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Stranieri al nostro tempo, promotori di nuove possibili terre

Da "La battaglia di Algeri" Di Gillo Pontecorvo

Da “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo

CIP

di Pietro Clemente 

Il dolore del mondo

Quello che non mi pareva nemmeno immaginabile sta accadendo sotto i nostri occhi. Il tentativo di costruire relazioni internazionali di pace, attivare regolamenti, stipulare impegni giurati, creare una legislazione universalistica viene sistematicamente disatteso ad opera delle principali potenze che a suo tempo si erano impegnate in questo senso e avevano sottoscritto accordi di pace. Parlo della Russia ex URSS per l’Ucraina e degli USA per Israele. Sono rimasto allibito quando ho sentito il Presidente degli Stati Uniti esprimere la sua soddisfazione in merito agli assassinii che Israele sta mettendo in atto per trucidare i capi dei gruppi ribelli. È un implicito elogio a chi uccide i leader e i capi di stato. Netanyahu (e Biden alle sue spalle) praticano un terrorismo militarizzato di guerra distruggendo palazzi, uccidendo senza alcuno scrupolo i civili. E non è la prima volta, mentre tutte le ipotesi universaliste si basano sulla intoccabilità dei civili.

Ogni giorno si registrano nuovi decessi tra la gente tanto che il numero dei morti ha oramai superato le vittime delle stragi naziste lungo il passaggio del fronte in Italia. Per scovare un possibile membro di Hamas, nascosto in un edificio, la casa  viene bombardata e i suoi abitanti uccisi, senza pietà. È il diritto a difendersi? È la giusta ritorsione contro un atto ‘barbarico’? Mi tornano alla mente i movimenti di liberazione del Vietnam e dell’Algeria, le due storie che ho seguito più da vicino. Franz Fanon, teorico della rivoluzione algerina e autore de I dannati delle terra si mette dalla parte della rivoluzione e parlando delle donne algerine che mettevano le bombe nei bar delle zone francesi come segno di ribellione contro l’oppressione coloniale, racconta il loro coraggio, la loro paura e il loro dolore ma non parla dei morti che ne derivano, l’oppressione coloniale in Algeria e quella neocoloniale del Vietnam erano per lui ‘aggressioni’ ai popoli locali, e dovevano essere combattute senza tregua anche se con armi inferiori e sacrifici umani maggiori.

71-diqgeoul-_ac_uf10001000_ql80_I movimenti di liberazione hanno formato la mia coscienza (e la mia tesi di laurea su Fanon). Ho cominciato a rileggere il mondo attraverso di essi, mi sentivo vicino alla generazione partigiana e postbellica in modo nuovo. Eravamo in scena, si facevano i sit-in, le assemblee per cambiare l’università e le coscienze. In seguito siamo stati in grado di criticare la sommarietà di quel tempo. Non amo le analisi generali di tipo deduttivo all’insegna della parola neocolonialismo, che non aiuta a capire casi come Israele. Ma come si può chiamare il rapporto di Israele con i palestinesi che vivono entro il suo territorio, perseguitati e segregati, con i campi profughi, i bombardamenti quotidiani e i morti di ogni giorno? Detesto le situazioni di analisi estrema: aborrisco quelle filo israeliane così come quelle filo palestinesi che hanno delle componenti di radicalismo opaco e di lungo periodo. Cerco posizioni intermedie nel fronte filo-palestinese e non sono assolutamente d’accordo con chi dice che Israele dovrebbe essere distrutta. Non accetto che Israele sia identificata con Netanyahu e attendo che risorga. Sono sempre stato ostile alla politica dello Stato di Israele. All’epoca della mia attività politica giovanile trovai violento il suo insediamento sul territorio palestinese. Nella guerra dei sei giorni, la cui cronaca sentivo alla radio dalla voce di Pietro Buttitta, tifavo per gli egiziani e rimasi molto deluso dai risultati. In seguito mi riavvicinai a Israele attraverso la letteratura e i racconti dai kibbutz e soprattutto attraverso i miei studenti dell’Università di Roma provenienti dalla comunità ebraica romana che decisero di trasferirsi definitivamente in Israele o di pendolare tra i due mondi. In questi giorni, penso spesso ai miei antichi allievi, ai loro figli che devono andare soldati, alla loro vita in un Paese assediato, all’annientamento interno di ogni movimento di protesta.

