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Dilemma in lemma

copertina-lemmi-e-dilemmidi Antonio Pane 

Se il Dizionario dice che il pettegolezzo è un «peto fatto con la gola», si può dubitarne? Di consimili perplessità golosamente fa incetta il sillabario di Raffaele Giannetti, Lemmi e dilemmi dall’Armadio allo Zufolo (Editrice Maremma, 2023): regesto che muove da laboriose auscultazioni di etimologie discutibili per produrre diagnosi non meno aleatorie, fatte, come accusa la sua autoriale e autorevole Introduzione, di «confessioni paretimologiche», di «fantasie linguistiche dalla fibra grossolana», di «concessioni al divertissement», di «immaginazioni che stentano a venire in luce e a prendere forma», di superfetazioni addebitate al «dilettante inesperto» di Primo Levi.

Premesse a un volume che viceversa presenta la veste della compilazione erudita – forte di un massiccio corpo centrale (i 34 ‘capitolemmi’, in ordine rigorosamente alfabetico, dell’Abbecedario paretimologico), di ben ottanta pagine di Note e Riferimenti bibliografici, di un prezioso apparato iconografico e del dizionarietto Le parole del «Lessico» che ne correda l’«appendice narrativa» (intitolata appunto Il Lessico) –, queste professioni di modestia ripetono l’understatement riservato alle notizie sull’artefice: ragguagli che, invece di aggrupparsi in uno spazio deputato, si trovano dispersi, come sassetti di Pollicino, fra il vago accenno del secondo risvolto di copertina (che lo vuole «legato per molti anni alle seriose lettere degli antichi» e oggi «canuto») e i lavori ‘confessati’ nei Ringraziamenti [1] e nei Riferimenti bibliografici [2], spingendo il pio lettore a integrare i rari indizi con opportuni sondaggi nella sempre soccorrevole rete.

Dentro un avviso della presentazione del libro presso l’Accademia degli Intronati di Siena (6 giugno 2024, ore 17,30), il sito Siena free (4 giugno 2024) rivela che il Nostro, «nato e residente a Torrenieri, ha compiuto gli studi classici a Siena con la maturità al Liceo Piccolomini e poi all’Università con la laurea in Lettere Antiche con una tesi in Numismatica antica “sulle origini della moneta”», che è «Accademico dei Fisiocritici di Siena», che è stato «professore di lettere italiane e latine al liceo “Poliziano” di Montepulciano», che «fa parte del CTS della Fondazione Tagliolini – Centro per lo studio del paesaggio e del giardino di San Quirico d’Orcia», e che i «suoi interessi si situano all’incrocio fra la botanica e la letteratura, e fra quest’ultima e la musica». Altre pagine internet ne registrano l’anno di nascita (1954), la fondazione (nel 1993, con l’ausilio di Cesare Guasconi e Michela Scarpini) di un complesso votato alla musica antica (il trio «Pavane», dalla fine del 1997 «InChanto», di cui il promotore presidiò per qualche tempo i flauti, fornendo altresì buona parte dei testi, alcuni dei quali in latino), i contributi al Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano (nel 2002 con Frottole & altre storie e nel 2010 con l’«operina tascabile» In ascolto di un Re)[3] e un tesoretto di titoli che annovera le edizioni di un «poemetto inedito del XVII secolo» [4] e di una guida di Montalcino [5], il resoconto di una celebrazione francescana [6], l’introduzione a uno studio di Fabio Pellegrini [7], un esperimento narrativo sotto eteronimo [8], una fiaba illustrata [9], un breve saggio dantesco [10], le spigolature commesse ai blog e-Mercurius ~ blog alato di Raffaele e Riccardo Giannetti [11] e Raffaele Giannetti. Raccolta di scritti vari [12] e il «libretto in pochissime copie artigianali, contenente alcune prove di questo mio abbecedario etimologico», citato nei Ringraziamenti [13].

