Massimo: Premetto che il tuo libro, La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cosa sapere prima di accettarla o rifiutarla (Di Girolamo, Trapani 2024), è il primo testo organico che leggo sull’argomento. Dunque le considerazioni che ti rivolgo provengono non da uno specialista della tematica, ma da un lettore curioso e sinceramente in ricerca.
In apertura desidero esplicitare il presupposto antropologico della mia lettura: da medico esperto in neuroscienze, so che, nel nostro cervello, le basi dell’aggressività si trovano nell’amigdala, struttura che prima riceve informazioni dal talamo (più primitivo) e poi, più lentamente, dalla corteccia (più evoluta). Le reazioni emotive di aggressività (biologiche) e di violenza (in gran parte culturali) hanno quindi prima una spinta emotiva immediata che, in assenza di urgenza o di tempeste emozionali, viene poi “contenuta” dalle aree corticali superiori.
Inoltre, una ridotta trasmissione del mediatore chimico serotonina favorisce azioni violente sia rivolte verso gli altri che verso se stessi, e la si trova spesso in individui abitualmente violenti, specie in caso di omicidi passionali e non premeditati.
La cultura (e quindi l’ambiente di vita, le tecniche pedagogiche di educazione ecc.) cui un individuo è esposto danno poi forma alla violenza agita. Ma attenzione: le basi biologiche dell’aggressività, che hanno fatto dell’essere umano quello che è, non possono essere rimosse se non con una ulteriore mutazione evolutiva. Per quanto ne sappiamo, non è possibile mantenere solo “Eros” eliminando “Thanatos”, dobbiamo tenerci tutto il pacchetto; e lo sanno bene artisti come Caravaggio o Dostoevskij! L’ambivalenza è tipica dell’essere umano: perfino la povera Antigone è stata a volte considerata come un’eroina che, senza armi, si ribella al potere (vedi ad esempio il testo Antigone contro, di Assunta Marinelli), altre a volte come un’egoista sociale con pulsioni di morte (vedi ad esempio Contro Antigone, di Eva Cantarella).
È a partire da queste basi che ho provato a leggere il tuo libro, cercando di capire quello che è oggettivamente possibile nel mondo reale.
Andrea: Ti ringrazio per la curiosità e l’attenzione. Le tue «basi» mi vanno benissimo – a meno che non stia intendendo dire che la violenza non sia esclusivamente culturale. Così temo di intravvedere nella tua espressione «le reazioni emotive di aggressività (biologiche) e di violenza (in gran parte culturali)». Personalmente condivido la tesi etologica secondo cui l’aggressività è biologica, la violenza è culturale. Diversamente mi si dovrebbe indicare in che punto/quando la violenza (distinta dall’aggressività) smetta di essere biologica e diventi culturale.
Massimo: La risposta alla tua richiesta è facile: denti e unghie sono biologici, come per ogni animale; spade, fucili ecc, sono culturali, come lo sono le violenze repressive variamente applicate nelle varie culture che si sono succedute: è così che intendo la cosa. Ma passiamo al tuo libro.
All’inizio esponi un elenco di definizioni della nonviolenza a tuo parere insufficienti o errate. La prima delle quali sarebbe che essa «non è ossequioso rispetto della legalità e della democrazia». Di fatto è certamente così, ma già il mancato rispetto di questi due capisaldi mi lascia perplesso. «Una legge può essere corretta sul piano della procedura democratica, ma eticamente iniqua», scrivi. Questo potrebbe anche essere vero, ma resta il problema di chi decide cosa è giusto e cosa no. A me sembrano giuste un sacco di cose che ad altri non interessano affatto.
Andrea: La soluzione del problema che individui, per quel che mi riguarda, è semplicissima ed è uno dei capisaldi della nonviolenza: “decide” ogni singola persona (magari dopo aver dialogato, spero, con molte altre). Per me, una legge è ingiusta; per un altro no. Il che significa che, «in questo caso, il nonviolento è pronto a disobbedire». Non ritengo che questo atteggiamento comporti, di fatto, alcun pericolo per la democrazia perché la disobbedienza in questione è «disobbedienza civile (cioè l’esplicito rifiuto di rispettare una legge)», pronta, come sappiamo da tutte le lotte nonviolente a partire da quelle dello stesso Gandhi, ad accettare la pena che la legge prevede; anzi, il nonviolento richiede la pena perché la sua trasgressione è compiuta allo scopo di porre all’attenzione dell’opinione pubblica un certo tema. Non si tratta di ‘evadere’ (nascostamente) una legge, ma esplicitamente di farla cambiare. Tutto ciò, credo che ne converrai, è democraticissimo e più che democraticissimo.
Massimo: Poi continui affermando che la nonviolenza «non è pacifismo, inteso come evitare ad ogni costo il conflitto, non è equidistanza, non è un alibi, non è necessariamente religiosa, non è spontanea»: su tutte queste asserzioni non avrei obiezioni.
Andrea: Ne sono felice.
Massimo: Quando, però, aggiungi che «la nonviolenza non è una scelta elitaria», direi “forse…”.
Andrea: Ti ringrazio del “forse”, ma confesso che non mi basta. Sono convinto che la nonviolenza sia una scelta che chiunque può adottare e mettere in atto, perché, contrariamente alla scelta di combattere le ingiustizie con le armi, non ha bisogno di armi né di alcuna forza: il nonviolento può agire in modo nonviolento anche se vive su una sedia a rotelle.