Quanto odio si è prodotto in questo conflitto! È sarà ad una Israele liberata da Netanyahu che toccherà  ricomporre il Medio Oriente, chiedere scusa, animare la pace. Se mai lo vorrà fare. L’Israele di quelli che protestano sotto casa del Presidente, scrivono sui giornali che i fondamentalisti ebrei non sono da meno di quelli che combattono, lascia aperta una speranza. Così come fanno i molti ebrei italiani che criticano fortemente Israele anche se non si appiattiscono sulla vulgata antiebraica.

i__id6712_mw600__1xSpesso penso a Gaza. Tante cose che ho studiato e vissuto, guerre e tragedie dai bombardamenti americani su Cagliari a Sarajevo, dalle stragi naziste sul fronte in Toscana nel 1944 quelle fatte dall’esercito italiano in Africa, tutto mi fa pensare a Gaza oggi, mi dà il senso della morte e del dolore che lì si vivono. Anche lo smottamento del paese di Cavallerizzo, descritto nel libro Il risveglio del drago di Vito Teti (Donzelli, Roma 2024) mi ricorda Gaza perché vi sono i racconti delle persone rimaste senza casa, del dolore che resta nella memoria. Israele non è solo la faccia orribile dell’Occidente, ma è anche una forma specifica di assolutismo militare e fondamentalista. Non voglio perdere il senso di speranza e umanità. Dolore, bisogno di silenzio, bisogno di immaginare che la storia possa avere un decorso diverso. Il fatto che Biden lasci in eredità alla Harris la guerra in Palestina è una sorta di palla al piede. Se Biden non garantisse più il rifornimento delle armi a Netanyahu, la guerra potrebbe fermarsi. Mi domando come mai si stanno usando le parole dei nazisti per definire il mondo semitico quasi come una razza, razza che non esiste e non è mai esistita se non nella immaginazione dei nazisti. Essere semiti significa fare parte di un ceppo linguistico che mette insieme sia israeliani che palestinesi. All’uscita delle leggi razziali in Italia, Emilio Lussu  per sottolineare l’opposizione al fascismo, rivendicò ai sardi una origine semita per la loro storia di scambi con i fenici e i cartaginesi. Giochi ironici con cose drammatiche. Questioni di parole, ma il cattivo uso delle parole porta alla confusione..

Vito Teti scrive nell’Introduzione al libro sopracitato (ivi: 9): «D’altra parte viviamo tutti nell’inquietudine, nell’insicurezza, nell’incertezza, anche se non vogliamo “guardare”, vedere, tutti affetti da “grande cecità”, quanto sta accadendo». Ed è proprio così. Penso che dovremmo tornare a fare politica come negli anni ’70 dove per avviare qualsiasi progetto si usava partire sempre dalla situazione internazionale. E così dovremmo fare noi che qui trattiamo di piccoli paesi e di zone interne.

Una pernacchia

È la politica nazionale ad avere le prime testate del telegiornale. La Meloni ha parlato all’80° del quotidiano Il Tempo, Salvini ha commentato l’uccisione di un immigrato da parte di un poliziotto. Salvini sta usando il processo in Sicilia per trovare nuovo spazio e consolidare intorno a sé la Lega che nel tempo  ha snaturato e spappolato. Nel palco dove tiene i suoi comizi vi è sempre un cartello che ricorda che lui ha difeso i confini della patria. È incredibile che Salvini racconti di avere difeso i confini dell’Italia contro il nemico invasore che sarebbe costituito da poveri migranti che hanno soltanto sperato di migliorare le loro condizioni di vita. È certo che stiamo vivendo tempi difficili se nessuno è riuscito a travolgere le bestialità di Salvini con una gigantesca e sonora pernacchia. Così quando Meloni afferma che sta lottando contro i trafficanti di uomini nel Mediterraneo racconta incredibili fandonie con una grande faccia tosta. Spero che dentro di noi tutti o quasi tutti sappiamo che si tratta di menzogne che cercano di coprire le difficoltà del mondo e la incredibile sofferenza delle popolazioni migranti. E un giorno non lontano, spero, ci dissoceremo in tanti da questi portatori di menzogne.

