Noi quindi li possiamo ben chiamare barbari considerando le regole della ragione, ma non rispetto a noi che li superiamo in ogni sorta di barbarie (Montaigne 1991: 240).
Introduzione
In un denso articolo apparso nello scorso numero della rivista, Fabio Dei propone una disamina del concetto di progresso, dei suoi utilizzi e dei suoi evitamenti all’interno dell’antropologia occidentale. Concetto che sembra pervaso da una visione intrinsecamente (e moralmente) positiva, inteso come avanzamento ma, nell’uso comune, miglioramento. In questo senso, parlare di progresso o di soggetti progrediti pone quasi inevitabilmente un confronto con altri soggetti rimasti “più indietro”. Al netto di tutte le interpretazioni e analisi culturali che possiamo dare di questo concetto, Dei solleva un punto cruciale: «davvero non è legittimo trovare un accordo su un criterio di valutazione qualitativa delle culture?».
Il fatto è che, nonostante la sua crisi novecentesca, l’idea di progresso rimane ancora oggi saldamente utilizzata nel linguaggio economico, sociale, politico, e altresì oggetto di dibattito. Nell’antropologia contemporanea prevalgono approcci più critici e decostruttivi, e in generale si ritiene che su questa nozione pesino troppe stratificazioni culturali e storiche perché la si possa impiegare efficacemente nella disciplina. Eppure, come sottolinea Dei, «nell’antropologia rimane comunque presente in modo esplicito o implicito, una qualche diversa concezione del progresso, che ne orienta la ricerca» (Dei 2024). E questo accade perché il giudizio è parte integrante dello sguardo antropologico; l’etnografo – come ogni essere umano – è costantemente impegnato a giudicare ciò che percepisce, che esperisce, che incorpora o che incontra nel corso della sua ricerca; questi giudizi permettono di distinguere ciò che esiste, nei suoi diversi modi; nel caso dell’antropologia, distinguere i diversi modi di essere umani. C’è poi un secondo livello, ossia decidere che cosa fare di queste differenze: possiamo porle su un asse valoriale opponendole l’una con l’altra; possiamo riconoscere gradi di similitudine tra alcune di esse, tracciando così reti di somiglianze (Remotti 2019); possiamo usarle per comporre modi d’esistenza radicalmente diversi, come nelle ontologie indigene; possiamo classificarle sulla base dello loro reciproche relazioni all’interno di un sistema strutturale. O possiamo anche utilizzarle per diversi tipi di comparazione tra contesti culturali.
Prima di chiedersi quali siano le differenze più adatte per parlare di progresso in antropologia, occorre delucidare meglio questo concetto. Nella sua etimologia (progressus) troviamo l’idea di un avanzamento, cioè di un procedere verso una precisa direzione, vale a dire un movimento orientato. Penso non sia possibile eliminare del tutto questa dimensione orientata, in virtù della quale si progredisce sempre verso qualche cosa. A questo punto le domande sono due: a) questo orientamento è sempre culturalmente orientato o esiste una direzione universalmente valida? b) in che misura il fine (o i fini), il télos di questo progresso è determinato meccanicamente o frutto di una teleologia umana? Sono questioni che penso debbano sempre rimanere sullo sfondo dell’intera discussione, che cercherò di affrontare sotto alcuni aspetti nelle prossime pagine. Ritengo che un obiettivo cruciale di questo dibattito sia l’elaborazione di strumenti operativi concreti, utili non solo ad arricchire il bagaglio metodologico della disciplina, ma anche ad evitare che queste riflessioni finiscano per risolversi in una teorizzazione priva di “mordente” sui contesti culturali reali. Un obiettivo ambizioso, e certamente impossibile da affrontare in solitaria; ragion per cui in questo breve articolo mi limiterò a condividere alcune riflessioni da integrare con quelle delle altre antropologhe e antropologi che hanno deciso di accettare la sfida posta da Fabio Dei.
Il suo contributo ricerca un continuo equilibrio tra una lettura critica alle interpretazioni deterministiche e teleologiche del progresso e un tentativo d’apertura a un loro uso ponderato. Una possibile obiezione a questo tentativo, in realtà già anticipata dallo stesso antropologo, è che un simile approccio possa finire per reintrodurre implicitamente una gerarchizzazione delle società umane, qualcosa di incompatibile con il relativismo culturale largamente accettato nell’antropologia contemporanea; occorre però intenderci su quello che consideriamo “relativismo”. Penso si tratti di un punto importante, cui ho dedicato il secondo paragrafo di queste brevi riflessioni. Dato che però Dei chiama in causa l’umanesimo etnografico di de Martino, non posso fare a meno di iniziare riprendendo un articolo tanto interessante quanto insolito (per il suo oggetto) che Francesco Remotti ha dedicato all’idea di progresso in de Martino (2022).
