“Tirare la terra” è un’espressione ormai desueta che si è perduta nel linguaggio agricolo di oggi. “Tirare la terra” è proprio di un passato contadino propriamente siciliano, un’arte, una tecnica di comunicazione tra suolo e acqua tramandata nei secoli e utilizzata dagli agricoltori della Sicilia occidentale nelle coltivazioni di orti, giardini e appezzamenti di terreni. “Tirare la terra” è lessico simbolico di un mondo culturale naufragato.
Oggi può considerarsi una tecnica in via di estinzione, oggetto di studi e di riflessioni e testimone di una memoria rurale che Tommaso La Mantia, docente all’Università degli Studi di Palermo, ha raccontato in un libro edito nell’aprile scorso per far sì che resti ricordo di un passato agricolo fecondo se non prodigioso. Conoscitore attento della Conca D’Oro palermitana, La Mantia avvia il suo viaggio “agricolo” da quell’area per testimoniare l’arte di sistemare il suolo con la zappa per consentire di irrigare i campi risparmiando acqua, per quanto sia possibile.
Ma il suo libro L’arte di tirare la terra (edizioni Danaus, 2024), non è semplicemente un manuale sulle antiche tecniche applicate all’agricoltura in diverse aree della Sicilia occidentale ma è un utile compendio che riporta alla memoria familiare contadina, punto di partenza e di arrivo di un percorso basato sugli studi e sulla sua diretta esperienza. La vita dell’autore, d’altra parte è intrecciata con autentici sentimenti familiari e con la laboriosità di uomini che hanno dedicato la loro esistenza alla coltivazione della terra. Il volume è dedicato al fratello Antonino “uno degli ultimi tiratori di terra delle Conca d’Oro”.
«Tutti quelli che hanno scritto della Conca D’Oro ne hanno tessuto gli elogi– Giardini e orti ad ogni passo, tutta la campagna è così amena e coltivata e ricca di frutta che i nostri padri, presi d’amore per la patria, la chiamarono conca d’oro” – scrive La Mantia citando lo storico palermitano Domenico Scinà.
Per i profani va detto subito che tirare “bene” la terra è messo in relazione con un accurato sistema di irrigazione studiato per fare arrivare a bagnare ogni zolla del terreno in funzione anche del clima che nella Conca d’Oro è tra i più felici «per l’assenza di grossi sbalzi termici». Insomma si tratta di ricercare una perfetta alchimia tra luce, temperatura, acqua e terra che porta(va) a coltivare copiosamente agrumi: arance, mandarini e limoni diventati poi famosi in tutto il mondo. L’indissolubile e quasi romantico legame agrumi-Conca d’Oro è evocativo di un passato florido a dispetto delle devastazioni del paesaggio agricolo di oggi, mortificato e quasi scomparso per far posto al cemento grigio di una edilizia incontrollata.
Invece le geometrie dei campi coltivati attraversati da canali irrigui, sono stati (e sono ancora in maniera residuale) intrecci e labirinti di vere opere d’arte naturali realizzate, zolla dopo zolla, grazie alla maestria di abilissimi contadini che hanno saputo tramandare la manualità e modellare il suolo con sapienza, passione e volontà nell’intento principale di economizzare l’acqua in un’area del Mediterraneo che tradizionalmente l’acqua l’ha desiderata e per questo risparmiata, quando vi era.
L’espressione “tirare la terra” è poco presente nella letteratura agronomica – avverte La Mantia – un’espressione «riportata da Henri Bresc (studioso della Conca d’Oro) contenuta in un documento del 1308 a proposito della coltivazione della canna da zucchero; il vocabolo siciliano fondato da Piccitto «riporta all’accezione di tracciare, disegnare i vattali (solchi) per la coltivazione dei carciofi» ma quello che intende La Mantia per chiarire il suo punto di partenza dello studio riguarda il concetto di risparmio cioè «il saper irrigare la terra con il minor consumo di acqua». Per intendere: se il terreno non è “tirato” l’acqua si distribuirebbe nel suolo zappato in modo non uniforme.
È evidente l’interesse scientifico dell’Autore ma lo è altrettanto la sua passione contadina fatta di osservazione, dialogo, attesa e rispetto. Molti termini propri dell’arte di coltivare sono di derivazione araba: vattali viene dall’arabo batil, luogo in cui scorre l’acqua nella parte più bassa del canale, o gebbia (vasca) o saja e via via tanti altri come salibba, furra, masculu, calaturi, puittatturi su cui l’autore si sofferma spiegando etimologia e significato arricchita e spiegata che da foto a colori o disegni; precise sequenze fotografiche mostrano la maestria con la quale il nipote Alessandro “leva” una “prisa” o come si “sbota ‘u pusu”.