Nella recensione di Ottavia Aristone, presente in uno dei testi qui raccolti, compare la seguente citazione da Rossana Rossanda: «Abitare la Terra da esule (Rossana Rossanda, ormai anziana, rivendicava questa qualità dello stare al mondo)».

Mi ci sento tantissimo. Ma credo che in profondità  non si possa vivere da stranieri e da esiliati sulla terra Questo sentimento aiuta a capire la distanza che si crea tra desiderio e mondo: per poter sopravvivere nell’orrore bisogna trovarsi una nicchia di estraneità.

Festival di Anghiari

Festival di Anghiari

Festival

Questo numero 70 per varie ragioni – e un po’ per caso (il caso certe volte produce combinazioni meravigliose) – vede nel CIP una improvvisa e positiva irruzione di racconti che vertono su festival locali, legati a paesi di piccola dimensione che investono in cultura. Paesi non significa sempre amministrazioni comunali. In prevalenza si tratta di associazioni e soggetti della società civile. Per tanti anni abbiamo pensato ai comuni come sindaci e amministrazioni comunali. Ma per tante ragioni i Comuni sono sempre più spesso rappresentati da chi è operativo sul territorio, mentre, a volte, succede che i sindaci contrastino le iniziative e la crescita culturale del territorio per ragioni di incomprensione o di potere. L’esempio di Tricase, un comune salentino, che abbiamo più volte segnalato, è tipico. Il sindaco vuol togliere all’unica iniziativa presente nel paese nel campo della cultura popolare il comodato d’uso di un locale comunale in cui oggi è presente un museo, un archivio e un centro studi aperto a tantissime collaborazioni e a tutte le generazioni. L’associazione, che si chiama Liquilab ed opera a Tricase, resiste. Il sindaco toglie loro la luce, l’uso dei computer, e così facendo rende la sede inutilizzabile. Liquilab fa iniziative a porte aperte intorno alla sede usando lo spazio esterno in dialogo con quello interno.  Il sindaco – la cosa ha quasi dell’ incredibile – mette il lucchetto alla porta. Si avvia un contenzioso giuridico e nel primo livello il giudice dà ragione a Liquilab e impone di togliere il lucchetto e di ripristinare la luce. Ad oggi il contenzioso è ancora in corso.

Le attività locali di valorizzazione del patrimonio culturale dovrebbero essere tutelate e non contrastate e smantellare. A Tricase, come in altri luoghi, non si capisce perché una associazione attiva venga osteggiata anziché essere valorizzata e promossa. Credo non ci sia altra spiegazione se non quella di credere – da parte di alcuni protagonisti della vita amministrativa – che il ruolo del sindaco stia nell’esercitare il potere, come un monarca, rivendicando la potestà su tutti i beni. Potere di accreditare o screditare, di dare o di negare a seconda delle proprie ragioni elettorali. Un esercizio di potere personale.

Festival di Perdasdefogu

Festival di Perdasdefogu

Tra i cinque eventi qui raccontati, il resoconto denso e appassionato di Cabudanne de sos poetas di Seneghe, fa intuire, anche se ancora agli albori.  qualcosa di simile al caso di Tricase. Fortunatamente negli altri racconti non ci sono casi simili, anzi ci sono ampie collaborazioni tra associazioni e amministrazioni. I festival che sono presenti in queste pagine con il loro racconto in ‘soggettiva’ sono in grande sintonia con i temi de ‘Il centro in periferia’. Sono modi di connettere i paesi al mondo e il mondo ai paesi, di sottrarre alle città l’esclusiva della cultura e della festa. Questa idea viene ben rappresentata dal festival di Perdasdefogu. Arrivando al paese per strade impervie ma suggestive, si trovano piazze e strade che hanno i nomi del mondo della letteratura e si parla e si ragiona del mondo nel tempo e nello spazio del paese. Giacomo Mameli, promotore di questo festival, ci ha raccontato la storia della sua impresa di ritorno al paese e di attivatore di comunità in dialogo col mondo.