Tra universalismo e relativismo
Ne La fine del mondo, de Martino fornisce una definizione molto precisa di progresso, come ethos della valorizzazione intersoggettiva della vita: «ogni civiltà – finché dura nella storia – è progresso, cioè appunto valorizzante emergenza dalle condizioni naturali, quale che sia la coscienza che abbia di questo emergere» (de Martino 1977: 673); inoltre, egli riconosce in modo altrettanto chiaro alla società occidentale una condizione preminente, in cui per la prima volta nella storia l’ethos del trascendimento ha la possibilità di esprimersi appieno; lo scopo però, come sottolineato dalla stessa Gallini (1977: XCI), è una messa in causa dei propri valori per migliorare la propria società; è un lavoro continuo e sfidante, in cui non sono consentite «fughe da noi stessi» (Gallini 1977: XCII) in qualsivoglia esotismo. «Nel confronto [con le altre società, n.d.a.] non si tratta di liquidare l’Occidente, ma di metterlo in causa, di assumere coscienza dei limiti del suo umanesimo fin oggi corporativo, e di restituirgli la potenza egemonica compromessa» (de Martino 1977: 352) qualcosa di possibile solo attraverso l’etnocentrismo critico.
Su questi aspetti l’introduzione di Clara Gallini alla Fine del mondo contiene ancora oggi una lucida analisi della traiettoria intellettuale demartiniana rispetto alla crisi novecentesca dell’idea di progresso. L’antropologa scriveva allora che su de Martino gravavano tentazioni di segno contrario, come filosofo della crisi:
«Nonostante gli appelli a una solare ragione crociana, nonostante i tentativi di assimilare Gramsci e Marx. […] De Martino, per quanto rifiutasse energicamente di riconoscerlo – ma sempre in nome di una Ragione altrettanto trionfante quanto astratta – era strettamente imparentato con la letteratura europea della crisi. Intratteneva con essa un irrinunciabile rapporto di odio ed amore, che gli impedì sempre, anche negli ultimi anni (soprattutto negli ultimi anni) di ritenere chiuso questo capitolo e di dedicarsi ad altre tematiche» (Gallini 1977: XLII).
In tal senso, Remotti coglie alcune delle contraddizioni maggiori all’interno di questo lavorìo intellettuale, problematizzando la nozione demartiniana di progresso proprio per il ruolo egemonico che assegna alla società occidentale. In contrapposizione alla ciclicità “primitiva” del tempo, egli sosterrebbe l’idea di un progresso storico lineare e infinito, «non […] un mito, bensì un destino che attiene alla civiltà occidentale, e di cui occorre essere storicamente consapevoli e culturalmente fautori, nonché convinti, lucidi pensatori» (Remotti 2022: 21). Più in generale, Remotti critica la visione antropocentrica sottesa all’idea di ethos della valorizzazione, evidenziando come nell’Antropocene la mera riaffermazione del dominio culturale o una riorganizzazione simbolica della presenza non bastano a superare le crisi climatiche ed ecologiche; occorre invece ripensare profondamente il rapporto con il mondo naturale, la cui svalutazione da parte di de Martino è, secondo Remotti, legata all’impostazione idealistica crociana.
Una discussione puntuale di questa interpretazione è oltre gli obiettivi dell’articolo, ma mi è parso utile segnalare come uno dei più importanti esponenti dell’antropologia italiana abbia integrato la nozione di progresso nel suo pensiero. Nei suoi appunti sulla riforma dell’etnologia, de Martino aveva previsto una critica specifica al relativismo culturale (1977: 688), considerandolo un approccio estetizzante che pretendeva di estraniarsi completamente e sospendere ogni tipo di giudizio di valore. Ma lo si voglia o meno, una certa dose – anzi, una certa forma – di relativismo rimane necessaria in antropologia, e con buona ragione; come sottolinea Michael Brown, «as outsiders and guests, we suspend overt judgment out of respect for our hosts and, it must be said, to be allowed to complete our research. Regardless of its ethical complexities, methodological relativism is likely to remain an uncontested feature of anthropological practice» (Brown 2008: 367).
