Salpò sabato da Brema Per un porto d’America, Contando coloni e marinai, uomini e donne Duecento anime in tutto – O Padre, non sotto le tue penne né mai pensando Che la meta era una secca, che d’un quarto di loro Destino era affogare… (Gerard Manley Hopkins, Il naufragio del Deutschland).
La cronaca di questi giorni è occupata dalle vicende tragiche del Medioriente e, in Italia, da fatti riguardanti il Mar Mediterraneo e le persone che lo attraversano per cercare un’altra terra e un’altra vita. In modo particolare, la vicenda relativa ai dodici uomini bloccati al largo di Lampedusa e trasferiti in Albania in un “centro migranti” appare particolarmente odiosa, poiché fondamentalmente frutto di propaganda politica da parte del nostro Governo sulla pelle di questi dodici emigrati. Niente di nuovo sotto il sole, viene da dire, purtroppo.
Ancora una volta il mare che un tempo era nostrum si pone, per l’azione combinata di politiche vessatorie nei confronti dei migranti ed interessi economici che annichiliscono l’umanità degli uomini, come pietra di scandalo, muro d’acqua, altro che ponte tra le culture. Bloccati in mare, questi uomini sono trasferiti in un “centro migranti” gestito dall’Italia ma in Albania: trasferiti o deportati? Da chi stiamo difendendo i nostri confini nazionali? Da chi ci chiede aiuto?
Sul piano inclinato della Storia è facile scivolare se non si cerca un metodo per “tenere insieme” le varie tessere del mosaico, e queste tessere sono le storie, i racconti. Ci viene in mente la storia di Bardosh Bestrova che alle 19:02 del 28 marzo 1997, Venerdì Santo, vede affondare nelle acque del Canale di Otranto la piccola motovedetta Kater i Rades che stava trasbordando sulle coste italiane lui, la sua famiglia e altre cento persone da una Valona impelagata nella guerra civile. L’imbarcazione albanese era appena stata speronata dalla corvetta della Marina militare italiana Sibilla. Di questa storia scrive Alessandro Leogrande, che al naufragio della Kater i Rades ha dedicato un libro, Il naufragio [1], annotando che la storia di questa motovedetta
«costituisce una pietra di paragone per tutti gli altri naufragi a venire, non solo perché è stato l’esito di politiche di respingimento e dell’isteria istituzionale che le ha prodotte. Non solo perché i termini della questione oggi (2011 ndr) sono i medesimi. Non solo perché, con totale cinismo o somma indifferenza, una forza politica di governo continua a parlare di blocchi navali nel Mediterraneo. Il naufragio della Kater i Rades è una pietra di paragone, perché, a differenza dei molti altri avvolti nel silenzio, è possibile raccontarlo» [2].
È possibile così raccontare la storia del primo blocco navale in alto mare, che evidentemente nulla pare avere insegnato al ministro Piantedosi e alla Presidente del Consiglio dei Ministri Meloni. Nulla ha insegnato il recentissimo soccorso in mare di cinquantacinque migranti al largo di Lampedusa operato da alcuni turisti che in quel tratto passavano con la loro imbarcazione: l’umanità chiama l’umanità, soccorrere l’altro in pericolo ci fa pienamente umani.
Troppe volte dimentichiamo che la nostra è l’epoca del naufragio, del presente eternamente appiattito su se stesso senza progetto di futuro; epoca la nostra nella quale improvvisamente sembrano vacillare le tante acquisizioni democratiche ottenute a prezzo di sangue (manifestare il proprio dissenso in piazza, a scuola, sui giornali), scricchiolare pericolosamente lo stato di diritto in una Europa che si “tinge” di oscuri colori e presagi antidemocratici, sobbalzare l’edificio stesso dell’umanità sotto le bombe israeliane a Gaza. «La nostra non è un’epoca di fede, ma nemmeno di incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine» [3].
