Il cammino asintotico e necessariamente in fieri di un’esistenza votata al Sapere, a quella musa guida che è la filosofia. Il reincontrarsi di anni di indagini sempre nuove e in apparenza distanti che si mostrano nel tessuto di fondo che le intrama e che le lega, nella diversità dei loro oggetti, l’una all’altra. Anche questo è Chronos. Scritti di storia della filosofia, di Alberto Giovanni Biuso (Mimesis, Milano-Udine 2023): crocevia di plurali, complessi e mobili itinerari del pensiero, tutti in un modo o nell’altro ordinati a un comun denominatore: la domanda sul tempo come domanda sull’essere. Ed è proprio nella riproposizione incalzante di tale Seinsfrage/Zeitsfrage – il che è pressappoco lo stesso – che questi «scritti di storia della filosofia» acquistano il volto di un cammino; un cammino che non è né lineare né circolare, un cammino che, nell’insistito far ritorno per mezzo di continui e molteplici “tornanti” a quel domandare originario che portò i Greci a chiedersi perché ci fosse qualcosa anziché il niente» [1], fa del Tempo «la domanda sull’essere, l’essere come domanda, l’essere che domanda» [2].
Il cammino di quest’opera, che in certo qual modo ingloba e supera i precedenti lavori Temporalità e differenza e Tempo e materia, collocandosi sulla medesima scia di ricerca da essi inaugurata, si dispiega così facendo in una metafisica dell’immanenza drasticamente materialista e disincantata, la quale affonda le proprie radici nel gioco dialettico che mette perpetuamente in relazione tra loro l’Identità e la Differenza, l’essere e l’ente, la Zoè della materia organica e il Bìos che l’uomo è, il tempo cosmico e la temporalità dell’esserci umano. Queste sono, infatti, «le potenze che contano, le vere potenze: la Materia, il Tempo, la Morte» [3]. Lungo un cammino che nel Leib/Körper non può che vedere l’unica, inemendabile datità e a un tempo il maggior trionfo dell’animale umano, obliato e soppresso dai monoteismi abramitici che sul rifiuto della corporeità e sull’egemonia dell’uomo su tutti gli altri esseri sono per intero costruiti, Biuso è capace di riconoscere l’attualità che i paganesimi antichi ancora conservano:
«Il carattere intrinsecamente plurale della divinità impedisce di considerare gli dei altrui “falsi, bugiardi, demoniaci”, spingendo invece a una reciproca assimilazione, la quale produce delle identità assai più “rispettose” della differenza, poiché sono identità che senza la differenza non potrebbero né esistere (ontologia) né essere pensate (epistemologia). Civiltà e differenza, dunque. Civiltà è differenza» [4].
Identità e differenza, ancora una volta: soltanto dalla commistione organica e fluida di queste due dimensioni potrà scaturire un pensiero capace di intendere l’essere nella polivocità del suo dirsi e nella multiformità del suo darsi attraverso gli enti. Dinamica scaturente in prima istanza dalla temporalità materica che intride di finitudine e di irreversibilità ogni ente, evento, processo e che dall’antica cosmologia greca è così ben compendiata: «Il vero signore del cosmo è Xρόνος, il divenire infinito, che assume le sembianze narrative e mitologiche di Κρόνος, figlio del Cielo e della Terra, padre di Zeus» [5].
Anche l’isolamento ontologico in cui l’uomo rinascimentale si è rinchiuso fuggendo l’animalità che gli è propria (e facendone, per di più, motivo di vanto) è il frutto del misconoscimento di tale dinamica, che è semplicemente il promanare dell’essere dal e nel divenire degli enti; dell’essere che è il divenire. Tutto ciò che ci circonda, noi compresi, difatti, è costituito di mutamento e di scambi con il diverso, con l’alterità: «A ogni ente appartiene il proprio divenire, inteso sia come processo interno sia come effetto e causa rispetto a molti altri enti. Essere qualcosa significa diventare qualcosa» [6]. Alla condizione presente, alla condizione di un uomo occidentale dimentico del proprio corpo e di ciò che questo testimonia, ovvero l’ineluttabile destino del morire, urge contrapporre una metafisica post-cartesiana e post-umanistica, spinozianamente capace di accogliere la perfezione della necessità in cui siamo immersi e parimenti capace di riconoscere e accettare con spietata lucidità leopardiana la
«Nullità di ogni ente per ciò che è e per come è. I viventi sono macchine riproduttive, replicanti intrisi di contingenza. Carattere quest’ultimo che gli enti che sono vivi condividono con ogni altra modalità dell’esserci e che fa sì che ciò che è sia un lampo di essere dentro l’universale dominio del niente» [7].