Massimo: Sostieni, infine, che «la nonviolenza non è un’utopia». Qui davvero non so. I dubbi si fanno più consistenti. Se intendiamo che ci sono stati, ci sono e ci saranno esempi di lotte nonviolente riuscite, specie in situazioni storicamente favorevoli, si può essere d’accordo. Ma che questo diventi universale… È vero che non possiamo sapere quello che accadrà fra cinquanta, cento, mille anni, ma qui siamo nella filosofia della speranza di Bloch e nella teologia della speranza di Moltmann…
Andrea: Con la nonviolenza siamo nella filosofia della speranza (di essere efficaci nelle lotte) almeno tanto quanto lo si è coltivando, appunto, la filosofia della speranza … che si abbia successo con la forza fisica e con le armi (in cui l’Altro – ma non il paralitico, per tornare al punto precedente! – può essere più preparato di me o del mio esercito). Senza considerare che la speranza di avere successo con le armi porta inevitabilmente ad un sempre maggiore armamento da tutte le parti… Non certo un buon viatico per immaginare un qualsiasi futuro.
Massimo: In una seconda parte della trattazione passi a definire, in positivo, cosa sia la nonviolenza e, innanzitutto, la definisci «una forma di lotta». Mi sembra giusto!
Andrea: Fa sempre piacere che qualcuno concordi con una nostra tesi.
Massimo: Inoltre aggiungi che la nonviolenza sia «disponibilità alla sofferenza» e trovo l’affermazione più che giusta! Purché sia disponibilità alla propria sofferenza, non a quella degli altri. Io, da cristiano, posso scegliere di porgere l’altra guancia, ma non posso imporlo anche a mio figlio: se qualcuno gli stesse facendo del male, io avrei non solo il diritto, ma il dovere di difenderlo, e con ogni mezzo utile, purché proporzionato al male che gli stessero facendo. Ad uno schiaffo non si può certo reagire con un mitra, ma ad un mitra con cosa si dovrebbe reagire? Pensiamo ai kibbutzim del 7 ottobre…Per onestà, va detto, comunque, che né la risposta armata né quella nonviolenta dei ragazzi israeliani partecipanti al famoso rave pacifista nel deserto hanno aiutato le vittime. Ho il sospetto che, in certe situazioni estreme, solo una potenza di reazione immediata e superiore a quella dell’aggressore possano salvare la nostra vita… e, soprattutto, quella dei nostri figli. Ma anche questo a volte risulta impossibile, come nel caso delle Torri Gemelle… Sulle possibilità di prevenire questi disastri – e ovviamente su Gaza – avremo modo di tornare.
Andrea: Sulla disponibilità alla propria sofferenza e sulla non imposizione ad altri di tale disponibilità sono totalmente d’accordo e non c’è nel mio scritto un solo rigo in senso diverso (al punto che, sinceramente, non mi è chiara la ragione di questa tua precisazione). Differisco solo su un punto, tuttavia di grandissima importanza: la nonviolenza è, sì, del tutto d’accordo (e in esplicito accordo!) con il fatto che, se sia in gioco la sofferenza di qualcuno che non sia il soggetto nonviolento, si abbia «non solo il diritto, ma il dovere di difenderlo», come affermi tu; non, tuttavia, «con ogni mezzo utile, purché proporzionato al male che gli stessero facendo», bensì, per quanto si possa pensare in ogni singola situazione contingente, con il minimo danno possibile per l’oppressore (es.: se uno sta sparando ad un altro, e io ho una pistola e non trovo altri mezzi che mi consentano di fermare l’aggressore se non sparando, allora sparerò ma, per esempio, mirando ad una parte non vitale piuttosto che al cuore). Le cose poi sono anche più complesse, perché dal punto di vista nonviolento posso usare la pistola, se non individuo in quel momento possibilità alternative, anche per salvare me stesso; ma ciò non va inteso nel senso della legittimazione di qualsiasi forma di difesa anche violenta purché sia la minima necessaria, bensì nel senso che ho l’obbligo di continuare a formarmi una cultura che mi faccia capire che il minimo di violenza necessario non è quella che mi sembra tale sulla base della cultura comune e che, invece, esistono molte tecniche nonviolente che non conosco e che devo esercitarmi a praticare.
Quanto all’esempio del rave israeliano del 7 ottobre 2023, qui diventa chiaro che c’è un grossissimo malinteso: ti stai riferendo non alla attiva “nonviolenza” (una forma di lotta contro l’ingiustizia e la prevaricazione) di cui trattano le mie pagine, bensì alla passiva “assenza di violenza”, con cui la nonviolenza non ha nulla da spartire. Infatti, non mi risulta che il 7 ottobre siano state messe in atto, dalle vittime, pratiche nonviolente, ma solo tentativi di fuga, pianti etc. – legittimissimi e ben comprensibili, ovviamente, ma che non c’entrano nulla con le tecniche della nonviolenza.