Museo del Diario di Pieve

Museo del Diario di Pieve Santo Stefano

Anche il Premio Saverio Tutino, legato all’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, è un festival con un suo modo specifico di porre il centro in periferia, anche perché il suo scopo è dare la voce agli individui travolti dai tempi delle ideologie e dare asilo e valorizzazione alle scritture delle persone che non hanno avuto altrimenti il modo di farsi ascoltare. Ce lo racconta Natalia Cangi  che da anni lo segue e lo dirige, che lo ha visto crescere insieme con il suo fondatore e ne ha raccolto l’eredità. Tutino, straordinario giornalista, che ha raccontato Cuba e l’America Latina, uomo della Resistenza e critico delle ideologie che schiacciano gli individui, aveva trovato ad Anghiari (in provincia di Arezzo, vicino a Pieve Santo Stefano) un rifugio e un presidio per una nuova vita, portando lì il suo personale centro del mondo che coincideva con la storia della sinistra italiana, latinoamericana e mondiale, in una nuova dimensione. Nel 1984 Tutino fonda a Pieve S. Stefano l’Archivio Diaristico Nazionale, nel 1999 ad Anghiari contribuisce a fondare con Duccio Demetrio la Libera Università dell’Autobiografia. Fu un incontro produttivo di grandi progetti, progetti che nascevano in periferia.

La scelta di fare a Pieve Santo Stefano, al confine tra Toscana e Romagna,  l’Archivio dei diari (autobiografie, epistolari, memoriali) rispondeva a un vuoto del paese, perché Pieve rinasceva dopo i bombardamenti dell’esercito tedesco che la avevano quasi totalmente distrutta. Un pieno di memorie collettive che si installava su un vuoto di storia abitativa. La fecondità di idee di Saverio Tutino, ritiratosi in periferia, ha portato in quei piccoli paesi nuovi centri del mondo: Saverio ha collaborato con sindaci attenti all’importanza e all’utilità delle iniziative culturali nei loro paesi, ha favorito il progetto di Duccio Demetrio che ha reso Università e luogo di trasmissione e di produzione di storia questo paese confinante con Pieve Santo Stefano. Un duetto di luoghi della memoria e della valorizzazione della storia presente e futura. Il festival di Anghiari, nato nel 2011, è raccontato in queste pagine da Roberto Scanarotti.

cabudanne-2024-post-ig-no-logoIl festival Cabudanne de sos Poetas (capodanno dei poeti) che si svolge a settembre – mese del capodanno agrario – viene qui raccontato da due generazioni protagoniste. La prima è rappresentata da Mario Cubeddu che racconta la radici del Cabudanne e la volontà di portare la poesia nel paese come occasione di cultura e di crescita di una generazione negli anni del movimento studentesco e delle lotte sociali e culturali e per i diritti. La seconda viene raccontata attraverso le parole di Luca Manunza che ne è l’attuale presidente. Nel finale del suo testo egli scrive:

«attorno al festival è nata una comunità resistente di giovani capaci di rivalutare il proprio qui e ora, dentro le maglie del festival è nata due anni fa una cooperativa agricola di comunità che si occupa di recupero delle aree rurali abbandonate, viticultura (detta alla francese) ed enologia. Quest’ultima esperienza economica e cooperativistica di pregio unica nella nostra regione. Il festival forse è questo, con tutto il rispetto dei versi e delle note che animano le settimane del Cabudanne».

Questo racconto a due voci entrambe critiche e militanti mi ha molto colpito e sono contento di poterlo inserire nelle pagine  del centro in periferia. Luca Manunza termina il suo scritto (con un riferimento al grande sociologo francese Pierre Bourdieu), dicendo Il Cabudanne è mai come oggi “uno sport da combattimento”. Credo che la consapevolezza, presente in tutti i protagonisti dei festival che qui si sono raccontati, sta nel fatto che il loro lavoro è un atto di resistenza nel nostro tempo.