È nell’identità del finire che vanno dunque raccolte le differenze, secondo Biuso. Il Sein-zum-Tode, lungi dall’esser semplice Stimmung di un’esistenza umana, assurge qui a modo d’essere della materia tutta; è la corda che tiene legate tra di loro le differenze nell’oggettività schiacciante della loro sorte, che è il perire. Ma ancora: come acconsentire a una realtà cosiffatta se di questa realtà si continua ostinatamente a negare (nelle più varie modalità in cui tale negazione possa eventuarsi, dall’antropocentrismo rinascimentale al transumanesimo delle contemporanee teorie del politically correct) la prova più inoppugnabile, cioè il corpo? Dice bene Nietzsche: «Noi parliamo di natura e intanto ci dimentichiamo di noi stessi: noi stessi siamo natura, quand même» [8].
Accogliere la natura progettuale, intrinsecamente diveniente, sempre cangiante dell’umano e del cosmo in generale tiene lontani dal rischio di cadere in sterili “schieramenti” filosofici che col reale poco hanno a che fare, come l’invalidante dualismo realismo-trascendentalismo: due visioni che, considerate isolatamente, perdono di vista l’essenziale, ignorando l’una che «non potremmo vedere nulla se non proiettassimo nella materia i nostri schemi di spiegazione e interpretazione», l’altra che «non potremmo esistere se non fossimo parte di un mondo che ci precede e che c’è indipendentemente da qualunque sguardo» [9].
Per Biuso, indagare e riconoscere la fondamentale semanticità che rende l’umano quel che in fin dei conti è – un essere ermeneutico, un «animal interpretans» – non implica, infatti, né la negazione tout court dell’esistenza oggettiva di un mondo esterno al soggetto conoscente né la negazione delle proprietà essenziali e costitutive di quest’ultimo; non implica, in altre parole, ridurre l’existentia dell’ente (ontologia) alle condizioni trascendentali della sua conoscibilità da parte di un qualunque individuo (gnoseologia). D’altro canto, vuol dire però anche acconsentire alla cruda verità dell’essere, oltre ogni teleologia e ogni convinzione che un qualche “senso” immanente agli oggetti che ci circondano possa mai darsi prima dell’intervento di un corpomente che li esperisca.
«Non esiste, infatti, una realtà prima esterna, una materia di per sé significante, un’oggettività indipendente dalla mente. Il flusso di percezioni sensoriali che ci investe è reso possibile dall’immediata donazione di significato che l’insieme del nostro corpo, della memoria e degli apprendimenti dà al nostro esistere spazio-temporale. I significati non stanno negli enti, nei processi e negli eventi. Essi abitano nella mente che di questo fluire di enti, processi ed eventi è costituita» [10].
Accettare con sguardo metafisico disincantato l’insensatezza dell’essere e quindi l’indisponibilità di un fondamento primo svincolato dalla contingenza del divenire, comprendere che gli enti non “significano” di per sé stessi ma sono di volta in volta significati da umani che in ragione del loro caratteristico vivere comunitario congelano tali significati in regole paradigmatiche (Wittgenstein questo lo ha messo ben in evidenza) consente da ultimo di gettar luce perfino su ciò che di più ignoto eppure fondamentale sembrerebbe esservi nell’umano: la tensione amorosa.