È il nostro l’evo del disastro ambientale e del naufragio dell’umanità nelle spire di un gorgo nero fatto di stereotipi neofascisti (patria, nazione, difesa dei confini) e insegne luminose che attirano allocchi (guadagno facile, violenza che aumenta nelle nostre città, sprezzo della vita in tutte le sue forme), individualismo. La parte avvelenata della grande mela del consumismo è destinata ai “senza storia”, a quelle persone che non hanno voce: a loro è dedicata una intera fregata della Marina militare italiana – a sedici di loro – per arrivare in una terra che ha dimenticato, anch’essa, il proprio recente passato.
Esistono però piccole luci nell’oscurità dell’alto mare aperto, per continuare ad usare questa allegoria marina; esistono persone che ricercano, provano a mettere insieme le tessere o i cocci dei racconti, scavano proprio dentro l’acqua del tempo, ascoltano testimonianze, setacciano gli archivi di città e paesi. In questo tempo così disumanizzato, ricercano le tracce di una storia terribile accaduta più di centrotrenta anni fa, sepolta e annegata nella generale e voluta indifferenza dei decisori politici: la storia del piroscafo Utopia. Curiosamente a stretto giro di posta sono state pubblicate due ricerche su questa storia, la prima a cura di Roberto Lopes (1891. Il naufragio del piroscafo Utopia, 2023) [4], la seconda a cura di Gianni Palumbo (L’utopia tra le nebbie della memoria. Appunti di un naufragio [5], 2024). Grazie a questi due libri è oggi possibile raccontare la storia di questo naufragio avvenuto al largo di Gibilterra il 17 marzo 1891 nel quale sono morte più di 600 persone. «La storia del piroscafo Utopia, il nome di una nave e una profezia», come scrive Vincenzo Guarrasi nella prefazione al libro di Lopes, «La sua destinazione è l’America. Non arriverà mai alla meta […]. Il suo destino si compirà sulle soglie del Mediterraneo, nel porto di Gibilterra».
Il libro di Palumbo è il risultato di una corposa ricerca condotta dall’autore negli archivi di Stato di Palermo, Napoli, Potenza Matera; una indagine condotta “sul campo” a Gibilterra e presso il “Gibraltar National Archives” e nella Baia di Algeciras, così come presso la cittadina di Linea de la Concepciòn.
L’architrave di questo prezioso lavoro è la complessa storia dei movimenti migratori che dalla fine del XIX secolo e fino agli anni Settanta del Novecento ha mobilitato circa ventisei milioni di Italiani per il Mondo «alla ricerca obbligata di un destino migliore», come scrive Rossano Pazzagli nella prefazione al testo di Palumbo. All’interno di questa cornice storica è ben narrata la storia dell’Utopia: fu errore di giudizio o negligenza del suo capitano? Il lunghissimo ed estenuante processo sulle responsabilità dell’incidente non farà mai completa chiarezza, ma in questo libro troviamo tutti i nomi delle vittime, e da questo punto di vista possiamo affermare, con Pazzagli, che la ricostruzione di Palumbo ha il merito
«di ricollocarle al giusto posto di una storia che le ha a lungo dimenticate. Una storia che già le vedeva soccombere in quanto costretti a emigrare, vittime del proprio tempo e di uno Stato unitario che non riusciva a intervenire sui divari territoriali e gli squilibri sociali, e che poi le ha dimenticate come vittime vere e proprie, morte in fondo al mare di Gibilterra…» [6].
I passeggeri italiani che il 12 marzo 1891 si imbarcarono sul piroscafo Utopia al Porto di Napoli alla volta di New York erano abruzzesi, lucani, calabresi, campani, laziali, molisani, pugliesi, siciliani. Donne e uomini del Sud di questo Paese, un Sud che soffriva di fortissime disuguaglianze sociali e che continua a essere la coscienza sporca e non già la parte “cattiva” di questa nostra Italia. Dal Sud si partiva verso mete ignote, luoghi nei quali essere sterilizzati, contati, assegnati a mansioni umili, in case di lamiera, nei sottoscala, nelle coree e nei “tenements” di tutto il Mondo.
