne uno, in cui senza necessariamente celebrare gli eroi vengono portati all’attenzione pubblica comportamenti virtuosi nel quotidiano da parte di persone comuni che si accostano all’ambiente, al volontariato, ai beni della cultura, alla cura degli altri senza arroganza economica e mediatica. Non è poi così difficile con i mezzi e le capacità del sistema mediatico diventare testimonial anche nel campo dello sport amatoriale. Basterebbe puntare la telecamera sul gruppo di ragazzini nel campetto che gioca e si diverte, come pure dei ciclisti amatoriali che corrono nei boschi, ecc. parlare con loro e di loro, esplorarne le motivazioni, farli diventare per un minuto importanti creando così dei modelli come si fa con i grandi campioni giacché la vita di ciascuno di essi anche nella sua semplicità può diventare istruttiva ed esemplare.
Il fatto è che nella società moderna lo sviluppo abnorme dello sport commerciale e professionale, che paradossalmente favorisce la sedentarietà invece del movimento, si è spinto a un livello tale da soverchiare e subordinare ai suoi interessi anche quello della pratica volontaria perseguita in funzione del benessere psicofisico. Infatti le trasmissioni televisive di argomento sportivo non solo risultano soverchianti e poco accoglienti rispetto alle possibilità di essere considerati sportivi in funzione della salute, come dicevo poc’anzi, ma in esse e, soprattutto nei programmi dedicati agli approfondimenti prevale un forte approccio demagogico e nazionalistico in cui, più sottilmente nel servizio pubblico ma in modo più smaccato in quello privato, emerge il messaggio di uno sport sciovinistico, che discrimina, istiga alla rivalità mettendo contro gli uni con gli altri, già in studio, atleti e spettatori dei paesi o della città in cui si disputa la gara, grazie a una casta di giornalisti totalmente appiattita sulle istituzioni sportive ufficiali.
Ma anche stando nell’ambito strettamente agonistico, demonizzare l’avversario, non esaltarne il valore, non apprezzare il bel gesto atletico, la cavalleria, il fair play, come pure il comportamento in campo anche all’insegna del tradizionale “vinca il migliore”, va contro i valori più genuini e fondanti dell’attività sportiva. Se si dice e si crede che lo sport non divide, ma accomuna e affratella, e costituisce un messaggio di pace per tutto l’universo, come si sente ripetere tutti i giorni dai vertici politici e dalla Chiesa, le ricadute saranno inutili se non si riesce a mettere in minoranza chi professa intendimenti di segno contrario. La tifoseria violenta e razzista, e oggi anche criminale, non è un’autoproduzione, ma è figlia di dirigenti sportivi che straparlano e di una stampa e dei media che aizzano, estremizzano, instillano il disprezzo e tante volte anche l’odio per l’avversario. Anche in questo campo occorrerebbe un approccio che riconducesse l’etica professionale nel suo giusto alveo. e già così saremmo entrati nel campo della “prevenzione” della salute, non solo fisica ma anche mentale.
Per fare qualche passo avanti, posto che a poco sembrano servire i richiami ripetuti e costanti anche della classe medica a dedicarsi maggiormente all’attività fisico sportiva, occorre in qualche modo bilanciare l’assenza quasi totale di ragionamenti sullo sport come prevenzione con discorsi, trasmissioni e modelli, che magari incarnino e rispecchino gli interessi dell’uomo della strada, come si fa in tanti altri campi. In secondo luogo, occorre differenziare nettamente i soggetti che si occupano dell’attività di base da quelli che lo fanno in funzione dello sport campionistico e spettacolare affidando i primi possibilmente alla gestione degli enti locali, come capita in quasi tutta Europa, e alla scuola, come avviene in America: in parole povere è necessario, in Italia, limitare il ruolo del Coni al compito istituzionale della preparazione olimpica, come pure quello delle federazioni alla cura del rispettivo sport professionistico e lasciare ad altri soggetti tutto ciò che attiene la promozione, per esempio gli enti di promozione sportiva e le società sportive laiche o parrocchiali o aziendali o militari (con propri dirigenti, tecnici e giudici di gara).
Ma si può andare ancora più avanti con le soluzioni. In questo senso da tempo propongo, per esempio, che nell’insegnamento scolastico, analogamente a quanto si vorrebbe fare con una rinnovata visione dell’educazione civica in funzione della formazione di un individuo aperto e sensibile ai problemi storici e costituzionali del Paese, si potrebbe trasformare l’ora di educazione fisica da un momento in cui si consente agli studenti seduti tutta la mattina di sgambettare per un poco a un altro in cui si parli del corpo, della sua conoscenza e del suo funzionamento, di alimentazione sana e di sintonia con l’ambiente in modo da fondare una cultura capace di generare un cittadino responsabile anche nella misura in cui non pone a carico della collettività i problemi che ha creato con la gestione irresponsabile del proprio corpo. E ciò, tenendo conto che oggi le professionalità nella scuola non mancano, perché se ieri l’insegnante di educazione fisica era un semplice tecnico sportivo oggi è un laureato che ha sostenuto esami non solo di tecnica sportiva ma anche di fisiologia, igiene, psicologia, pedagogia, storia e sociologia, tutti argomenti che è in grado di trattare in una rinnovata visione del mondo. In fondo, mi domando, che senso ha aggregare il corso di laurea in scienze motorie all’area della “medicina” se l’operatore che viene formato sul piano pratico non può fare nulla che sia riconducibile più in generale all’ambito della salute?