3Queste ulteriori informazioni parlano di una personalità poliedrica ma saldamente ancorata ai luoghi della sua origine e della sua ordinaria esistenza (il milieu sparsamente testimoniato dai paesi di Torrenieri, Montalcino, San Quirico d’Orcia, Pienza, Castelnuovo dell’Abate, dal «bivio segnato dalla Madonna del Rosario, una cappella edificata o riedificata nella seconda metà del XVI secolo dopo la battaglia di Lepanto», dal ponte «sul torrente Asso», dal Galluzzino, dal Poggio della Civitella, dal Passo del Lume spento, dal fiume Orcia, dai «misticci di Natagio di ser Guido, poeta montalcinese del Trecento»), di una ‘professura’ incline a diramarsi in passioni che ne compensino il tasso di inevitabile tedio (o di una ‘prosecuzione dell’insegnamento con altri mezzi’, una sorta di supplenza che vi integra quanto ne rimane giocoforza escluso, divisa fra caparbie ricerche, filologiche acribie, perturbanti attrazioni), e soprattutto del percorso di un libro che i Ringraziamenti risolvono in «lungo e tortuoso viaggio fra le parole della mia vita» (le «larvate sembianze di nomi uscite dall’oscurità e nottetempo venute a farmi visita», la «trama che l’effimera rugiada antelucana rende visibile soltanto a me», evocate nell’Introduzione) [14].

Un itinerario che fa pensare ai volubili diagrammi delle ‘passeggiate’ di Robert Walser e che si conclude là dove era iniziato, ossia alla sorgiva del Lessico, stillante commemorazione dei primordiali stupori che non cessano di interpellarci, chiave di ogni dilemma annidato nel lemma, abacadabra che, sotto l’incanto degli orìci, dei cugni e dei punti molli della mamma sarta, schiude il pacifico armario di nonno Emilio e il bàule che deve abbaiare, i forzieri delle parole più segrete:

«Le mattine erano fatte di letti scompannati, di carbolina insopportabilmente acre, di corteccioli rinseccoliti; di tempo passato nell’orto, vicino al fontino, chiotti, senza compicciare nulla; tempo fatto di frignastei, di denti dringolanti, di febbre panaia; tempo imprevidente, passato a nazzicare senza scopo o a pittolare, nefoso e infingardo come i citti dai ginocchi gnudi, sempre dietro alle racanelle sul muro estivo; tempo fatto di pullére nelle mani e di ranzagnoli domenicali, di quelli per tirare la pasta» [15].

Per quanto esposti ad impulsi centrifughi denunziati dallo stesso autore («forse sono le digressioni a costituire lo strano centro di questi ragionamenti»), i passi di questa ‘etimobiografia’ sembrano ricondursi ai domini rispettivamente ritagliati da quelli che restano più o meno stretti al terreno dell’accertamento (e della fantasia) lessicale e dagli altri che si avventurano nei campi della critica letteraria o del saggio storico-antropologico. Nel primo versante si segnalano i tratti che, restando nel gioco delle capziose domande e delle ibridazioni semantiche, colpiscono punti vitali, attingono cifre di verosimiglianza, se non di verità. Ne fanno parte il menzionato armadio/armario (con le sue armi «che un tempo furono le insegne di un cavaliere»), i ‘diversamente rigidi’ baccalà/baccalare («non è detto che il pesce salato ed essiccato non possa trovar posto vicino al dottore»), la malva associata alla malvagità (perché «nascendo nelle paludi, era prossima al pericoloso mondo degli intrichi selvaggi»), la pettegola scoperta «poeticula, in qualche modo ‘poetessa’» (per i suoi trascorsi di «musa, sirena, sibilla o strega, regina indiscutibile del verso e della profezia»), le parentele che uniscono razza/raggio e radice («le radici hanno forme decisamente radianti»): micidiali affondi sorretti da una scrittura godibile, sagace e battutiera, pronta a giocare al rialzo con gli onnipresenti «trabocchetti della paretimologia» esorcizzati in Lancia, bilancia e sbilenco, quasi sghembo. In Bau, bo, sbaglio, l’abbinamento fra i vuoti connessi con l’abbaio, lo sbadiglio, la sua contrazione in sbaglio, e con lo stesso primordiale cháos vigilato dal mastino Cerbero, dà corda al semiserio allarme sul vacuo della noia meridiana, rappresentato dal «pericoloso e palindromo noon in cui si rischia di smarrire il senso del nostro cammino, ormai privo, in assenza d’ombra, di qualsiasi segnaletica».