Il testo di Veronica Medda presenta uno sguardo analitico sul festival di Serramanna, un festival sardo sull’autobiografia che dialoga con quello di Anghiari. Il titolo è ‘Strangius’ (stranieri, i ‘continentali’ come si usa dire nell’isola dei sardi) e mostra la tendenza dei festival locali a farsi

«strumento creativo di tutela territoriale, ossia …eventi che creano relazioni d’interdipendenza tra la manifestazione e la location in cui si svolgono. ..La rinascita dei paesi deve necessariamente passare attraverso la cultura, una cultura vicina ai territori e alle persone, creativa e impegnata, partecipata e accessibile a un pubblico ampio e concreto».
Le Bocche di Bonifacio, la  Sardegna vista dalla Corsica

Le Bocche di Bonifacio, la Sardegna vista dalla Corsica

CIP 70

Il cuore del nostro Centro in periferia è poi rappresentato dai testi più legati a resoconti, esperienze, recensioni relative alle zone interne e alla coscienza di luogo. Si inizia con la riflessione a tutto campo di Giampiero Lupatelli. Nel suo testo Apologia delle aree interne presenta, a partire dalla nascita della SNAI fino ad oggi, un bilancio che tratta i problemi, le discontinuità ma anche le sottili continuità indotte dalla SNAI medesima. Nel suo lavoro Lupatelli assume spesso a riferimento e come pietra miliare l’esperienza relativa alla Montagna di Latte dell’Appennino emiliano. Lupatelli continuerà la sua analisi di bilancio, con altri due scritti nei prossimi CIP, testi che andranno letti come puntate di un’unica riflessione. Così le narrazioni di Corradino Seddaiu, sulla Corsica di oggi, ci offrono costantemente idee e suggerimenti di esperienza, suggerimenti che Seddaiu ci fornisce da tempo, a partire dalla sua attività gallurese in continuo dialogo con diversi centri corsi.

Mario Spiganti racconta una pagina quasi favolosa del passato della piccola frazione di Carda (ora 109 abitanti altitudine tra i 600 e 900 metri) situata nel Pratomagno aretino. Narra della partecipazione a Lascia o raddoppia, un programma di Mike Bongiorno di molti anni fa, di un boscaiolo di Carda che si presentava per rispondere alle domande sull’Orlando furioso di Ariosto. Il boscaiolo rispose bene alle prime domande ma purtroppo a un certo punto cadde. È comunque stato significativo aver partecipato e il successo mediatico ha consentito al piccolo paese di Carda di essere posto all’attenzione del mondo televisivo. Fu un momento memorabile dove la periferia si pose al centro e mostrò la sua alterità. Un boscaiolo che si presenta su Orlando furioso è come un docente universitario di letteratura che si presenti sul taglio del bosco. Per Carda fu un evento da ricordare nella sua storia e al tempo stesso la dimostrazione che la cultura popolare toscana si nutre dei classici dell’epica da Dante a Tasso ad Ariosto. Ricordo l’emozione che provai una sera a Buti (provincia di Pisa) quando – durante una cena – uno dei protagonisti del Maggio (spettacolo popolare locale) si alzò in piedi e cominciò a cantare a memoria la Gerusalemme liberata. Grandezza di mondi locali e di straordinarie e originali culture di scambio.

molise-2Patrimonio musei e dintorni

I testi di Michela Buonvino- Daria De Grazia- Elisa Rondini, quello di Mara Bernardini – Erika Grancagnolo, e poi quelli di Emanuela di Paolo, di Filippo Broll e di Ottavia Aristone si muovono soprattutto nell’ambito dei temi antropologici della patrimonializzazione e del suo rapporto con musei, eventi e feste nel contesto dello sviluppo locale. Sono tutti giovani studiosi, che accolgo con gioia e speranza nelle pagine del CIP .