In mare non esistono tragedie, esistono responsabilità precise da parte di chi comanda una nave, di chi quella nave deve seguirla dai porti, dell’equipaggio stesso. Quelle che noi definiamo tragedie hanno sempre a che fare con la responsabilità degli uomini. Gianni Palumbo riesce, attraverso le fonti archivistiche soprattutto, a ricostruire queste responsabilità e a tracciare uno “spaccato” vivo della nostra storia unitaria, che non si svolge su un piano levigato ma inclinato e che abbisogna di rigore di ricerca e approfondimento di ogni singola storia che riemerge dalla nebbia della memoria per essere compresa.
L’autore passa così in rassegna i “momenti” storico-politici interni all’Italia appena unificata, che provava ad essere uno Stato e non soltanto una mera “espressione geografica”. Ci sembrano di particolare interesse i riferimenti che egli fa ai tentativi di controllare o reprimere l’emigrazione dal territorio nazionale specialmente in riferimento al ruolo dei cosiddetti “agenti di viaggio” (“Circolare Menabrea”, “Circolare Lanza”) fino alla “legge di polizia” n. 5866 del 30 dicembre 1888. Con questa legge per la prima volta si tentava di reprimere, attraverso pene e sanzioni, l’attività per lo più illegale degli agenti di viaggio o, meglio, commercianti di persone. Era però questa ancora una legge “debole” per tanti motivi, in primis perché l’ostacolo di fatto all’emigrazione per il tramite della restrizione all’operato degli agenti induceva chi voleva emigrare a scegliere forme di viaggio clandestino e quindi senza alcun barlume di tutela legale.
Palumbo pubblica nella sua ricerca anche la Guida dell’emigrante agli Stati Uniti del Nord America di Roberto Marzo, «Si tratta di un pamphlet, formato tascabile, di 52 pagine, diviso in 30 sotto capitoli, con consigli pratici per chi viaggiava per gli Stati Uniti a fine Ottocento» [7]. Vi si trovano informazioni sulle principali città americane, distanze, pensioni e alberghi, tariffe di vetture, telegrafi, ristoranti, consigli sul commercio spicciolo e appunti sulle principali leggi che regolano la vita civile negli States.
Riteniamo particolarmente degno di nota il paragrafo intitolato “Diari di famiglia”, laddove Palumbo fa riferimento alla scrittura autonarrativa come strumento interpretativo importantissimo per comprendere la storia dell’emigrazione, pensiamo ad esempio a Tommaso Bordonaro, a Sabatino Basso e Santo Garofalo o alle fonti citate da Paolo Barcella e Amoreno Martellini nei loro importanti lavori sul fenomeno migratorio italiano [8].
Abbiamo trovato molto interessante il capitolo 3 “Piroscafi e naufragi”, un vero e proprio “catalogo delle navi”: Palumbo racconta con dovizia di particolari i disastri in mare dal 1866 che hanno preceduto quello dell’Utopia. Vi troviamo la storia del London, del City of Boston, dell’esplosione del Westfield a New York durante un uragano, del Cospatrick, della Ville du Havre. Una teoria di morti, spesso emigranti.
La storia del piroscafo Utopia è anche la storia di una compagnia di navigazione, la Anchor Line dei fratelli Handyside e di Thomas Henderson. Quest’ultimo, già capitano del piroscafo Orion, naufragato a Portpatrick il 18 giugno 1850, impresse alla precedente ditta marittima dei fratelli Handyside (N&R Handyside & Co.) una caratteristica precisa di società di navigazione per il trasbordo di merci e uomini. La Anchor Line venne ufficialmente fondata nel 1856 con sede a Glasgow. Purtroppo la storia di questa società di navigazione principia male, con la perdita del clipper Tempest nel 1857. Nel 1865 la Anchor Line aprirà una propria sede a New York con il nome di Henderson Brothers, via via poi espandendosi anche in ragione di una rotta molto importante aperta nel 1869, il Canale di Suez.