Quando però parliamo di progresso, l’approccio relativista rischia di far naufragare ogni tentativo di individuare dei criteri universali con cui poter confrontare qualitativamente e giudicare i diversi contesti culturali; gli antropologi si sono interrogati a lungo su questa tensione: vi sono studiosi come Melville Herskovitz che negano la possibilità di standard morali universali (Herskovitz 1972: 31-34); altri, come Elvin Hatch (1983), propongono un minimo comune denominatore valido per ogni società, legati a degli universali biologici funzionali al benessere umano. La sua idea di un “principio umanistico” condiviso rimane però molto fragile, come egli stesso riconosce: «the ledger sheets on which we tote up the pluses and minuses for each culture are so complex that summary calculations of overall moral standing are nearly meaningless» (Hatch 1983: 139). Dei si è scontrato con il medesimo problema presentando le tesi di Steven Pinker; lo scienziato canadese individua delle condizioni generali che tutti (o almeno, tutti noi occidentali) riterremmo preferibili ma che diventa difficile pensare di poter calare nell’eterogeneità dei contesti culturali globali. Su questo, mi limito a riportare un passaggio particolarmente lucido di Brown:
«A more sophisticated universalist position insists that the psychic unity of mankind implies a shared morality, a set of natural-law principles found everywhere, although they may be unevenly applied and imperfectly understood in specific societies. The moral principles offered by universalists tend to be sufficiently abstract that they flirt with triviality, as in “Societies everywhere hold that human life is sacred and cannot be taken without justification.” A statement such as this is not exactly wrong, but it is not particularly useful either, given the range of circumstances that qualify as justification in diverse cultural settings. A context-sensitive application of natural law would require heroic feats of casuistry to encompass the varied circumstances of humankind. The result, I suspect, would begin to look a lot like-relativism» (Brown 2008: 368).
Se rinunciamo all’idea di una garanzia esterna, sovrannaturale o comunque extra-umana, allora il problema è che nessun tipo di criterio morale, in nessun caso, può essere totalmente giustificato da alcunché. Ogni “polo valoriale” verso cui si deciderà di orientare il progresso è e sarà sempre ideale e temporaneo; possiamo ridurre la grandissima eterogeneità tra contesti culturali solo in modo approssimativo, rinunciando da una parte a trovare dei criteri universali assoluti, e riconoscendo dall’altra che possiamo comunque trovare delle forti somiglianze e condivisioni tra mondi morali. Anziché un solo e unico movimento orientato, perché non immaginare una serie di avanzamenti che partono da punti diversi, seguono traiettorie differenti con valori differenti, procedendo però nella medesima direzione? In altre parole, pensare a una convergenza.
Il concetto di convergenza è tutt’altro che nuovo nell’antropologia e nella sociologia; seppur in modi diversi, le due discipline hanno elaborato e usato tale nozione per interpretare lo sviluppo di somiglianze culturali tra società differenti. Per quanto riguarda l’antropologia culturale, e in particolare nel contesto statunitense, si è ricorso alla convergenza come principio esplicativo alternativo al diffusionismo, per descrivere il processo attraverso cui società distinte sviluppano tratti culturali simili in risposta a condizioni – ambientali, economiche, psicologiche, ecc. – analoghe, senza necessariamente essere entrate in contatto tra loro o condividere il medesimo background culturale. Similmente a quanto accaduto per il diffusionismo o l’evoluzionismo, il concetto di convergenza è stato soggetto a notevoli rielaborazioni, critiche, abbandoni e riprese nel corso dei decenni, nel tentativo di bilanciare le sue potenzialità esplicative con l’importanza delle specificità storiche e delle dinamiche di contatto tra contesti culturali.
Uno dei primi antropologi ad affrontare criticamente l’uso della convergenza fu Alexander Goldenweiser (1913; 1955), che ne distinse tre forme:
«I designate as “convergence” or “genuine convergence” the independent development of psychologically similar cultural traits from dissimilar or less similar sources, in two or more cultural complexes. When the similarities between the cultural traits are not psychological, but merely objective or classificatory, I shall speak of “false convergence”. “Dependent convergence”, finally, will be used of those similarities that develop from different sources, but under the influence of a common cultural medium» (Goldenweiser 1913: 269).