Quella rovinosa passione che già Leopardi e Schopenhauer sapevano essere «inconsistente, allucinatoria, frutto del corpomente che ama e non di un oggetto d’amore reale, di una autosussistente sostanza amorosa, di una alterità che effettivamente esista» [11]: che si voglia definire questa condizione ermeneutica un “inganno della Natura” à la Schopenhauer o che la si voglia chiamare con Stendhal “cristallizzazione”, essa dà sempre prova di affondare le proprie radici in niente di più che l’intima ontologia del Dasein che nel mondo dimora; vale a dirsi, in questo caso, dell’innamorato soltanto e nient’affatto della persona amata. Nessuna illusione, nessuna “malattia”, nessuna fallacia conoscitiva, bensì il puro e semplice far esperienza dell’universo circostante da parte dell’animale umano.
Sfondo e trama ultimi di queste e di molte altre dispute filosofiche che dall’ontologia spaziano fino alla filosofia della mente, transitando per la sociologia, la filosofia politica, l’ermeneutica letteraria e la critica del presente, è cionondimeno sempre e solamente Xρόνος/Κρόνος, è l’assunzione che «gli enti non esistono in un tempo che li precede; enti, eventi e processi sono il tempo in atto» [12]. L’errore esiziale in cui il pensiero occidentale ripetutamente cade, interrogandosi secondo Heidegger sull’essere allo stesso modo in cui si interroga sull’ente, consiste proprio nella pretesa di ricevere, da tale domandare, una risposta che in sé rechi un “che cosa” – la stessa domanda “che cos’è l’Essere?”, da questo punto di vista, è potenzialmente fuorviante –. Invece,
«Il tempo [o l’esseretempo, per dirla con Biuso] è il “come”. Se si insiste a chiedere che cos’è il tempo, non bisogna aggrapparsi affrettatamente a una risposta (il tempo è questo e quest’altro) che dice sempre un “che cosa”» [13].
Filosofare significa anche sporgersi a pensare questo “come”, a pensare la condizione trasparente che fa sì che degli enti si diano e siano pensabili; significa sforzarsi di vedere la luce dell’essere senza perdere di vista che, in assenza di uno specchio (l’umano) che la rifletta, tale luce sarebbe vacuo accecamento, un nulla indistinto al pari del puro buio. Il tentativo estremo di un domandare metafisico così fatto assurge in Chronos a motivo e a guida di una intera esistenza, come emerge dalla perentorietà con cui l’autore in ripetute occasioni asserisce, accostandosi al dire oscuro, malinconico eppur segretamente speranzoso della Gnosi:
«L’umanità è intrisa di Luce dionisiaca e di titanica cecità. L’umanità è una goccia del Sacro annegata nel mare dell’ignoranza. Lo scopo vero dell’esistenza, quello per il quale merita esserci, consiste nel conoscere questa nostra natura, nel riconoscerla, nella immensa serenità che tale sapere offre» [14].
Se esserci significa essenzialmente abitare l’esseretempo – o, meglio, esserlo –, se filosofia è il tentativo di comprendere fenomenologicamente la luce che rende possibile ogni vedere, allora è ipso facto chiaro perché, secondo Alberto Giovanni Biuso, un ritorno alla parola dei pensatori classici è ora più che mai urgente; non al vacuo dualismo mondo sensibile-mondo intelligibile di cui una storiografia (prevalentemente di matrice cristiana) inaccurata ha macchiato il “pugile” Platone, ma al più franco determinismo, alla celebrazione del corpo, alla ricchezza e alla vitalità di Pan, alla contemplazione dell’ineffabile αἰών nello squarcio folgorante del καιρός.
«Un abisso c’è tra tale modo di intendere l’esistere e la sensibilità dell’Europa moderna», contro la quale il filosofo si scaglia con parole durissime; un abisso
«tra la consapevolezza di quanto gratuito, insensato e terribile sia lo stare al mondo e il luna park moralistico e sentimentale che sostiene il valore sacro di ogni umano. Sacra hanno la presunzione di definire i moderni la macchina pneumatica che ingerisce ossigeno e cibo e li espelle sotto forma di escrementi e parole. Sacro chiamano ciascuno degli innumerevoli, miliardi e miliardi, di umani che nel corso degli evi sono stati e continuano a essere concepiti nell’umido dello sperma e dell’uovo, che dureranno poco e torneranno poi alla materia comune dalla quale la casualità genetica li ha tratti. […] Sacro è per loro il mammifero di grossa taglia, feroce con i propri simili e distruttivo dell’ambiente che gli dà vita e risorse» [15].
