Il concetto di relativismo storico, secondo Tsvetan Todorov (1939-2017), sta nel riconoscimento dei valori democratici che regolano i diversi sistemi delle società, in cui tutto è collegato, dai costumi alle leggi, dall’ambiente naturale, modificato dall’uomo, allo spirito delle nazioni, nella convinzione che la qualità più alta dell’uomo – dimenticando la definizione kantiana dell’uomo come “legno storto” – dovrebbe consistere nella spinta a conoscere culture diverse guidato dal sentimento di uguaglianza e di progresso verso la democrazia.
Il filosofo bulgaro analizza il pensiero filosofico di Benjamin Constant attraverso i suoi scritti letterari, più che politici, cercando nelle sue considerazioni intorno al tessuto stesso dell’esistenza umana e nelle relazioni interpersonali, negli affetti e negli amori, la sociabilità, ovvero la «materia della sensibilità umana». Per Constant l’essenza della natura umana è la sociabilità, determinata da una “disposizione misteriosa” che porta l’uomo fuori di se stesso; a questo si aggiunga la particolare attrazione dell’immensità della natura: il sentimento religioso, l’estasi che ci prende «nel silenzio della notte, sulle rive del mare, nella solitudine delle campagne».
Da questa visione del mondo sociabilità e mobilità dovrebbero essere gli elementi che caratterizzano gli uomini radicandosi in loro tanto da farne degli esseri multipli costituiti dalla rete di relazioni con gli altri, dalle quali essi prendono stimoli e organizzano risposte. Anche se «Queste personalità multiple che abitano in noi, scrive Todorov, non possono mai pervenire a un accordo perfetto, perché l’unità dell’individuo è un’illusione» [1].
Il campo dei diritti umani, che dovrebbero essere protetti a livello mondiale, comprende prima di tutto le libertà civili che consistono nei diritti politici, e di autodeterminazione per le minoranze dei popoli. Ma le regole della convivenza mondiale sono molto fragili e, di fronte alla mancanza di sanzioni internazionali, pensare che l’opinione pubblica potrebbe in qualche modo funzionare da strumento di controllo sembra un’utopia; anche se per molti di noi, è fondamentale la partecipazione di tutti, «di chi riflette, chi legge, discute, protesta, denuncia, e non dimentica» [2].
In realtà i popoli e gli individui che compongono la comunità internazionale non hanno voce, sono gli Stati, gli interlocutori nel mondo. Per il mondo occidentale i Diritti umani sono contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, seguita, nel 1960, dalla Risoluzione di Indipendenza dei popoli coloniali per i quali avrebbe dovuto valere il principio dell’autodeterminazione. La Dichiarazione Universale si rivolgeva, allora, a 5 miliardi di individui e oggi, che siamo 8 miliardi, ha sempre il merito di rappresentare il fondamentale fattore di unificazione dell’umanità.
Ma in realtà le divergenze fra Stati e popoli sono enormi e l’universalità non è un mito, semplicemente non esiste, diceva un nostro grande storico a proposito della religione. Secondo Angelo Brelich, infatti, «è perché la troviamo presente in tutte le civiltà conosciute, che essa risulta un’acquisizione anteriore alle differenze culturali del genere umano». Per Brelich «la religione è un prodotto storico, per cui esistono le religioni, non la religione … dovunque si tratta dello sforzo di un gruppo umano di proteggersi dalla grande paura dell’ignoto» [3].
Le radici di queste riflessioni sono già nel pensiero di Gianbattista Vico il quale nella Scienza nuova (1724) sostiene l’importanza della storia dei popoli, e di quella parla, non della storia universale. Proprio in queste storie Vico scopre il ruolo fondamentale della immaginazione poetica degli uomini, come conoscenza, che esprime la prima mitica interpretazione del mondo: « … quivi pochi giganti ch’erano dispersi per li boschi, posti sull’alture de’ monti … spaventati e attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la ragione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo».
Ritornando sul principio storico-antropologico dell’inesistenza del concetto di universalità, tuttavia, è necessario dire che il valore universale dei diritti umani, comunque, è un ideale che porta al sentimento nobilissimo del concetto di “cittadini del mondo”; il che significa superare gli egoismi nazionalistici, impegnarsi in una militanza pacifista che non sia legata ad etnie e sostenere l’insegnamento del diritto alla libera espressione di ognuno nel contesto democratico nel quale la capacità e la possibilità di essere informati non sia considerato un privilegio di pochi.