Nel 1874 fu varata la nave Utopia destinata a coprire inizialmente la rotta Glasgow-New York, nel 1882 venne poi attivata la rotta Glasgow-Messina-Napoli-New York-Glasgow. La nave pesava 2720 tonnellate lorde, 1743 nette, era lunga 107 metri e larga 11, alta 9 metri:
«misure, queste che ben rappresentano i primi piroscafi adibiti al trasporto transoceanico delle persone e quanto gli stessi fossero distanti dall’iconografia dell’immaginario relativo agli immensi transatlantici nello stile del Titanic. I primi viaggi transoceanici erano effettuati con delle navi che oggi non esiteremmo a definire “carrette del mare”» [9].
Inizialmente l’Utopia poteva trasportare fino a 600 persone in terza classe, ma con l’ammodernamento del 1890 ne poteva addirittura trasportare 900, sempre in terza classe. L’ultimo viaggio del piroscafo comincia il 25 febbraio del 1891 a Trieste, toccando poi Palermo e Napoli; da Napoli, il 12 marzo 1891, l’Utopia, comandata dal capitano e vecchio lupo di mare John McKeague, prende la rotta per New York, traversando il mare di Alboràn e dirigendosi verso lo Stretto di Gibilterra.
Poi, nello Stretto di Gibilterra, la tempesta, le onde alte, la pioggia battente, la visibilità nulla, le correnti marine fortissime; in questo contesto così pericoloso già senza che vi occorra tempesta per la struttura geografico batimetrica delle acque dello Stretto, il capitano McKeague si trova di fronte due imponenti corazzate ancorate al porto militare di Gibilterra, la Anson e la Rodney: decide così di oltrepassare le due imponenti navi per cercare ancoraggio oltre le poppe di queste, ma appena oltrepassata con la prua la punta della Anson il piroscafo Utopia urta violentemente contro il rostro sommerso di questa ricavandone un grosso squarcio laterale dal quale la nave imbarcò subito così tanta acqua da inondare completamente la poppa e la sala macchine. In pochissimi minuti la poppa affondò, e in circa cinque minuti rimase solo la prua col sartiame a galla, dove provarono disperatamente ad ancorarsi alcuni passeggeri, per altri non ci fu nulla da fare e vennero sprofondati tra i gorghi neri di quel mare in tempesta. Eroica l’azione dei tanti marinai “senza un nome” delle altre navi ancorate ai moli che si lanciarono, a rischio della propria stessa vita (e in alcuni casi perdendola, come accadde al fuochista George Hales e al marinaio James Croton), in soccorso ai naufraghi, come più di un secolo dopo hanno fatto i turisti al largo delle coste di Lampedusa lo scorso settembre. È sempre una questione di umanità.
Quali manovre avrebbe potuto tentare McKeague? Il disastro fu dovuto alle condizioni meteo climatiche avverse? Dalle carte esaminate da Palumbo risulta come in generale nei processi seguiti al naufragio la posizione di McKeague sembrasse alleggerita, soprattutto grazie alla perizia del comandante Giovanni Bettòlo.
Gianni Palumbo prende in esame anche la situazione geopolitica nella quale venne a determinarsi il naufragio del piroscafo e quindi la posizione di ancoraggio delle due navi da guerra nel porto militare di Gibilterra: almeno una di queste navi ancorava al porto «in palese violazione dei regolamenti portuali. In particolare, la corazzata Anson si trovava ancorata ad un capo dell’imboccatura principale del porto, dall’altra parte del faro» [10].
La giustizia ha poi fatto il suo lungo e tormentato corso, e i documenti processuali, oltre alla disamina geopolitica di quegli anni, analizzati e pubblicati da Palumbo ci consegnano una verità multi sfaccettata sugli accadimenti di quel lontanissimo 17 marzo 1891 presso lo Stretto di Gibilterra. Ancora Palumbo:
«L’articolarsi dell’esame di altre questioni di natura giuridica ha, in qualche misura, rappresentato una sorta di riscatto in sede civile – benché incardinato su un tempo lunghissimo – rispetto ai tempi rapidi della procedura penale della corte gibilterrina. Tale riscatto, tuttavia, perdendo la sincronia con l’afflato emotivo del momento della tragedia ha avuto come effetto quello di relegare tutti gli articolati e complessi motivi che concorsero al naufragio in un ambito di consapevolezza marginale, tanto da condizionarne il riverbero nella cronaca del tempo e nella scarna e tardiva bibliografia ufficiale» [11].