Sacra è, al contrario, la materia. Sacro è l’unum psicosomatico che l’animale è. Sacra è l’identità della Temporalität che si dispiega nella differenza della Zeitlichkeit vissuta, nel divenire di un ente che, rimanendo sé, muta a ogni istante [16].
Tutto ciò, sovente in maniera esplicita e altre volte più velatamente, filtra da ogni pagina di Chronos, che di questa tesi di fondo – ovvero, di oltre venti anni di ricerche – è il coronamento e forse la realizzazione migliore; un quadro unico e molteplice capace di compendiare con tagliente schiettezza e con finezza talora quasi poetante l’intero sistema filosofico di Alberto Giovanni Biuso o, come sopra mi è piaciuto chiamarlo, il suo cammino verso il Tempo, dal Tempo, nel Tempo.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] E, con i Greci, Leibniz che in tale interrogare ha racchiuso il senso e l’aporeticità stessi della domanda metafisica: «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla? Il Nulla, infatti, è più semplice e più facile del Qualcosa»; Leibniz, Monadologia (Les principes de la philosophie ou la monadologie, 1714), a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano 2001, §7: 47.
[2] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023: 232.
[3] Ivi: 37.
[4] Ivi: 13. In generale, cfr. ivi: 11-26.
[5] Ivi: 38. Sull’origine delle divinità Chronos e Kronos e sul cruciale discrimine che le distingueva già nella Teogonia di Ferecide di Siro, si veda lo studio esemplare condotto da Martin West: M.L. West, La filosofia greca arcaica e l’Oriente (Early Greek Philosophy and the Orient, 1971), a cura di G. Giorgini, Il Mulino, Bologna 1993, in particolare: 38-45. Oltre a delinearne i tratti fondamentali sulla base delle pochissime informazioni pervenuteci a proposito del pensatore “sincretista” – come lo definisce West –, qui è peraltro possibile osservare le notevoli influenze micrasiatiche e nella fattispecie zoroastriane che il pensiero degli antichi filosofi ionici ha ricevuto.
[6] A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2020: 7.
[7] Id., Chronos. Scritti di storia della filosofia, cit.: 150. Prosegue idealmente Dierna, infatti: «Inutile sarà stato ogni affanno, inutile sarà stata ogni delusione e ogni tensione, inutile sarà stato il nostro pianto, inutile sarà stato esserci; inutile non solo perché di tutto ciò non resterà più niente domani, ma perché già adesso, ogni affanno, ogni delusione e ogni lacrima non sono che la manifestazione della tragedia che è lo stare semplicemente al mondo»; S. Dierna, “È il nascere che non ci voleva”. Introduzione a David Benatar, in Vita pensata, XII, n. 26/2022: 32.
[8] F. Nietzsche, Umano, troppo umano II (Menschliches, Allzumenschiches. Ein Buch für freie Geister, 1878), nota introd. di M. Montinari, trad. di S. Giametta, Adelphi Edizioni, Milano 1981:264.
[9] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, cit.: 384.
[10] Ivi: 189.
[11] Ivi: 154.
[12] Ivi: 291.
[13] M. Heidegger, Il concetto di tempo (Der begriff der Zeit. Vortrag vor der Marbuger Theologenschaft, 1924), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1998:50.
[14] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, cit.: 29.
[15] Ivi: 60.
[16] Con parole più raffinate, Schiller scriveva: «Unicamente mutando, egli esiste; solamente restando immutabile, è lui ad esistere. Pertanto l’uomo rappresentato nella sua completezza sarebbe l’unità permanente che nei flutti del mutamento rimane eternamente la stessa»; J.C.F. Schiller, L’educazione estetica dell’uomo. Una serie di lettere (Ueber die ästhetische Erziehung des Menschen. In einer Reihe von Briefen, 1793-94), a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2017: 107.
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Federico Nicolosi studia Filosofia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Si interessa di questioni di filosofia teoretica, abbracciando principalmente la riflessione esistenzialista-ontologica del Novecento e approfondendo in particolar modo il pensiero di autori come Schopenhauer, Nietzsche, Sartre, Scheler, Heidegger, Wittgenstein.
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