Infine l’economia. Tempo fa ho udito una voce alzarsi nel deserto sostenendo che impiegare un paio di miliardi di euro per convertire la popolazione italiana alla pratica sportiva significava risparmiarne almeno dieci in sanità pubblica. La vocina che si levava in qualche consesso sportivo o sanitario era talmente flebile che non sono stato in grado di percepirla del tutto, per cui non so come siano stati fatti eventuali calcoli in questo senso. Tuttavia, anche se la cifra costituisse solo una provocazione possiede senza dubbio un fondo di verità, basti pensare che in Italia si calcola vi siano circa 25 milioni di persone a rischio di obesità (quasi la metà della popolazione, quindi, per come andiamo riducendosi) e che di queste 57 mila ne muoiono ogni anno. Non meno allarmanti paiono le statistiche dei soggetti colpiti da patologie per carenza di movimento, per effetto di costumi alimentari errati, alcol e droghe. Non mi sembra etico, insomma, che uno Stato debba deresponsabilizzare l’individuo, il cittadino, facendogli intendere che può fare ciò che gli pare della sua salute basandosi sul principio che il corpo è suo e perciò ne fa ciò che vuole. Intanto non è così perché chi la pensa così e si comporta di conseguenza, prima o poi è destinato a divenire un problema non solo per la sua famiglia ma anche per la collettività. Un comportamento virtuoso avrebbe non solo ricadute positive sulla salute ma anche una valenza economica perché, a prescindere dai risparmi sulla sanità, si creerebbero nel Paese quelle condizioni di benessere psico fisico individuale che vanno a vantaggio del rendimento lavorativo e professionale e che in Paesi come gli Usa, per esempio, fin dal Novecento hanno fatto capire che una solida cultura sportiva costituiva una delle condizioni per il rendimento nel campo dell’economia. Pensiamo alle concezioni del lavoro per team, alla creazione della leadership e della gestione manageriale fino ai processi motivazionali e condizionali del training autogeno che sono approdati nella cultura del lavoro occidentale direttamente da quella sportiva e che oggi gradualmente incominciano a permeare anche la nostra, quanto meno a livello di linguaggio e di metafore.
In conclusione, per raggiungere concretamente l’obiettivo di una prevenzione ottimale sarebbe già sufficiente impostare una saggia ed efficace campagna pubblicitaria rivolta a incoraggiare e diffondere una cultura della prevenzione, analoga alle numerose altre che oggi ormai si fanno per alcune specifiche patologie. E, dall’altro lato, che sul territorio si realizzassero impianti polivalenti e spazi periferici, semplici ma funzionali, dove il cittadino possa dedicarsi gratuitamente a una pratica basilare di attività fisica, dai giochi con la palla alla corsa, alle camminate, agli esercizio ginnici all’aria aperta possibilmente con l’assistenza di istruttori e animatori comunali qualificati.
È tutto così difficile? No, direi che è solo questione di persuasione collettiva e di volontà politica.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] In effetti il barone De Coubertin era convinto che la diffusione del messaggio olimpico implicitamente avrebbe favorito la pace tra i popoli e perciò non si preoccupò di sancire questo principio tra i fondamenti delle moderne olimpiadi. Fu nel tempo, quando queste assunsero dimensioni e interesse più mondiale che il Comitato Olimpico, resosi conto di avere in mano un potente strumento di politica internazionale, provò a fare leva sui sentimenti di pace dei popoli arrivando a coinvolgere nel 1984, dopo l’edizione scandalosa di Salt Lake City, anche l’Assemblea dell’Onu e proclamando per Sydney 2000 una sorta di pace “Millenaria”; ma ancora di più riuscendo a strappare all’Unesco una pace mondiale in vista delle Olimpiadi di Atene del 2004; ma come dimostra una ricca letteratura su questo argomento in pratica non si andò oltre le attestazioni di principio e di stima per lo sport (cfr.,Boniface )
[2]International sport. hotter, arder, deadlier in The Economist, Septem]ber 14 2024, in cui si spiga come il riscaldamento di vite aree della terra stia condizionando negativamente tutte le gare sportive che hanno bisogno di volgersi all’aperto. Naturalmente i principali imputati sono i campionati di calcio oggi in voga nei paesi del Golfo.