copertina-in-ascolto-di-un-reLe somiglianze rilevate (nel segno di una ‘cavità’ che coinvolge il britannico box) da Bosco, bosso, cavolo e colosso, si estendono al «nostro botanico caule, imparentato strettamente con un cavolo senz’altro cavo», suscitando l’ineccepibile quesito: «come potrebbero, altrimenti, uscirne i bambini?». In Galli e galline stradali, l’asserzione che il toponimo Orsi è lungi da assumere la rude riservatezza delle popolazioni abitanti in prossimità del fiume Orcia è così commentata: «Che un luogo romito possa favorire una certa ritrosia nelle relazioni sociali vale per troppi altri insediamenti di questa parte del Senese». L’idea che l’ingegnoso nottolino da infissi prenda nome dal «movimento circolare e continuo del collo e, naturalmente, del becco» della nottola arriva a smascherare «l’atteggiamento civettuolo di una signorina d’altri tempi e l’ornitomorfa essenza di una “civetta” di giornale». Scrivo scrivo: storia di un aggettivo démodé non sa risparmiarsi la citazione di un detto depositato nel vocabolario Fanfani: «È merda scriva scriva». La voce Utero suggerisce l’insidioso epigramma «Uter? Quale dei due? Uter ‘otre’ o uter ‘quale dei due?’».

Inaugurate, in sede di Introduzione, da assaggi sulle ardite sinestesie (l’«odore largo del vento» e il silenzio «chiaro») attive in Sera di Versilia di Alfonso Gatto e sulle «gerarchie sociali» sorprendentemente riflesse nel rabido S’i’ fosse foco del maudit senese, le interrogazioni di testi poetici raggiungono, all’altezza di Hi-a!: Hiatus, il territorio del melodramma, misurando (nella diade formata da Il lamento di Arianna di Rinuccini-Monteverdi e Il lamento di Orfeo di Calzabigi-Gluck) la «sottile e astratta rete di sensi creata dal verbo lasciare», ossia le ambasce dell’eroina «che non vuole e, insieme, vuole, essere lasciata» (quasi in balìa dello iato sulla i che affligge il suo nome) e «l’estraneità del cantore tracio alla razionale civiltà della polis», filigranata negli endecasillabi di Orfeo (che «fluiscono liberamente, scivolando via, inafferrabili e, per questo, invincibili»). Ma il più di queste trasferte si addensa nelle ventiquattro pagine curiosamente assegnate a un lapidario I!: ampio serbatoio che raccoglie accorte distillazioni intorno all’ungarettiana Veglia e a tre liriche di Montale. L’esame dei versicoli datati «Cima Quattro il 23 dicembre 1915» si muove fra analisi grammaticale e intertestualità, considerando da un lato il peso degli aggettivi «digrignata» e «penetrata» e dall’altro la vicinanza fra l’explicit «attaccato alla vita» e il conclusivo «non ho mai amato tanto la vita» della Tosca.