Inoltre, rispetto al «sospetto» che «in certe situazioni estreme, solo una potenza di reazione immediata e superiore a quella dell’aggressore possano salvare la nostra vita… e, soprattutto, quella dei nostri figli» – cosa possibilissima ma che possiamo scoprire se di volta in volta è valida solo quando conosciamo le tecniche della nonviolenza e le confrontiamo con quelle militari nella specifica situazione – c’è da mettere a fuoco un elemento la cui omissione rende il tuo «sospetto» quasi un’ovvietà lapalissiana ‘a favore’, per così dire, della difesa armata. L’elemento da far emergere è che «la reazione immediata e superiore a quella dell’aggressore» (e suppongo che tu intenda, appunto, quella armata) non serve assolutamente a nulla se non si hanno le armi e/o se non le si sanno usare e/o se non si sia esercitati ad esse – il che vale anche, appunto, per la nonviolenza solo se non se ne possieda la conoscenza, non la si sappia utilizzare, non si sia esercitati ad essa. In breve, si può paragonare l’efficienza della violenza a cui si sia stati preparati con quella della nonviolenza a cui si sia stati preparati, non l’efficienza della violenza (che si dà per scontato che sappiamo mettere in atto anche senza preparazione) con quella della nonviolenza (che si dà per scontato che … è inefficace a prescindere da tutto).
Massimo: La potenza di reazione a cui mi riferisco non è necessariamente armata. Deve essere comunque idonea a far cessare l’aggressione prima che qualcuno (gli “altri” di cui parlo) si faccia male. Forse sarà un pregiudizio, ma credo che il 7 ottobre gli assalitori non si sarebbero fermati di fronte a nulla.
Concordo sulla tua asserzione che «la nonviolenza sia comunicazione e creatività». Purtroppo, come nota acutamente Anne Applebaum nel recente Autocracy, tutti questi espedienti sono effettivamente stati usati fin dai tempi del passaggio di Hong Kong alla Cina… solo che il governo li conosce tutti, e li ha resi inoffensivi. Sempre Applebaum fa notare che il tiranno massacratore sta ovunque lasciando il posto a quello che gestisce le comunicazioni, la propaganda, il controllo. Insomma, benissimo qualsiasi idea nuova ci venga in mente, ma non aspettiamoci che l’antagonista non la conosca.
Andrea: Ovviamente mi fa piacere che tu sia d’accordo anche con questa definizione di nonviolenza, ma francamente mi sfugge in che modo gli espedienti nonviolenti che già siano «effettivamente stati usati» – e dunque siano noti all’avversario che ha trovato il modo di renderli innocui – possano essere considerati, una volta noti, «creativi»: se sono già noti non possono essere creativi, perché la creatività esclude la ripetizione di qualcosa già nota. Non sono creativo se, dopo avere inventato il motore a scoppio, lo invento (?) di nuovo tale e quale. Ugualmente, se il mio avversario conosce già la mia «idea nuova», allora quell’idea non era nuova. In margine, ma non troppo in margine, noterei che il nuovo modello di tiranno (quello non massacratore ma che fa perno su comunicazioni, propaganda, controllo) somiglia straordinariamente a quella che noi chiamiamo (come il sistema dominante vuole, esattamente come avviene nei regimi che non si autodefiniscono autocratici, come li definiamo noi, ma democratici) “democrazia”.
Massimo: La democrazia non è un qualcosa di compiuto, ma in continua evoluzione/involuzione: è un processo. Non è perfetta, ma gli altri tipi di governo sono, credo, peggiori, e non parlo solo di dittature: anarchico-individualisti, “antagonisti” spesso violenti… Come scrive Spinoza nell’ Ethica: «L’uomo guidato dalla ragione è più libero nello Stato, dove vive secondo il decreto comune, che nella solitudine, dove obbedisce soltanto a se stesso».
Ma torniamo al tuo testo. Dopo aver proposto alcune definizioni della “nonviolenza”, elenchi delle tecniche di lotta nonviolenta («negoziato, arbitrato, boicottaggio economico, propaganda, non polarizzazione del conflitto, accettazione di compromessi, evitare ogni escalation»). Trovo tutti questi metodi non solo giusti, ma doverosi. Sono tecniche utilizzabili a qualsiasi livello di conflitto. In particolare, un conflitto di tipo bellico (tra nazioni, tra gruppi civili, terroristico, ecc.) non è praticamente mai frutto di una reazione emozionale, ma sempre pianificato, quindi la nostra corteccia cerebrale e la nostra cultura (purché non guerrafondaia) possono agire liberamente, e prevenire il peggio, evitando così molte situazioni estreme.
Andrea: È indubbio che negoziato, arbitrato etc. siano attuati anche nei conflitti militari. Preciserei con nettezza, tuttavia, che essi (insieme agli altri che non impiegano la forza armata) sono gli unici mezzi utilizzati in nonviolenza. Quest’ultima, cioè, in quanto tale, di per sé, esclude il ricorso alla violenza, che invece la difesa (se difesa è) militare prevede. Sottolineerei che, se le tecniche nonviolente vengono praticate oltre ai mezzi armati, questi ne falsano il funzionamento: basti pensare alle richieste di negoziato ‘a balletto’ – «quando sono in difficoltà io, ti chiedo il negoziato; quando sei in difficoltà tu, ti nego il negoziato» – viste più volte nella guerra russo-ucraina.
Massimo: Ai metodi precedenti, tu aggiungi anche «agitazioni, dimostrazioni, scioperi più o meno limitati, digiuni». Trovo che siano tutti giusti e auspicabili, ma utilizzabili quasi esclusivamente in situazioni democratiche, non certo nella Corea del Nord.