[3] In buona sostanza ci spiegano gli economisti che, anche in rapporto al discorso sull’aumento della ricchezza in una determinata area, come si sostenne, per esempio, per le ultime olimpiadi di Londra, e prima ancora per quelle di Barcellona, si tratta di calcoli fasulli giacché ciò che si ha nello sport di alto livello è solo un trasferimento temporaneo di ricchezze (cioè pubblico che si sposta da quelli sotto casa ai ristoranti e agli alberghi delle città dove si svolgono i Giochi), e poi tutto finisce. A maggior ragione sono precari gli aumenti di occupazione che si registrerebbero in queste circostanze dal momento ché gli eventi olimpici, durando 15 giorni, al massimo possono incrementare il tasso di occupazione nella zona di un mese. Per tutte queste ragioni è ancora più azzardato parlare di aumento del Pil, come si fece per Londra, che sicuramente non bilanciò gli scompensi economici derivati dalla Brexit.
[4] Uno dei pochi testi che conosco sull’effimero sportivo è quello di Makis Chamalidis, Splender at misere del champions che analizza le illusioni e i sogni svaniti a fine carriera dei grandi talenti sportivi, che ha avuto l’occasione di seguire i qualità di psicologo.
[5] Questo accordo, prima delle regole di Berkeley, che si dovettero applicare a tutte le competizioni del football, era fondamentale e distintivo di un gioco da nobili, ispirato alla cavalleria e al fair play, tanto che le origini del “rigore” equivalgono alla punizione massima inflitta a chi infrangeva questi principi. Fu solo dopo il diffondersi di queste regole che l’arbitro acquisì una maggiore importanza.
[6] Nel 1908 due terzi dei membri del Cio era nobile che, grazie a un sistema di cooptazione e del raggio di influenza che ciascun membro si creava, consentiva di continuare a perpetuarsi in base al principio dell’intuitus personae eludendo anche il problema della rappresentatività per stati. Fu solo dopo lo scandalo dei Giochi di Salt Lake City che furono introdotte novità nei criteri di rappresentanza con l’intento di favorirne la rotazione, per esempio portando a 70 il limite di età dei nuovi membri. Le novità, anche dietro la constatazione che, dalla sua esistenza, il Cio, dopo De Coubertin, avesse avuto solo sette presidenti, dal 2001 i 115 membri furono così suddivisi: 15 atleti, 15 dirigenti di federazioni internazionali, 15 dirigenti di comitati olimpici internazionali e 70 altri membri che il Cio giudica in grado di servire il Comitato. Nonostante l’idea fosse anche quella della diversificazione geografica il 40% sono europei, il 5% nordamericani, il 12% America latina, il 7% Medio Oriente, 16% Africa e 18% Asia e dei presidenti solo uno, Avery Brundage era americano, tutti gli altri sono stati sempre europei (Boniface).
[7] Il Cio e le grandi federazioni internazionali sono state colpite a morte quando due giornalisti inglesi, Simson e Jennings, specialisti di malavita, droga e traffici criminali, si sono lanciati alla caccia dei signori dello sport, in testa i dirigenti olimpici, svelando retroscena di macchinazioni, ruberie, truffe e giri di affari sporchi che hanno raccontato in libro, divenuto rapidamente un best seller che nessuna causa intentata riuscì a fermare, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, The Lords of the Rings, ma non in italiano. Qui, quando un editore su mio suggerimento, che gli avevo tradotto un capitolo, provò ad acquistarne i diritti scoprì che erano già stati comprati. Naturalmente il libro non fu mai pubblicato in Italia, fatto questo che la dice lunga sulla gestione dello sport di alto livello nel nostro Paese.
[8] È il titolo provocatorio del libro di Robert Dedecker, Le sport contro les peuples, ed.it. Lo sport contro l’uomo, Troina, Città aperta, 2003 in cui l’autore dichiara che lo sport dopo le olimpiadi di Salt Lake City in cui si scoperse che le attività sportive erano in mano ai mafiosi, vi era traffico di esseri umani, sostanze dopanti, banche biologiche clandestine, riciclaggi di denaro sporco, bolla finanziaria speculativa in via di esplosione, insomma che «lo sport era entrato definitivamente nelle cronache del banditismo» (ivi:.9). Non solo ma che lo «sport è innanzitutto un rumore di fondo planetario continuo…che trasforma la percezione di noi stessi e la dimensione spazio-temporale in cui viviamo» (ivi: 10).
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Aldo Aledda, oltre che esperto di flussi migratori che più di frequente tratta per la nostra rivista, è anche un autorevole studioso del fenomeno sportivo. Dopo una carriera di dirigente e tecnico federale della pallavolo, è stato professore negli Isef e nei corsi di scienze motorie in Italia e Visiting Professor all’estero nelle materie di storia e sociologia dello sport, facendo attivamente parte anche di istituzioni internazionali di etica e cultura sportiva come il Panathlon International. All’attivo ha numerose pubblicazioni, tra le quali alcune premiate al Bancarella Sport e al Concorso letterario del CONI, come I cattolici e la rinascita dello sport italiano (1998), L’importante è vincere. Sport in Usa dal Big Game al Big Business (2000) e Sport. Storia politica e sociale (2002), e altre di maggiore successo editoriale come De Coubertin addio! Corruzione, affari, droga, frode criminalità nello sport (1996) mentre le ultime sono state dedicate soprattutto ai temi etici come Dove va lo sport del 2000? (2003) e The Privacy of Ethics. Also in Sport? (2011).
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