Due dei commenti montaliani chiamano invece in causa conoscenze musicali non proprio comuni che autorizzano chiose di corrispondente valore, vere gemme esegetiche. In Corno inglese le due proposizioni incidentali inserite fra il soggetto («Il vento») e il suo remoto predicato verbale («lancia») disegneranno «la doppia ancia dello strumento» (le sue «lame»), le «Nuvole in viaggio» il «fiato stesso del musicista che nasce e muore, seguendo l’arco melodico, fra le schiume intorte della sua saliva», e gli «alti Eldoradi» le «note superacute». La lettura di Minstrels (ispirato al famoso preludio di Debussy da cui trae il titolo) contemplerà «l’inattesa epifania di uno spartito», per saggiarne quindi la consistenza con una serie di riferimenti alla musica che il poeta «sta leggendo» (e che «s’innalza a stento e ricade perché raramente si spinge sopra il rigo»): il «groppo di note soffocate» che, rimandando ai «trini “gruppetti” sopra il rigo», «si fa paronomasia della scrittura musicale e riproduzione del suo linguaggio»; i due versi iniziali («Ritornello, rimbalzi | tra le vetrate d’afa dell’estate») che arieggiano le «insistite cellule tematiche della musica», replicandone con forti allitterazioni il suono dei “gruppetti” e con la sequenza vocalica e-a-e-a-a-e-a-e del secondo verso («di cui l’afa è chiave di volta») persino la «struttura retrograda»; le «ore vuote» allineate (sulla scorta di un «trapunge» chiaramente allusivo al contrappunto) alle «misure del pentagramma, misure del tempo»; il «riso che non esplode» accostato all’agogica del «Modéré (Nerveux et avec humour)»; le «forcelle dei crescendo e dei diminuendo» intraviste negli «strani imbuti | che si gonfiano a volte e poi s’afflosciano».

copertina-lombra-di-piccardaLa terza tipologia di offerte sembra a sua volta risalire ai saperi versati nella tesi di laurea. Vi si possono affiliare, insieme all’ampio studio Quintile e gli altri: mesi, monete e numeri, le brevi divagazioni di Fare il ponte e Sale, salario, soldi. Sulla spinta della domanda d’esordio («Perché il numero che dà origine al nome dei mesi non corrisponde al posto che ciascuno di essi occupa nella serie?»), il primo convoca l’«immaginazione di un anno formato da dieci mesi, il cosiddetto “anno di Romolo”» e il suggestivo parere di Dario Sabbatucci («che vede in marzo non il primo mese dell’anno in assoluto, ma il primo che può essere contabilizzato e ‘arruolato’ […] non appena si sia superata una iniziale, infantile inettitudine»), per portarsi quindi sui «complessi sistemi mensurali degli antichi, basati sulla «commistione del sistema decimale e di quello duodecimale» («i Romani misuravano il tempo e la moneta con un sistema duodecimale, ben sapendo che il loro sistema di conto era decimale») e sul «calendario lunisolare», che rafforza l’idea di un anno-gestazione in cui «Ianuarius e Februarius sono mesi propedeutici, di preparazione ed espiazione derivate dal rinnovato connubio fra sole e luna».