Andrea: Non vedo da dove faccia derivare la certezza sull’efficacia della nonviolenza nelle (cosiddette, aggiungerei) democrazie e inefficacia in Paesi come la Corea del Nord (che, suppongo, citi come esempio di regime dittatoriale), a meno che la tua non sia una mera affermazione di principio. Infatti la storia recente registra, per esempio, il caso della dittatura di Marcos nelle Filippine rovesciata dalle lotte nonviolente protrattesi per due anni, dal 1984 al 1986.
Massimo: Anche altre tecniche di lotta nonviolenta da te evocate («non collaborazione, disobbedienza civile, sciopero alla rovescia») le trovo giuste e auspicabili, ma di nuovo utili in situazioni democratiche e, oltre tutto, se praticate da un vasto numero di cittadini: questo non è sempre facilmente ottenibile, e uno o dieci disobbedienti fanno a malapena notizia, ormai.
Andrea: Se non-collaborazione, disobbedienza civile etc. fossero «utili in situazioni democratiche» soltanto, allora sarebbero … inutili. Quanto ai regimi dittatoriali, a mia conoscenza, nessun teorico della nonviolenza si è mai sognato di sostenere che la nonviolenza abbatta dittature se praticata da «uno o dieci disobbedienti» e neanche in una (cosiddetta, viste le analogie col dittatore non massacratore) democrazia. D’altra parte, se non ci sono prima uno (vedi Gandhi che iniziò da solo) e poi dieci oppositori, non ce ne saranno nemmeno centomila – e il mito delle rivoluzioni che scoppiano perché tutti corrono insieme e contemporaneamente alle armi è chiaramente un mito; c’è uno che propone a un altro che propone a un altro ancora… e poi vanno tutti insieme in strada.
Massimo: Ribatterei che le lotte in situazioni democratiche non mi sembrano mai inutili, e possono essere solo nonviolente, per definizione. Quanto all’abbattimento di dittature, credo di aver già espresso il mio parere: se non ci sono le condizioni storiche, nessuna forma di lotta avrà successo. Nella lista delle iniziative nonviolente citi la «emigrazione di massa». Ecco, questo non lo capisco. Lasciare tutto quello che si ama per andare dove? In un mondo in cui le frontiere sono sempre chiuse, in uscita e/o in entrata, come sarebbe praticabile? Non so, forse in luoghi remoti; ma in Occidente, in Russia o in Cina… no, non lo capisco proprio.
Andrea: Là dove ho accennato a questo espediente ho ricordato un esempio storico specifico. Comunque, non ritengo che debba diventare una regola (e come tale obbligatoria) piuttosto che costituire una possibilità. Vorrei chiarirlo con decisione: la nonviolenza (a parere mio, ma anche di qualsiasi persona al mondo che si occupa di nonviolenza) non prescrive imposizioni. Ogni situazione è a sé e la storia attesta numerosi casi differenti. In quella che ho espressamente chiamato una «introduzione, parziale ed elementare come tutte le introduzioni», non ho preteso di offrire una trattazione particolareggiata della nonviolenza: per questo ho raccomandato di proseguire lo studio della tematica attingendo alla «bibliografia», «notevolissima per quantità e per qualità», ormai disponibile.
Massimo: Citi inoltre «picchettaggi e sit in». Attenzione, qui, attenzione! Hai (onestamente!) detto che ai nonviolenti non sempre la democrazia interessa, ma in uno Stato democratico, qualsiasi dimostrazione “di piazza” deve essere autorizzata in tempi e luoghi. Naturalmente, deve essere anche assolutamente nonviolenta: non devono essere violenti gli agenti di polizia, ma nemmeno devono esserlo i manifestanti, altrimenti si generano inevitabilmente reazioni, dall’una o dall’altra parte, con feriti ecc. Un esempio: tra l’aprile e l’ottobre del 2023 attivisti di “Ultima Generazione” hanno bloccato percorsi, prevalentemente utilizzati da pendolari, a Bari, Roma, Bologna, Verona, Milano… In alcuni casi è stata chiamata la polizia, che ha convinto a parole i ragazzi a desistere, seppure dopo un paio d’ore. Altrove gli automobilisti, allertati dalle notizie dei giorni precedenti, sono scesi e hanno spostato i ragazzi di peso. Gli attivisti si sono allora organizzati per i blocchi seguenti, ammanettandosi fra loro i polsi e le caviglie, ma… sono stati ugualmente spostati, riportando qualche inevitabile distorsione. Su un loro blog, nei giorni seguenti, ho letto questa frase: “Sì, è vero, c’è stata violenza, non ce l’aspettavamo”. Ebbene, io sono evidentemente una persona maligna e diffidente, perché al posto loro la prima cosa che mi sarei aspettata sarebbe stata proprio la violenza! Concludendo: i pendolari o hanno perso ore di lavoro e subito richiami per i ritardi, ricevendo un danno (ma più avanti il tuo testo invita proprio a non danneggiare…); oppure, provocati, hanno agito loro stessi con violenza. Ma, più di tutto, io dubito che qualcuno di quegli automobilisti in ritardo si sia sentito più vicino alla causa ambientalista (per altro da me condivisa).