Non si tratta di distinzioni fini a se stesse: nei suoi lavori, infatti, Goldenweiser criticò l’eccessivo e talvolta improprio ricorso alla convergenza come spiegazione per le somiglianze culturali. Pur essendo valido in molti contesti, e pur rappresentando un concetto esplicativo più utile del diffusionismo, rischiava di essere utilizzato in modo superficiale, appiattendo la complessità dei fenomeni culturali. Goldenweiser sottolineò come non tutte le somiglianze fra le società potevano essere spiegate tramite convergenza o parallelismo evolutivo, e che anzi molto più spesso il contatto diretto o la diffusione culturale fossero cause più plausibili delle convergenze ipotizzate. In contrapposizione alle visioni più deterministiche della convergenza, Goldenweiser riaffermò l’importanza del contesto locale nella formazione delle somiglianze tra società. (Fig.3)
Fu poi il già citato Herskovits, allievo di Franz Boas, ad apportare un ulteriore contributo alla discussione sulla convergenza all’interno dell’antropologia culturale, dedicandosi allo studio dei processi di acculturazione; Herskovits prese progressivamente le distanze dalle visioni eccessivamente rigide della convergenza intesa come meccanismo evolutivo, concentrandosi sulle modalità di contatto fra le società e su come determinati elementi di culture diverse potessero fondersi e dare origine a nuove forme ibride (Herskovitz 1964). L’antropologo statunitense applicò tale teoria allo studio delle popolazioni afroamericane, mostrando come i tratti culturali africani si fossero integrati con quelli occidentali nel contesto delle Americhe coloniali. Ovviamente questo tipo di convergenza non era dovuto a parallelismi evolutivi, bensì ai processi di reciproco adattamento culturale e interazione. Herskovits sviluppò il concetto di convergenza come processo multidirezionale, in cui la creatività culturale emerge dalla fusione di elementi eterogenei in nuovi contesti. Non una semplice omologazione meccanica, ma un processo capace di generare nuove espressioni culturali in risposta alle circostanze storiche e sociali.
Negli ultimi vent’anni il concetto di convergenza ha continuato ad essere oggetto di riflessione e confronto, specie in relazione ai fenomeni della globalizzazione, del transnazionalismo e dell’ibridazione culturale, nel solco tracciato da Herskovits e i suoi allievi. Sia Hannerz che Appadurai hanno ripreso l’idea di convergenza enfatizzandone il potenziale creativo, di produzione di nuove forme culturali all’interno della globalizzazione; entrambi, tuttavia, sottolineano come la convergenza culturale sia un dispositivo teorico caratterizzato da una continua tensione tra processi di omogeneizzazione e diversificazione. Lo si nota bene nella visione di Appadurai, che attraverso i suoi -scapes (mediascapes, ethnoscapes, ecc.) descrive flussi globali di persone, idee, tecnologie e immagini capaci di creare un’interconnessione culturale senza precedenti, che però non sopprime le specificità locali e anzi si rivela, talvolta, generativa. In sostanza, la traiettoria del concetto di convergenza in antropologia l’ha portato da essere uno strumento esplicativo fortemente deterministico e strutturale, ad assumere un carattere più contestuale e dinamico; le somiglianze culturali tra società vengono dunque considerate come risultato di interazioni complesse tra locale e globale. Questo vale anche per la sociologia, dove lo stesso concetto ha avuto particolare fortuna nel campo dell’analisi economica e dei fenomeni di industrializzazione.
«The basic idea of all theories of convergence is that industrialism brings with it certain inevitable changes in the way that social life is organised and imposes common patterns of social behaviour on societies that embark on the path to becoming ‘industrial societies’ »(Brown & Harrison 1978: 127).
In sostanza, man mano che le società progrediscono lungo il percorso dello sviluppo industriale, tendono a somigliarsi sempre di più nelle loro strutture sociali, politiche ed economiche. Questo approccio si è affermato in particolare nello studio delle economie capitaliste avanzate, dove i processi di globalizzazione e interconnessione economica spingono verso una certa standardizzazione delle istituzioni e delle pratiche. Secondo David Brown la convergenza non si limita alle strutture economiche ma si estende anche a quelle culturali nel senso più ampio del termine. Nel suo lavoro sulla teoria dell’industrializzazione ha però riconosciuto come la convergenza non sia mai totalmente lineare, dato che specifici fattori storici e culturali influenzano il modo in cui le istituzioni e le pratiche globalizzate vengono recepite e reinterpretate a livello locale. Anche in questo caso, dunque, le tendenze verso una omogeneizzazione globale vengono controbilanciate dalle specifiche differenze culturali e storiche dei contesti locali.