In questi ultimi anni, salvo alcune eccezioni, la problematica dello sviluppo locale è stata traversata solo marginalmente dalla antropologia di ricerca sul campo, ma qui siamo in presenza di una nuova generazione di studiosi che si sta impegnando in questo ambito. Temi classici come il carnevale e il suo rapporto con la comunità vengono studiati ora nella prospettiva dei cambiamenti culturali e delle pratiche della ‘patrimonializzazione’, tema relativamente nuovo, con un nuovo lessico, che gli studi delle tradizioni popolari negli anni 70 e 80 vedevano soprattutto come parte della riflessione sulle culture popolari. Il caso di Fiastra è particolarmente significativo per la costruzione, dopo il terremoto, di contesti di rinascita culturale, così come l’approccio allo studio dei musei locali e spontanei intesi come performance, definisce un quadro di studi nuovo, che potenzia l’attenzione antropologica verso le comunità e i processi di valorizzazione, anche nell’ambito del patrimonio culturale immateriale. La recensione al libro sul Molise, Essere giovani in un’area interna del Molise, con la prefazione di Rossano Pazzagli (Pacini editore, 2024) è, seppur in altro ambito, un bilancio degli studi.

Mi piace ora estrarre da questi scritti alcune citazioni e proporvele senza rivelare chi è l’autore. Una sorta di presentazione di un lessico, di uno stile analitico, e un modo scherzoso per spingere a cercare la fonte, come se si trattasse di un quiz .Eccole nel paragrafo ‘Tracce’

Tracce

«Non ci sono individui classificabili univocamente come partiti, restanti o tornanti secondo il lessico ormai consolidato per le aree marginali, in quanto “senso e significato del luogo mutano al variare dello stato emozionale, della soddisfazione e dell’intensità dei legami (persone o beni materiali) del momento .Sono abitanti multilocali che vivono in diversi territori, città e paesi, come variabili sono nel tempo e nello spazio gli impegni lavorativi e forse le relazioni affettive».

«Una “occasione patrimoniale” che ha favorito, da una parte, rapporti di scambio tra amministratori locali e cittadinanza detentrice del sapere intorno al bene culturale e, dall’altra uno sguardo critico, dal basso, alle trasformazioni che la patrimonializzazione ha comportato».

«Si può iniziare a considerare il museo spontaneo etnografico come l’ultima forma di narrazione nata dalla civiltà contadina e dai suoi figli, solo in parte legittimi. Narrazione popolare che ancora oggi può essere studiata; in alcuni casi ideale o mitica, alle volte orgogliosa e minuziosa, in ogni caso inconsapevolmente consapevole del suo ruolo». 

«È con l’intento e la speranza di contribuire a ricostruire il tessuto sociale di Fiastra lacerato dal terremoto del 30 ottobre 2016 che nasce l’Associazione RicostruiAMO Fiastra 6, che sostiene e promuove iniziative a carattere sociale, solidale, culturale e turistico nel territorio della Vallata del Fiastrone, rivolgendo una attenzione particolare alla comunità locale e cercando il coinvolgimento soprattutto dei più giovani nell’organizzazione di eventi e iniziative per il territorio». 

«Processi di empowerment delle comunità e degli attori locali e, più in generale, a ragionare criticamente sulle forme di inclusione, esplorazione critica dei quadri di governance e delle politiche culturali, interrogandosi, in altre parole, sulle interazioni tra comunità locali, regimi patrimoniali e processi partecipativi».

«Forme di resistenza . ..la storia di un artigiano attivo nel territorio del Trasimeno; che lavora da tutta la vita la “cannina” palustre, assai diffusa sulle sponde del Lago sin dai tempi antichi. La storia di Orlando è una delle tante nascoste tra la rete a maglie fitte che configura il quotidiano di chi abita luoghi marginali. Attraversare, etnograficamente, questi margini consente di osservare pratiche minute di vita sociale ed espressioni culturali creative, esito di relazioni di consuetudine con l’ambiente e di processi di “presa in cura” territoriale di lungo corso».