Andrea: Prima ho cercato di contestare la tua pre-comprensione del nonviolento come cittadino al quale «non sempre la democrazia interessa», ma vedo senza troppa fortuna. Qui mi pare che agisca un secondo equivoco, concernente il concetto di “danneggiare”. Per me evitare di “danneggiare” non significa non dare fastidio a nessuno; piuttosto, significa non infliggere sofferenza fisicamente, verbalmente o psicologicamente. Nel caso specifico da te richiamato, a proposito del blocco autostradale di “Ultima Generazione”, bisognerebbe aggiungere che ci si curava al contempo di parlare con gli automobilisti, di scusarsi per i ritardi che venivano procurati loro, di far passare coloro che avevano urgenze gravi… Tuttavia, spero che la questione della democrazia sia ormai definitivamente chiarita, visto che infrangere le leggi democratiche, senza fare violenza fisica o verbale o psicologica a nessuno e richiedendo la pena e non tentando di evitarla, è un fatto democraticissimo per il quale ci si assume senza mezzi termini la responsabilità, e attiene dunque alla libertà di coscienza di ogni essere umano.
Massimo: Non ero presente ai picchettaggi, ma ho letto che in seguito ci sono stati attivisti che si sono addirittura incollati sull’asfalto… necessitando poi di un ricovero. Come potevano far passare chi aveva urgenza? E poi, c’è sempre il solito problema: chi decide quali sono i danni accettabili e quelli che non lo sono? Il tuo testo riporta alcuni casi di nonviolenza dimostratasi efficace, anche in situazioni critiche: in America Latina, in Africa, nelle Filippine e in Birmania. Vengono citati anche il nazifascismo, l’Europa dell’Est e l’Iran. Devo ammettere che di alcuni di questi Paesi conosco poco, quindi mi astengo dal giudizio. Però altre situazioni le conosco bene, e non sono d’accordo sull’efficacia della nonviolenza per combattere il regime nazifascista (naturalmente, a patto che il risultato interessi, perché se si agisce solo per principio…). Senza contare i “nemici”, ci sono voluti più di 300 mila morti alleati e più di 30 mila vittime partigiane per sconfiggere quell’obbrobrio, oltre naturalmente a più di 10 mila civili morti sotto i bombardamenti (… e ad altri 10 mila fascisti o parenti o familiari di fascisti ammazzati a guerra finita). E, indipendentemente dalla parte giusta o sbagliata della storia (questione su cui non ho dubbi…), ci sono stati stupri e torture da ambo le parti. La guerra è sempre sbagliata, da qualsiasi parte si stia… ma a volte bisogna difendere i propri figli, purtroppo. Io son stato davvero fortunato di non essermi mai trovato in tali situazioni!
Quanto poi alle cadute dei regimi in Europa Orientale, ho molto da dire. L’Unione Sovietica mise in atto direttamente repressioni armate in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968; sostenne poi la legge marziale in Polonia nel 1981. In Ungheria ci fu una rivolta armata, che alla fine provocò 30 mila morti; le altre due situazioni furono invece “nonviolente”. Chi ha la mia età, forse ricorderà le parole che i Cecoslovacchi disarmati gridavano ai carristi russi che invadevano le strade affollate: “Hoy kamarade! Kaho jste vy prisli zabit? Svobodu?”, che significa: “Ehi compagno! Chi sei venuto a uccidere? La libertà?”. Indipendentemente dall’età, spero comunque che tutti abbiamo presente il rogo di Jan Palach. Ebbene, nessuna di queste tragedie, armate o meno che fossero, portò alla “liberazione” di quei Paesi. Solo quando la situazione storica cambiò le loro aspirazioni divennero realizzabili.
Quanto all’ Iran… vero: Reza Palhavi se ne andò e arrivarono gli Ayatollah. Un esito, diciamo, non del tutto soddisfacente… almeno per le donne iraniane! Nemmeno la nonviolenza riesce sempre a lottare dalla parte giusta della storia; ma del resto, come potrebbe? L’essere umano è quello che è.
Andrea: Nessuno nega con quanti morti, anche armati, sia avvenuta la liberazione di certi Paesi. Non ho scritto che la nonviolenza sia stata efficace sempre – e, sia chiaro, nessuno potrà neanche scrivere che la violenza sia stata efficace sempre. Piuttosto, ho scritto solo che, mentre del ruolo della lotta armata tutti sono stra-ampiamente informati, di quello delle lotte nonviolente sono disinformati quasi tutti. Quasi tutti – con un “quasi” che in realtà include solo i quattro gatti che ne sono informati. E ne sono informati solo quattro gatti, si badi bene, non perché tutti gli altri siano sciocchi e poco intelligenti bensì perché hanno (abbiamo) studiato (come dico più in particolare nell’ultima parte del mio libricino) su testi redatti da storici che hanno cercato nelle fonti solo quei fatti che confermavano il loro presupposto culturale, cioè che la buona storia va avanti a forza di lotte armate (una ‘violenza culturale’ che gli storici hanno inconsapevolmente subìto e continuano a fare inconsapevolmente subire ai loro lettori e studenti). Non capisco perché citi le repressioni sovietiche in Ungheria etc. che non ho negato; e ho scritto con chiarezza di stare considerando «ovviamente (…) solo alcune fasi storiche, indipendentemente dall’intero processo in cui tali fasi sono inserite». Non mi pare, Massimo, che tu metta in alcun conto, poi, il ruolo che i singoli casi – proprio quello di Jan Palach (citato da te e non da me!) fu uno di questi – ebbero nell’opinione pubblica nazionale e internazionale, compresa l’Unione Sovietica, venendo a costituire una forte pressione sul regime di Mosca. Pensavo che mettere in luce il contributo che la nonviolenza ha dato in conflitti che siamo abituati a pensare (perché ce li hanno fatti studiare così) come esclusivamente armati potesse far comprendere che la storia offre esempi di nonviolenza che per lo più la storiografia non mette a fuoco e pertanto ignora e ho anche offerto un minimo di bibliografia di studiosi che non avvalora le idee dominanti.