Le problematiche sollevate in questa cornice sono distribuite in una serie di capitoletti partitamente riservati ai «legami che uniscono tempo e denaro» («la Lyra è una costellazione che prende il nome dalla libra, cioè dall’originario valore dell’asse romano, mentre la trasformazione celeste della chélys (lyra, strumento musicale) finisce per esprimere anche il concetto di valore, la sua inalterabilità e la sua indiscutibile natura divina»; «La luna, misura del tempo, serve a contare»), alla ‘stranezza’ del calendario numano («per far sì che le idi coincidessero con un plenilunio, si faceva seguire, attraverso un’“intercalazione”, un anno di tredici mesi a uno di dodici»), al tempo «qualitativo» degli antichi (paragonato a «un mare di nebbia da cui emergono le isole dei giorni festivi, prima sotto forma di dèi, poi di santi»), alla figura di Carmenta («rappresentazione incielata e lunare dei numeri romani» e «analogo femminile di Giano») che ha il suo rovescio in quelle di Caco e dei Fabi, entrambe tirate «per i piedi» (come «esorcismo del retrogrado e del capovolto»), alle inversioni sintattiche che specchiano il reale percorso della percezione, alle peripezie etimologiche di un Carnevale diviso fra il cristiano carnem levare e le «antiche cerimonie romane degli ambarvalia». Fare il ponte ci porta a riconoscere nel corrivo adagio la ricorrenza solstiziale di Fors Fortuna (onorata attraversando il Tevere), a ritrovarne tracce figurative (nel San Giovanni Battista di Annibale Carracci, in una incisione del Settecento e nel «quattrocentesco Mercurius del De Sphaera»), e a collegarlo con la funzione del pontefice («‘colui che fa, che costruisce il ponte’; ovvero colui che sa sconfiggere l’instabilità della sorte permettendoci, nel passaggio cruciale dell’anno, di raggiungere salvi la riva opposta, quella del domani e della salvezza»), con le orme calendariali ravvisabili nella «prima delle favole di Fedro, Il lupo e l’agnello», e con i familiari sentieri del viandante che «sempre incontrerà il Battista se da Bagno Vignoni, di cui il santo è patrono, vorrà salire, attraversando l’Orcia, fino alla rocca di Tentennano (dove si trova un antico oratorio del santo) o varcare l’Ombrone e raggiungere Compagnatico presso la chiesa al Medesimo dedicata». «Onirica fascinazione e niente più», Sale, salario, soldi, si diverte a rincorrere le meno fondate affinità fra sale/soldo e sale/sold, immaginando poi (con lo sguardo a un’Ultima cena attribuita a Giampietrino) un Giuda che «dichiara il suo venale tradimento rovesciando la saliera sulla tavola. Tanti grani di sale, tanti soldi: trenta denari?».