Le nuove attenzioni di ricerca ai vari aspetti del territorio, la riscoperta della sua ricchezza e molteplicità, di nuove e antiche località capaci di dire e di insegnare anche nel futuro fanno pensare che mentre il tempo che viviamo ci fa sentire stranieri, quello che più dappresso studiamo e sentiamo prossimo, quello delle periferie che si fanno centro, è anche un insieme complesso, discutibile, stravagante, diversificato, di possibili patrie culturali. Zone di resistenza, nicchie di risposta alla guerra dilagante, forse rifugi futuri dove valga la pena di resistere e anche di mettere al mondo dei figli.

image-2Le pale e il paesaggio

Desiderio segnalare l’importanza del dialogo-dibattito-movimento in atto nella vertenza collettiva aperta in Sardegna sulle pale eoliche. Nel Cip 69 abbiamo visto alcuni casi di protesta in Molise, la stampa ce ne ha dato conto per Orvieto, mentre in Sardegna tutto l’anno è stato caratterizzato da una crescente e diffusa protesta. Nelle pagine del CIP avevamo dato già una prima traccia con un bell’articolo di Antonio Muscas Le contraddizioni della transizione ecologica e il caso Sardegna (“Dialoghi Mediterranei”, n.51, settembre 2021). Nel testo veniva posto il problema dell’uso delle nuove energie per le comunità energetiche finalizzate allo sviluppo locale, un tema che resta a mio avviso centrale. Il dibattito sardo è diventato molto complicato da padroneggiare. Leggendo le pagine della Sezione Sardegna in questo numero se ne avrà un quadro piuttosto rappresentativo. Personalmente sono rimasto colpito da due cose.

Da un lato la presenza di un nuovo movimento significativo in un ciclo storico povero di tali eventi, richiama alla memoria gli anni ’70 in Sardegna dove il tema centrale riguardava i paesi dell’interno e dove venivano nascendo circoli in città e campagna, iniziative culturali, con riviste, dibattiti e progetti. Una dimensione politica radicata che fu anche una nuova fase di ritorno almeno simbolico ai paesi. Il movimento attuale non somiglia affatto alla mobilitazione del 1969 di Pratobello, quando la comunità orgolese, occupando lo spazio previsto per le esercitazioni militari, si oppose a un progetto di militarizzazione del proprio territorio: quella fu una vera protesta di popolo. Il movimento attuale nasce invece dalla presenza di comitati attivi sul territorio per lo più legati a rivendicazioni ecologiste e confluiti infine in una lotta che paradossalmente sembra essere contro la transizione verde.

La posizione dei comitati è chiara: vi è l’intenzione di gestire l’eolico in modo tale che rispetti e sia almeno in parte finalizzato allo sviluppo locale e non distrugga le zone interne e il paesaggio sardo. Su questo secondo aspetto c’è una forte componente a difesa delle prospettive turistiche dell’isola che fanno pensare anche agli interessi dei potentati del settore. Quando si dice che l’eolico vuole distruggere il ‘paradiso’ sardo, si fa della retorica scadente. Chi ha la mia età, sa che anche il paradiso vive nella storia e che la Sardegna si è in buona parte già autodistrutta sia nelle località interne che nelle zone costiere. A questo proposito voglio ricordare il grande scalpore che suscitò la proposta di vietare di costruire a 200 metri dal mare. Raccontare com’era la Sardegna negli anni 50 e 60 quando si costruiva quasi nel mare per assecondare la richiesta turistica smitizzerebbe questa recente e benvenuta, anche se tardiva, idea di difesa del paesaggio. È giusto difendere un turismo che rispetti la storia della Sardegna e non la riduca a mare e archeologia, se è vero che il futuro dell’isola risiede in una nuova vitalità dell’agricoltura e dell’allevamento.

453071995_887250996770516_2051475160856180870_nNella polemica contro l’eolico ho letto articoli di giornalisti che pensano ingenuamente di poter combattere il riscaldamento globale senza l’uso di tecnologie. Di altri che vorrebbero la Sardegna come una Pompei diffusa fatta di scavi archeologici e di turisti più che di abitanti. Ma ci sono anche commoventi impegni di resistenza e di solidarietà. Ma la più grande sorpresa è stata per me lo scoprire che l’Unione Sarda, il giornale locale moderato e tendenzialmente di destra, fosse in prima fila con articoli dai toni enfatici in una battaglia contro l’eolico. Quest’estate ero al mare nella mia casa di famiglia e di memoria nella costa di Quartu S. Elena e ho raccolto l’Unione Sarda dal 21 giugno al 14 luglio. Compro sempre questo quotidiano anche se è un giornale che non ho mai amato e che anzi nel ‘68 e ‘69 contestavo (ricordo che gridavamo  “Unione stampa del padrone”), ma che ora considero parte della mia quotidianità quando sono in Sardegna. Ho avuto ed ho tanti amici che lavoravano e lavorano in quel giornale ma questo non toglie che fosse e sia rimasto ‘stampa del padrone’. Ho tenuto le copie del giornale per rifletterci su e qualche giorno fa ho ritagliato gli articoli sull’eolico che mi interessavano. La prima copia del quotidiano comprato il 21 giugno ha questo titolo No alle megapale, ecologisti e comuni all’attacco. Sono stato colpito dal lessico usato e mi sono chiesto cosa fosse successo. Ho trovato parole come Assalto, blitz, speculazione, ma anche montaggi fotografici con una pala eolica piantata sul nuraghe di Barumini. E poi una esaltazione delle lotte di tutto il popolo con frasi tipo l’urlo del popolo sardo , un lessico davvero sorprendente per un giornale di destra.