Massimo: Nel libro, a questo punto, elenchi una serie di azioni che sarebbero state utili prima della guerra, sintetizzabili nell’evitare di far sentire Putin in pericolo (la “sindrome di Tucidide”, per la quale Sparta attaccò Atene). Trovo questo giusto, giustissimo: chi potrebbe negarlo? Ho già notato che solo la prevenzione può evitare le situazioni più estreme!
Poi passi a una serie di azioni utili a guerra iniziata. Ad esempio, se alcune decine di Paesi non avessero ritirato le loro ambasciate, ma le avessero invece sparse per il territorio ucraino, sarebbe stato problematico per Putin bombardarlo. Mi pongo degli interrogativi: si sarebbero trovati tanti Paesi disposti a schierarsi, rinunciando a qualsiasi bene o vantaggio provenisse loro dalla Russia? Si sarebbe trovato tanto personale diplomatico disposto a fare da possibile scudo umano? E se poi Putin avesse bombardato ugualmente, non ci sarebbe stata quella escalation che invece siamo concordi nel dover evitare? Israele non sta forse colpendo l’UNIFIL in Libano?
Andrea: Se non si fossero trovati «tanti Paesi disposti a schierarsi, rinunciando a qualsiasi bene o vantaggio provenisse loro dalla Russia», vuol dire che, evidentemente, non era solo Putin il problema ma anche chi decideva di non contrastarlo semplicemente per il proprio tornaconto – come non è solo la mafia il problema ma anche coloro che accettano di non rinunciare ai vantaggi che ricavano da essa. Il caso di Unifil, poi, è del tutto diverso. Primo: si tratta di forze armate e dunque non prive della possibilità di difendersi, come sarebbero invece le ambasciate: l’opinione pubblica mondiale non ha alcuna ragione di indignarsi per l’attacco a persone armate. Secondo: soprattutto, Israele di Unifil se ne infischia pienamente – e ha ragione di farlo, come si vede – perché sa che la geopolitica occidentale prevede di tollerare da parte di Israele qualsiasi cosa (cf. fornitura di armi che convive con «condanniamo il fatto che le usiate sui civili»), purché l’unica democratura – pardon, volevo dire democrazia – del Medio Oriente continui a sopravvivere. Così, chi veniva usato adesso usa.
Massimo: A me sembra chiaro che il problema non è solo Putin, né solo Israele. Ma ormai citando le condizioni storiche (e geopolitiche) mi sto ripetendo… Un altro esempio che ventili sarebbe un accordo fra giornalisti occidentali e russi per filmare e raccontare la Verità. A parte il fatto che il concetto stesso di Verità è notoriamente aleatorio, giornalisti russi indipendenti? Che agiscono insieme a colleghi occidentali? Ecco, questo a me sembra assolutamente irrealizzabile.
Andrea: A quanto pare, ciò che ho scritto («Un grande servizio alla causa della pace e, ancor prima, di una verità condivisa […] tra tutti i Paesi in gioco avrebbero reso degli accordi tra giornalisti europei e giornalisti russi per fare, insieme, reportages comuni su quanto accaduto in Ucraina nel corso della guerra») non risulta chiaro. Provo a ridirlo con altre parole: il concetto di verità – assolutamente aleatorio se la verità è perseguita separatamente dalle parti in conflitto (ognuna racconta la sua verità) – perde ogni aleatorietà se, come suggerivo, la verità viene perseguita mediante reportages comuni, dunque di giornalisti di Paesi in conflitto (e anche terzi, ma comunque non stavo organizzando la cosa nei dettagli: proponevo un’idea, generale ma non generica, su cosa si poteva fare) che si portano reciprocamente in giro a vedere e sentire le stesse cose. Infine, che ciò sia, come tu sostieni, «assolutamente irrealizzabile» mi sembra palesemente smentito da quanto abbiamo visto, per esempio, nella trasmissione “Otto e mezzo” del 28.03.2022, quando il giornalista russo Alexej Bobrovsky, collegato da Mosca, ha fatto esattamente la proposta da me ipotizzata a Lilli Gruber (che ha declinato l’invito: si potrà trovare facilmente sul sito di La7 la registrazione di quella puntata). Una proposta simile è stata fatta a Massimo Giletti nel corso della trasmissione “Non è l’arena” del 5 giugno 2022 dalla politica e giornalista Maria Zakharova (anche questa registrazione non è difficile da reperire sul web).
Massimo: Sì, ma qui parliamo di trasmissioni televisive occidentali, e interventi da Mosca inevitabilmente autorizzati. In Russia non si può nemmeno chiamare guerra quella che evidentemente lo è, e il rischio di essere arrestati per “estremismo” è concreto. Poi si sparisce, e a volte si muore “per cause naturali” … E teniamo presente che, secondo le stime occidentali, Putin ha comunque l’appoggio di oltre il 70% della popolazione, più di qualsiasi leader occidentale.