In sintesi, fin dalla sua introduzione la convergenza è stata pensata – sia in antropologia, sia in sociologia – come un principio esplicativo applicato al passato, per spiegare come e perché determinanti culturali mostrino forti somiglianze; qui propongo un impiego distinto, non verso il passato bensì orientato al futuro seguendo, in un certo senso, la stessa direzione del concetto da cui siamo partiti. Si tratta, ovviamente, di una proposta che è tutta da mettere a punto e testare, ma dopotutto è a questo che serve il confronto. Anziché mettere l’accento sul presente, valutando se e come una società sia più progredita rispetto ad un’altra, possiamo usare l’idea di convergenza per confrontare tra loro i modi attraverso cui società diverse muovono verso determinati futuri; chiedersi, in altre parole, come progrediscano i contesti culturali, verso quali futuri muove il progresso. Tra tutti quelli possibili, alcuni sono probabili, altri auspicabili, altri ancora da evitare, e qui entra in gioco una valutazione qualificante; ma possiamo anche valutare il modo in cui le diverse società progrediscono verso questi futuri, confrontandole nella misura in cui convergono verso – o divergano da – essi. Non conta solamente il fatto che una comunità viva nel benessere, si dimostri inclusiva verso le minoranze o abbia un ordinamento democratico: se una società democratica vira verso un irrigidimento dei diritti civili, mentre un’altra illiberale mostra un’apertura alla volontà popolare, potremo dire a questo punto che la seconda progredisce “meglio” della prima, nella misura in cui converge verso una forma futura più rispettosa delle libertà politiche.
Come nel concetto “classico” di convergenza culturale anche qui è possibile immaginare una “convergenza dipendente”, come la chiama Goldenweiser, in cui l’orientamento complessivo viene stabilito nel reciproco influenzarsi dei contesti culturali; è chiaro che non si potrà mai avere una traiettoria unica, nel senso di una completa sovrapposizione dei processi che in ogni società conducono a certi futuri, e neppure una linearità netta. Ma una direzione comune, non dettata da criteri universali stabiliti a priori bensì dall’emergere e dal confronto tra istanze culturali rassomiglianti, questo è qualcosa di plausibile.
Bisogna però tenere a mente che questo orientamento convergente non è, e non potrà mai essere, sganciato dal passato, dalle storie di ciascuna società, di modo che ogni scelta futura rimane fortemente path-dependent. Per questo motivo ogni tentativo di cambiamento, ogni proposta critica, ogni verifica dei valori ha senso e può avere efficacia solo se avviene all’interno – ma non, si badi, necessariamente dall’interno – e in relazione al contesto culturale di riferimento; e per lo stesso motivo istanze di stravolgimento radicale e la realizzazione di “mondi alternativi” non si danno storicamente se non come forme utopiche, limitate e temporanee, che nel momento stesso in cui si estraniano dal loro contesto d’origine rinunciano alla possibilità di generare cambiamenti sostanziali. «Non dovremmo dimenticare – scrive Dei – che gli ‘altri mondi possibili’ possono essere anche quelli del ritorno alla povertà generalizzata, all’oppressione politica, alla discriminazione di genere e così via» (Dei 2024); e, aggiungo, che la dimensione di benessere propria della nostra società, le “conquiste” in termini di reddito, diritti umani, ecc. – al netto della loro effettiva disparità – non sono acquisizioni definitive, né ineluttabili, ma frutto di un costante lavoro culturale che, in quanto tale, rischia sempre di “regredire”, o meglio, di divergere verso futuri più foschi.
Con questo non voglio dire che quei tentativi radicali siano inutili: non lo sono anzitutto per le persone e le comunità che credono in essi, e che dedicano la loro vita per realizzarli; e al di là della loro efficacia diretta nel produrre cambiamenti, questi tentativi ci ricordano che altri mondi sono sempre possibili, e che gli esseri umani dispongono sempre della capacità di immaginare altri futuri, di creare nuove vie, di trovare nuove convergenze.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Riferimenti bibliografici
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Dei, Fabio, 2024, “Antropologia e progresso”, Dialoghi Mediterranei 69, settembre 2024, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/antropologia-e-progresso/, [controllato 08/06/24].
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT). Ha pubblicato recentemente la monografia Traduzioni del potere, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 2, Cisu editore (2022).
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