Generalmente non vedo Videolina, la più longeva Tv privata sarda, ma questa volta per curiosità la ho seguita. Videolina ha la stessa gestione ‘padronale’ dell’Unione sarda. Qui sono stato davvero scioccato: vi comparivano slogan rivoluzionari antieolici, quasi come spot pubblicitari. Non credevo ai miei occhi anche se il linguaggio rivoluzionario e movimentista usato dai conservatori risulta spesso comico. L’Unione dava tutti i giorni conto della attività dei Comitati che si erano mossi in autonomia (forse investendo troppo sull’Unione sarda come loro portavoce). Ho constatato che gli articoli più barricaderi erano firmati da tal Mauro Pili che poi ho riconosciuto per essere stato il primo leader berlusconiano in Sardegna e Presidente della Regione per ben due volte. Incredibile. Anche in altri articoli ho notato delle stranezze, come l’idea che la lotta contro il cambiamento climatico potesse essere risolta tornando al vecchio modo di vivere. Come a dire che basta fare una vita salubre all’antica per fermare la crisi del pianeta. Qualcun altro ancora sosteneva che la Sardegna è strapiena di reperti archeologici spesso non ancora scavati e che l’eolico potrebbe sciupare la possibilità che milioni di turisti vogliano visitare questo gigantesco patrimonio. L’idea di una Sardegna come Pompei. Si dice che l’interesse della proprietà dell’Unione Sarda sia legato a una ipotesi di metanizzazione della Sardegna, alternativa alle energie rinnovabili. E forse questo spiegherebbe l’accanimento contro l’eolico. Non so se sia vero, ma quando i conservatori usano un lessico movimentista c’è sempre sotto qualche cosa.

Resta comunque il movimento dei comitati che fa una battaglia perché l’eolico sia governato e perché l’energia prodotta in Sardegna sia finalizzata allo sviluppo locale e alle comunità energetiche. Penso che l’energia eolica e quella solare siano delle grandi risorse e non siano da considerarsi più spiacevoli dal punto di vista estetico dei condomini di Villaputzu e di San Vito (per dire di piccoli e dignitosi paesi che ho visto trasformarsi in colate di cemento), dei comignoli della Saras o delle ciminiere di Ottana, o anche delle grandi installazioni elettriche, dei ripetitori e delle gigantesche antenne. In molte zone d’Italia il solare è usato da singoli abitanti per dotarsi di energia gratuita e venderla all’Enel, l’eolico non è antiestetico per principio, anzi visto da lontano su aree elevate e non eccessivamente dense è entrato a far parte del paesaggio della modernità in modalità spesso suggestive. In passato si era anche ragionato sulla possibilità di farle dipingere e interpretare da artisti. In una intervista televisiva a persone sarde dei luoghi interessati all’eolico una signora ha detto che vanno bene le pale eoliche, purché non siano più numerose degli alberi. Mi è parsa una riflessione di buon senso e dotata di una certa ironia. Non so dire di più perché non ho seguito abbastanza in profondità questi complessi problemi e non ne ho la competenza. Ma mi riprometto prima o poi di dedicarmi all’analisi del linguaggio rivoluzionario e al suo impiego di camuffamento usato dai conservatori. 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.

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