Infine, tu prospetti uno scenario affascinante: «Era possibile mettere in atto un’opposizione nonviolenta schierando ai confini non esercito e carri armati, ma decine di migliaia di civili (donne, uomini, bambini) con satelliti e telecamere puntati su di loro. Riusciamo a immaginare uno scenario che preveda di bombardarli? Personalmente, al massimo, riesco a immaginare i soldati russi e i loro carri armati che si fanno strada a fatica fra costoro». In un primissimo momento la scena mi ha conquistato! Ho ricordato i carri armati russi fra la folla in Cecoslovacchia. Ho rivisto mentalmente il solitario nonviolento di Piazza Tienanmen, con il carro cinese che cercava di scansarlo…Ma, ahimè, dopo il tuo libro c’è stata Gaza, e lì donne e bambini sono stati bombardati, eccome! E blindati e cecchini hanno poi fatto il resto. Satelliti e telecamere, ormai, possono facilmente essere messi a tacere, o addirittura ingannati, da chi ha potere e tecnologia sufficienti; ed il fatto di poter colpire a distanza, senza guardare negli occhi la vittima, elimina qualsiasi scrupolo dettato dell’empatia (di cui pure l’evoluzione ci ha fornito).
Andrea: Come ho già detto, Israele può permettersi tutto, proprio nel senso di “tutto”, perché, al di là delle chiacchiere delle nostre ‘democrazie’, nei fatti esse contano su Israele (e infatti continuano a dargli armi). Inoltre mi sembra che continui a sfuggirti un aspetto centrale: sto parlando di una tecnica nonviolenta, cioè di un’azione programmata e volontaria (appunto come quella dei cecoslovacchi e dei cinesi) e non di civili che si trovano sotto le bombe per necessità. Quanto agli oscuramenti dei satelliti, ecco lì sì che ci può essere un problema; ma si tratta di un problema di ambito tecnologico e non militare: «mi puoi oscurare un satellite, ma posso svilupparne uno più potente o contrastare tecnologicamente il tuo oscuramento».
Massimo: Insomma, tu pensi che sia possibile oscurare satelliti russi e cinesi senza che il danno sia presto riparato? Senza generare rappresaglie? Ma cambiamo pagina. Dopo le micro-soluzioni di conflitti in atto tu esponi delle macro-soluzioni: organizzazioni sovra-nazionali non armate, “Commissioni per la Verità e la Giustizia” ecc., naturalmente riconosciute e rispettate a livello mondiale. Tutto giustissimo, direi, ma verosimilmente non applicabile in tempi ragionevoli… e forse mai.
Andrea: Secondo me, può bastare il tuo «giustissimo». L’applicazione «in tempi ragionevoli» dipende … da quanto prima intendiamo cominciarla. L’aggiunta «e forse mai» mi suggerisce il sospetto di un puro pregiudizio: puro, perché sembra addirittura negare la realtà dal momento che le Commissioni per la Verità e la Giustizia etc. sono già esistite, quando si è voluto farle esistere.
Massimo: Ma certo che esistono, come il tribunale de L’Aia. Ma a che servono se si possono disconoscere? Un’altra sezione del tuo libro è dedicata a prospettare un sistema sociale di mediazioni familiari, penali, scolastiche, ecc. per i conflitti su scala limitata o privata. Molti di questi organismi ci sono già, ne ho fatto parte durante la mia attività lavorativa. Sono giusti e utili, anche se ancora numericamente insufficienti. Possono davvero essere risolutivi, anche nei casi di microcriminalità, ma non credo abbiano un’efficacia reale nel caso della criminalità organizzata. Forse potrebbero prevenirla?
Andrea: Se perfino le istituzioni che consideri «giuste e utili, anche se ancora numericamente insufficienti» diventano per te argomento di dubbio pratico, non resta che arrendersi e tacere. Oppure impegnarsi perché si moltiplichino. Immaginiamo che, per contestare la difesa armata, dicessi: «sì, mi sembra giusta e utile, per quanto numericamente insufficiente; comunque, potrà avere un’efficacia reale di fronte a un’alleanza nemica organizzata?». Un militarista non potrebbe che concludere con la richiesta di un aumento degli armamenti.
Massimo: Vero, ognuno vorrebbe incrementato quello che gli interessa, ed io preferirei di sicuro moltiplicare le mediazioni, cosa che ho cercato di fare nel corso di tutta la mia attività lavorativa. Tu auspichi, soprattutto, informazione ed educazione nonviolenta. Ben vengano, purché siano decise ed ubiquitarie. Non basterà certo esporre la bandiera della pace sugli edifici!
Andrea: Come potrei essere in disaccordo con te? Credo le proposte nonviolente vadano non isolate, ma considerate elementi di un “sistema”.
Massimo: A un certo punto affermi la necessità di sistemi economici più equi sul piano della distribuzione delle ricchezze e della sostenibilità ambientale. È evidente, per qualsiasi essere umano, pensante e sincero, che il problema sta tutto qui! Solo con la realizzazione di simili sistemi sarà possibile prevenire tutta la violenza che sarà ragionevolmente possibile evitare! È ovvio che anche questo per ora fa parte del mondo delle idee, ma io credo che sia in questo senso che dobbiamo concentrarci, tutto il resto sono… “contraddizioni secondarie”, come avrebbe detto qualcuno, tempo fa.