Raffaele Giannetti

Raffaele Giannetti

Al termine di questa pur selettiva rassegna si lasciano scorgere le procedure che promuovono l’originalità dell’opera (l’impresa «del tutto personale» ricordata nel primo risvolto di copertina): l’attitudine ‘amatoriale’ la preserva da ogni pretesa di completezza specialistica; la lente ‘diabolica’ portata sui dettagli ne riscatta il regime frammentario; il vigile raziocino provvede a regolarne il multiforme traffico di cogitazioni e rêveries; la venatura ‘provinciale’ vi porta una ‘universalità sostenibile’, la minimale saggezza delle conversazioni alla buona che spesso e volentieri dispensa, come si è visto, tocchi di sapida letteratura. In Bosco, bosso, cavolo e colosso si legge: «Il fiore è un lumino spontaneo, una botanica e naturale lampada votiva. E le lampade, a loro volta, coi loro steli artificiali, assumono l’aspetto di fiori». In Eruttare o storia di Polifemo «i monti – per buttarla in catacresi o meglio in celia – hanno piedi, fianchi, spalle e, a volte, se il tempo volge al brutto, perfino il cappello». In Randa, randagio, randello. Razza ci attendono le temibili «cesoie brandite dal dizionario, che ancora gocciolano di sangue orfico come le mani delle Baccanti infuriate» e in Sinopia il rassicurante Solideo, «che faceva il contadino – o meglio era un contadino, uno di quei mestieri che durano oltre la pensione – e che spirava la bonaria simpatia di chi è avvezzo alle fatiche della vita». 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] La traduzione, insieme a Sabrina Pirri, di Una vita immaginaria di David Malouf, uscita da Frassinelli nel 2001.
[2] I saggi Del tartufo o della truffa (in San Giovanni d’Asso. Museo del Tartufo e Centro di documentazione, a cura di Gianfranco Molteni, Cinisello Balsamo, SilvanaEditoriale; Fondazione Musei Senesi, 2008, «Guide/5»: 131-136 e 142-143), Il ponte fra il tempo e lo spazio (in «ArtApp. Arte cultura nuovi appetiti». Il luogo, 19, 2017: 78-79), Altea o storia di una malvacea. Dal mito ovidiano a Cenerentola (in «Annali di studi umanistici», Università di Siena, Cadmo, VIII, 2020: 1-27), Nello specchio di Narciso. Al lettore che si accinge a visitare questo giardino (in L’erbario dei cappuccini di San Quirico. La storia complessa di una raccolta settecentesca, Fondazione «A. Tagliolini», San Quirico d’Orcia-Università degli Studi di Siena, Arcidosso, Effigi, 2020: 11-18).
[3] Giannetti vi prese anche parte come suonatore di flauto dolce: nel concerto di chiusura del 1991, dedicato alla Selva morale e spirituale di Claudio Monteverdi; e nell’opera Pollicino di Hans Werner Henze, portata in scena nel 2016.
[4] Rodolfo Acquaviva, L’arte del vino a Montepulciano [Rubri apud Politanos vini confectio], a cura di Bruno Bonucci e Raffaele Giannetti [San Quirico d’Orcia], Editoriale DonChisciotte, 1994.
[5] Montalcino, testi di Raffaele Giannetti, Roberto Nencini, redazione a cura di Mario Paccagnini [Montepulciano], Editori del Grifo, 1995.
[6] Luce e parola. Segni di San Francesco in Val d’Orcia. Campiglia d’Orcia, Pienza, San Quirico d’Orcia, sabato 5 e domenica 6 luglio 2003, a cura di Raffaele Giannetti, San Quirico d’Orcia, DonChisciotte, 2003.
[7] Fabio Pellegrini, L’utopia idraulica di Pio 2. Nell’immaginario antico e moderno della Val d’Orcia, prefazione di Raffaele Giannetti, San Quirico d’Orcia, DonChisciotte, 2006.
[8] Timothy Holthorne, Racconti del diavolo, a cura di Raffaele Giannetti, San Quirico d’Orcia, DonChisciotte, 2010.
[9] Il lambicco. Storia di un giostraio e di una sarta, testo e illustrazioni di Raffaele Giannetti, editrice DonChisciotte, 2010.
[10] L’ombra di Piccarda. Appunti sul Paradiso dantesco, San Quirico d’Orcia, DonChisciotte, 2012.
[11] «emercurius.wordpress.com», acceso dal 21 agosto 2011 al 29 gennaio 2013.
[12] «raffaelegiannetti.wordpress.com», acceso dal luglio 2015 al novembre 2018.
[13] Di lemmi e altre frottole, San Quirico d’Orcia, DonChisciotte, 2017 (procurato dall’allieva Caterina Sani).
[14] Precedenti stesure di un certo numero di sue voci erano apparse nelle sedi elencate alla nota 2, nei due blog personali e nell’incunabolo «in pochissime copie artigianali» di cui sopra.
[15] Il testo era già apparso in «Dalla parte del torto», Parma, inverno 2014-2015, a. XVII, n. 67: 16-17, e quindi nel blog Raffaele Giannetti. Raccolta di scritti vari (15 settembre 2015 e 6 luglio 2017). 

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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, Giacomo Debenedetti, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto, sono parzialmente raccolti in Il leggibile Pizzuto (Polistampa, 1999). Ha, inoltre, dato alle stampe le raccolte poetiche Rime (1985), Petrarchista penultimo (1986), Dei verdi giardini d’infanzia (2001). Fra i suoi lavori più recenti, i commenti integrali a Testamento e Sinfonia di Antonio Pizzuto (Polistampa, 2009 e 2012), i saggi Notizie dal carteggio Ripellino-Einaudi (1945-1977) (in «Annali di Studi Umanistici», 7, 2019), Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino (in «Russica Romana», xxvii, 2020), Per Simone Ciani: un ricordo nel giorno della laurea (in «Annali di Studi Umanistici», IX, 2021) e la cura di volumi di Angelo Maria Ripellino (Lettere e schede editoriali (1954-1977), Einaudi, 2018; Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), Aragno, 2020; Fantocci di legno e di suono, Aragno, 2021; L’arte della prefazione, Pacini, 2022) e di Antonio Pizzuto (Sullo scetticismo di Hume, Palermo University Press, 2020).

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