Non inganni l’aspetto del libro: la copertina rigida e la carta patinata richiama ad un manuale, come si diceva, ma il contenuto va molto oltre. Curato graficamente, corredato da molte immagini a colori e bianco e nero, da disegni e schizzi esplicativi, consegna anche al lettore meno avveduto e meno interessato all’argomento, una lettura a tratti sentimentale, puntellata da espressioni siciliane non più in uso, tramandate oralmente utili ad arricchire e far comprendere le spiegazioni tecniche e scientifiche contenute.
«La mia ipotesi – scrive la Mantia – è che le tecniche di lavorazione dei campi irrigati si siano sviluppate autonomamente prima e soprattutto dopo l’introduzione delle tecniche di raccolta e di veicolazione dell’acqua da parte degli Arabi, anche tenendo conto del probabile apporto di conoscenze portate da genti provenienti dal Medio Oriente e dal Maghreb». Allora eccoci allo scopo dichiarato dall’autore. «Il libro vuole contribuire a ribadire l’importanza di conservare le tecniche che ruotano intorno all’arte di tirare la terra e all’uso dell’acqua e inevitabilmente a sottolineare l’intimo legame tra questi aspetti e l’agro-sistema della Conca d’Oro» che ancora resiste prima di essere definitivamente inghiottita dal cemento e dall’abbandono.
Ma non è solo l’area del Palermitano a cui l’Autore rivolge la sua attenzione. Il territorio della Sicilia occidentale tra i confini del palermitano e del trapanese presenta diversità evidenti ma anche analogia sulle quali La Mantia si è messo al lavoro incontrando agricoltori dell’area di Calatafimi Segesta, di Trapani, di Monreale, Polizzi Generosa e Scillato, raccogliendo le loro preziose testimonianze mai scritte, ultimi scampoli di memoria di una tecnica in via di estinzione, ed evidenziando similitudini e differenze anche con altre zone del bacino del Mediterraneo.
L’analisi critica e il rammarico per un patrimonio disperso sono contenuti nell’ultimo capitolo “Molto rammarico… e qualche utile proposta” che tra le altre considerazioni sottolinea quella di scegliere «di far tirare la terra a persone non capaci… mentre con molto minore sforzo si poteva contare su un gruppo di persone che potevano diventare, per studenti e fruitori, docenti di agricoltura tradizionale». Sottolinea ancora La Mantia la scomparsa dei giovani e il rammarico di aver interrotto il dialogo tra le generazioni «facendo perdere l’ipotesi di sviluppo del Parco agricolo di Ciaculli». Ma la rimozione della Conca d’Oro «è iniziata da tempo – si rammarica l’autore – Conosco molte aree dove l’agricoltura è stata abbandonata proprio per i costi dell’acqua o perché l’acqua non raggiunge più gli agrumeti a causa dell’urbanizzazione. In entrambi i casi – scrive – gli agricoltori non sono più stati in grado di lottare e vincere contro il mostra della burocrazia…. I favolosi anni nei quali con un paniere di limoni un proprietario di giardini pagava la giornata di un operaio sono finiti da tempo…».
E allora La Mantia, perse tutte le partite e aggrappandosi tenacemente al valore della memoria, suggerisce di iniziare a sognare e propone nelle ultime pagine un ipotetico accordo con il Comune di Palermo, di concerto con altri Enti, che in otto punti programmatici si preoccupi e sancisca «di salvare quello che resta della Conca D’Oro e magari di inserire l’arte di tirare la terra tra “i beni immateriali” prima che i giardini rimangano (come sono) “muti”, luoghi abbandonati che non conoscono più l’uomo né il lavoro laborioso dei contadini, non più luogo di incontro, di suoni, di voci, di canti e di scherzi».
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Mariza D’Anna, giornalista professionista, lavora al giornale “La Sicilia”. Per anni responsabile della redazione di Trapani, coordina le pagine di cronaca e si occupa di cultura e spettacoli. Ha collaborato con la Rai e altre testate nazionali. Ha vissuto a Tripoli fino al 1970, poi a Roma e Genova dove si è laureata in Giurisprudenza e ha esercitato la professione di avvocato e di insegnante. Ha scritto i romanzi Specchi (Nulla Die), Il ricordo che se ne ha (Margana) e La casa di Shara Band Ong. Tripoli (Margana 2021), memorie familiari ambientate in Libia.
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