Una conclusione politicamente corretta: il destino, il caso, il funesto intrecciarsi di eventi infausti su quei poveri emigrati. In realtà, allora come oggi, i diseredati della terra soffrono la più completa marginalità nel discorso politico istituzionale e sulla loro pelle si gioca la partita sporca del capitalismo. In 130 lunghissimi anni financo l’elenco completo dei passeggeri che quella maledetta notte viaggiavano sull’Utopia è stata spesso oggetto di discussioni, diatribe, contraddizioni ma assume, secondo Palumbo, «un significato pregnante, per nulla fine a se stesso, nel ridare nomi, volti, biografie di quel popolo viaggiante» [12].
È una coscienza civile potente che guida Palumbo nella ricostruzione del naufragio di questa nave, perché «la storia è il modo in cui il mondo laico si prende cura dei morti», come ebbe a scrivere Saidiya Hartman parlando degli schiavi deportati lungo le rotte atlantiche [13]. La dettagliata indagine che Gianni Palumbo ci consegna ha anche un significato politico forte alla luce degli accadimenti di oggi nel Mediterraneo, perché il senso profondo della Storia e di ogni storia è la connessione con il presente e la visione chiara di un possibile futuro per la costruzione di una memoria condivisa, e finché il presente sarà intriso di parole d’ordine quali “difendere i propri confini”, “li aiutiamo a casa loro” o il recentissimo “i campi in Albania sono un mandato chiaro ricevuto dai cittadini” avremo tutti fallito come donne e uomini ancor prima che come cittadini di Stati che pretendono di definirsi democratici.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Alessandro Leogrande, Il naufragio, Feltrinelli, Milano 2011
[2] ibidem: 206
[3] Nicola Chiaromonte, Il tempo della malafede e altri scritti, edizioni dell’asino, Roma 2013: 67
[4] Roberto Lopes, 1891. Il naufragio del piroscafo Utopia, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2023
[5] Gianni Palumbo, L’utopia tra le nebbie della memoria. Appunti di un naufragio, Marotta e Cafiero, Melito di Napoli (NA) 2024
[6] Rossano Pazzagli, prefazione a L’utopia tra le nebbie della memoria. Appunti di un naufragio, op. cit.: 17.
[7] Gianni Palumbo, L’utopia tra le nebbie della memoria op. cit.: 75.
[8] Amoreno Martellini, Abasso di un firmamento sconosciuto. Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative, Il Mulino, Bologna 2018; Paolo Barcella, Per cercare lavoro. Donne e uomini dell’emigrazione italiana in Svizzera, Donzelli, Roma 2018. Di Tommaso Bordonaro ricordiamo La spartenza, Einaudi, Torino 1991. La storia di Sabatino Basso e di Santo Garofalo possiamo rinvenirla in Avendo trovato l’America. Scritture di viaggio tra Sicilia e Nuovo Mondo a cura di Santo Lombino, Fondazione Ignazio Buttitta, Palermo 2010.
[9] Gianni Palumbo, L’utopia tra le nebbie della memoria op. cit.: 179
[10] Ibidem: 214
[11] Ibidem: 285
[12] Ibidem: 286
[13] Cfr. Saidiya Hartman, Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi, Tamu, Napoli 2021: 34.
Riferimenti bibliografici
Paolo Barcella, Per cercare lavoro. Donne e uomini dell’emigrazione italiana in Svizzera, Donzelli, Roma 2018
Saidiya Hartman, Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi, Tamu, Napoli 2021
Alessandro Leogrande, Il naufragio, Feltrinelli, Milano 2011
Roberto Lopes, 1891. Il naufragio del piroscafo Utopia, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2023
Amoreno Martellini, Abasso di un firmamento sconosciuto. Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative, Il Mulino, Bologna 2018
Augusta Molinari, Traversate. Vita e viaggi dell’emigrazione transoceanica italiana, Selene Edizioni, Milano 2005.
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Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”,“larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour. Con Giuseppe Oddo ha recentemente pubblicato Nostra patria è il mondo intero (Ispe edizioni).
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