In questo senso la concezione leghista del federalismo dà l’idea di come la gestione politico-amministrativa degli immigrati retta da forme di regionalismo egoista, rivendichi le differenze economiche e linguistiche che separano; una visione, questa, che ci allontana totalmente dai principi sostenuti, per esempio dal “Manifesto di Ventotene”, voluto in piena guerra, nel 1941, da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi confinati in quell’isola dal regime fascista o, per andare più indietro fino al mondo risorgimentale, da Carlo Cattaneo che, auspicando per l’Unità d’Italia il rispetto inclusivo delle diversità, puntava al superamento della visione nazionalistica, per aprirsi ai popoli che costituivano il complesso mosaico italiano ed europeo.
Fra le divergenze e i contatti storici che ci hanno fatto arrivare all’ordine mondiale di oggi, si può verificare se non un ravvicinamento tra le diverse visioni del mondo, certamente la consapevolezza antropologica delle molte diversità culturali. Nel nucleo fondamentale di diritti umani c’è il diritto alla vita; di qui l’abolizione della pena di morte, la sicurezza della persona, l’abolizione della tortura, i diritti all’alimentazione, il lavoro, la protezione alla sanità, la casa.
Uno dei diritti fondamentali, nato dopo le crudeltà del colonialismo, è espresso nella Carta Africana dei diritti (1981), entrata in vigore nel 1986; la Carta include, infatti, la prima convenzione internazionale che riconosce il diritto dei popoli all’autodeterminazione e il diritto di proprietà delle proprie risorse naturali. Questo principio del rispetto delle diversità delle culture, sostenuto scientificamente dalle correnti di studio etnoantropologiche affermatisi fin dai primi del Novecento, rappresenta il fondamento di una nuova weltanshaung, una visione del mondo in cui le identità culturali sono non tanto espressione di identità etnica (idea insostenibile, se pensiamo alle frequentazioni e agli incroci storici affrontati dai popoli), quanto una consapevolezza culturale che mette in grado i popoli di controllare i propri rapporti con il potere interno e con i poteri esterni, in una visione democratica del mondo.
Ma, dopo il colonialismo, la tristezza dei tropici di levi-straussiana memoria non è ancora finita: «le baraccopoli arrugginite in cui vivono persone … tristi tropici dell’egemonia occidentale» stanno ancora lì a ricordarci l’arrogante senso di superiorità culturale dell’Occidente; «è finito il tempo di una etnografia come archeologia del vivere che cerca sotto gli strati superficiali della modernità le tracce di una “primitiva originarietà”. Oggi la ricerca antropologica punta ad altro: scopriamo, infatti, la continuità nel cambiamento e la diversità dei modi di sentire come la qualità storica dei popoli».[4]
Le considerazioni di Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo, fanno riflettere sulla vaghezza dei diritti umani quando essi sono riferiti genericamente all’uomo, spogliato della sua identità culturale e riconosciuti soltanto secondo leggi, non scritte, del diritto naturale [5].
Ritornando sulla questione della passione della democrazia, chiudiamo queste considerazioni fermandoci sull’art.3 della Costituzione italiana, elaborato in gran parte da Lelio Basso al quale si deve questa principio democratico: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono di fatto il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] T. Todorov, Benjamin Constant. La passione democratica, Donzelli, Roma 2003
[2] A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Bari, 2004.
[3] A. Brelich, Storia delle religioni, Perché?, Liguori, Napoli, 1979.
[4] M. Sahlins, “Addio Tristi Tropici”: l’etnografia nel contesto storico del mondo moderno, Meltemi, Roma, 2000; M. Sahlins, La nuova scienza dell’universo incantato, Cortina ed., Milano 2023.
[5] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, ed. di Comunità, Milano, 1966.
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Sonia Giusti, già docente di Antropologia culturale e antropologia storica presso l’Università degli Studi di Cassino e Presidente del Corso di laurea in Servizio sociale. Ha lavorato sui temi trattati da Ernesto De Martino e Raffaele Pettazzoni e sullo storicismo inglese di Robin George Collingwood, oltre alle ricerche sui Diritti Umani e sulla storicità della conoscenza. Ha svolto seminari presso le Università di Roma, Urbino, Palermo e Oxford, presso la Bodleian Lybrary. È autrice di diversi studi. Tra le più recenti pubblicazioni si segnalano i seguenti titoli: Forme e significati della storia (2000); Antropologia storica (2001); Percorsi di antropologia storica (2005).
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