Andrea: Non so se la giustizia sociale faccia parte solo del mondo delle idee, ma – come ho cercato di mostrare – per la nonviolenza non si tratta solo di mondo delle idee. Comunque, devo arguire che, in ogni caso, basterà distribuire equamente la ricchezza e avviare la sostenibilità ecologica e magicamente, contemporaneamente, la cultura si trasformerà (senza che ci sia nemmeno “dialettica”, per usare il lessico del vecchio Marx, tra “struttura” e “sovrastruttura”)? In questa ipotesi, mi pare che la questione sia più complessa e la teoria della nonviolenza vuole sfidare questa complessità che include, ma trascende, il piano meramente socio-economico.
Massimo: Provo a sintetizzare le conclusioni personali cui sono pervenuto sino ad ora. Mi sembra superfluo sottolineare che chi vuole praticare la nonviolenza, indipendentemente da costi e sofferenze (propri, mai altrui!), anche sapendo che potrà non avere successo, fa una scelta personale, non necessariamente religiosa, ma certamente fideistica. Come tutte le scelte di questo tipo è assolutamente rispettabile, ma non necessariamente condivisibile in ogni situazione: le variabili del “qui e ora” vanno, secondo me, considerate.
Visto che è la nostra corteccia che tiene a bada la nostra aggressività biologica, e che la corteccia risente di ambiente (anche economico), educazione e cultura, questi elementi devono essere considerati fondamentali, almeno in tutti gli Stati che li permettano… anche se l’efficacia sarà reale quando saranno ubiquitari e condivisi: leggendo il romanzo di Yahya Al-Sinwar (sì, proprio lui) The Torn and the Carnation, che Amazon si rifiuta di vendere, si può arrivare a capire come vivere una vita in certe condizioni, che definire distopiche è un bonario eufemismo, possa arrivare a storpiare una mente.
E, visto che parliamo di fede e di controllo degli istinti, da protestante chiudo con un poco di sano pessimismo antropologico, citando Paolo che, in Romani 7, 18-20, usando le parole della sua fede, aveva già anticipato qualche concetto di neuroscienze: «Difatti, io so che in me, vale a dire nella mia carne, non abita alcun bene, poiché in me si trova il volere, ma non il modo di compiere il bene. Perché il bene che voglio, non lo faccio, ma il male che non voglio, quello faccio. Ora, se ciò che non voglio è quello che faccio, non sono più io che lo compio, ma è il peccato che abita in me».
Andrea: Forse resterebbe da chiarire ulteriormente, dal punto di vista neuroscientifico, la questione iniziale del ruolo della corteccia cerebrale e del rapporto aggressività /violenza. Mi limito, per arrivare anch’io ad una qualche conclusione sia pur provvisoria, a osservare che nella mia prospettiva la dimensione ‘fideistica’ e/o ‘religiosa’ non è una condizione necessaria della nonviolenza (anche se, ovviamente, va rispettata nei casi dei nonviolenti che la vivano). Questo dialogo mi ha aiutato a capire che in molti passaggi cruciali del mio testo sono stato, probabilmente, meno comprensibile di quanto sperassi. Ciò mi sarà di stimolo per il futuro e, intanto, ti ringrazio del tempo che mi hai dedicato.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Massimo Paterni, nato a Firenze, dove si è laureato in Medicina, occupandosi poi di Dipendenze e di Disagio Giovanile, sia dal lato clinico che da quello dell’insegnamento, è stato membro del Comitato Regionale di Coordinamento Dipendenze; per la provincia di Siena è stato responsabile della Sezione Dipendenze, membro del Consiglio dei Sanitari, membro del Comitato Etico. Oltre a numerosi contributi per riviste scientifiche, ha pubblicato in volume monografie su disegnatori: Magnus (Glittering Images, 1984); Crepax (Glittering Images, 1986); testi scientifici: Introduzione alla Neuropsichiatria Infantile (Istituto Cavour, 1992); L’incontro con L’Altro – Per un’esistenza libera dalle dipendenze (Promozioni Culturali, 1993); testi di narrativa per giovani adulti: I libri di Tartessia (Tipheret, 2012). Una trilogia intitolata Come se Dio ci fosse è in corso di stampa presso Diogene Multimedia.
Andrea Cozzo, docente di Lingua e letteratura greca, presso l’Università di Palermo, dove, dall’a.a. 2001-02 al 2008-2009, ha tenuto anche il “Laboratorio di teoria e pratica della nonviolenza”. Ha tenuto seminari e corsi sulla nonviolenza in scuole, associazioni e centri sociali, nonché per le Forze dell’ordine. Si occupa di storia, teoria e pratica della mediazione e gestione dei conflitti. Sulla storia della mediazione e della nonviolenza nella Grecia antica (che costituisce il suo specifico ambito di lavoro accademico) ha pubblicato i volumi: «Nel mezzo». Microfisica della mediazione nel mondo greco antico (Pisa University Press, 2014); Riso e sorriso e altri saggi sulla nonviolenza nella Grecia antica, (Edizioni Mimesis, 2018). Sulla teoria e la pratica della nonviolenza e della mediazione in ambito odierno ha pubblicato i volumi: Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa (Edizioni Mimesis 2004); Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione. Manuale di formazione per le Forze dell’ordine (Gandhi Edizioni 2007).
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