di Danilo De Marco
«Ho voluto insomma riunire alcuni elementi grezzi per una leggenda degli uomini oscuri, a partire dai discorsi che nella disgrazia o nella rabbia essi scambiano con il potere. “Leggenda” perché vi si produce, come in tutte le leggende, un certo equivoco tra il fittizio e il reale. Che qui ha luogo per ragioni opposte. Il leggendario, quale che sia il suo nucleo di realtà, non è alla fine nient’altro se non la somma di quello che se ne dice. È indifferente all’esistenza o all’inesistenza di colui del quale trasmettiamo la gloria. Se questi è esistito, la leggenda lo ricopre di tanti prodigi, lo abbellisce di tante impossibilità che si finisce quasi per credere che egli non sia mai realmente vissuto. Se invece egli è puramente immaginario, la leggenda insiste nel riferire su di lui tanti racconti da fargli assumere lo spessore storico di qualcuno che è veramente esistito» (Michel Foucault La vita degli uomini infami, Il Mulino 2009).
Posso dire che fin dalla mia prima gioventù, 7 o 8 anni, ho avuto la fortuna di essere ‘stato a bottega’ da un uomo – esistito o immaginario – tuttora mio implacabile giudice e prezioso angelo custode, amico di mio padre che lo andava a trovare prima a Udine e poi a Tarvisio. Questi incontri hanno dato il via ad un intreccio fatale con tutta la mia esistenza, trasmettendomi la passione per l’arte e la politica e una forte, alle volte compulsiva ansia, per un mondo più giusto.
Sergio Cocetta da giovanissimo si arruola da solo, salendo in montagna. Da partigiano diventa commissario politico. Si dà il nome clandestino e di combattente El Cid Campeador, che riduce subito a Cid sapendo che in una guerra di guerriglia bisogna essere rapidi.
A guerra finita, per quelle vicende che non vanno a genio a poco ben disposte autorità civili e militari, migra, o meglio fugge, o meglio ancora ripara a Praga. Ma a Praga, dove assume il nome di Andrea Calano, si accorge che qualcosa non va e il disincanto si fa presto sentire…
«lottavamo contro la tenebra e le tenebre invece si ripresentavano…. Il pudore sull’orlo della deriva, consente all’angoscia di sprigionare i suoi artigli devastanti…ero accusato di non capire la realtà. Di qui tutte le deviazioni erano possibili. La mia fragilità era un effetto e anche una causa di quella incapacità tanto foriera di metafisici svolazzi della mia mente bacata. Le apprensioni si moltiplicano aiutate dal vento della disperazione incuneandosi nella stretta valle della speranza e delle certezze. Il magma vitale, che prima spandeva raggiante il calore, ora si ritrae come nelle crepe di una landa dissecata» [1].
Alla fine degli anni ’50, dopo svariate, dure esperienze politiche e di lavoro, messo all’indice – viene accolto dagli zingari ruteni, impara a conoscere la pietra e diventa scalpellino – lascia la Cecoslovacchia, rientra in Italia e si fa partigiano a vita. Sorvegliatissimo.
Volto di pietra romanica a forte struttura compositiva, mani eleganti e robuste, voce modulata da incantatore di serpenti, una proprietà di linguaggio da ermeneuta, Cid è cosciente di quanto sia importante la parola, che definisce un antico attrezzo. Nonostante la dura esperienza praghese, non abbandona la politica e si avvia sul fare dell’arte. Da subito sceglie la consapevolezza e si mette in dialogo con tutte le forme che gli indicano una possibile libertà di vita e pensiero. Più simile ad un uomo in rivolta “ragionevolmente colpevole” alla Camus: «La ribellione più elementare garantisce l’essere, è il movimento stesso della vita, e il suo grido, il suo fare più puro, fanno sì che sorga un nuovo essere…per questo scelgo la libertà. Perché anche se la giustizia non è compiuta, la libertà mantiene un potere di protesta contro l’ingiustizia e mantiene aperta la possibilità di esprimersi». Un pensiero che lo allontana dall’assolutismo di Jean-Paul Sartre.
Concepisce la sua vita dentro una sorta di rivoluzione permanente, di perpetua azione creatrice che tenda a dare senso alla vita stessa. Modella bambole, disegna, lavora l’argilla, scolpisce il legno, scalpella la pietra…e con la sua bicicletta raggiunge i paesi attorno a Udine per la militanza politica. Con un linguaggio prezioso e profondamente umano, durante quegli incontri, sonda i percorsi della vita, dell’impegno nel quotidiano, dei caratteri e dell’osservazione della natura umana. La politica come educazione, come forma d’arte e partecipata e non condizione obbligata, coercitiva e interessata…la politica come creazione.
Sergio ha capito che la libertà non è uno status che si raggiunge una volta per tutte e che l’unico modo di difenderla è quello di potenziare la creatività aprendo le finestre, senza temere, anche alle ombre del dubbio.
«Due, le presunte verità. Da molto tempo pensate, sentite, percepite. Due verità parallele. E compenetrate come in una fusione felice. L’introduzione è semplice: sulla origine dei fenomeni, sulle loro radici primitive, le prime tracce della visibilità, le forme che più tardi si riveleranno nel fulgore del loro massimo sviluppo. Nessuna meraviglia, dunque, né sconcerto per la loro apparizione improvvisa. Le origini del mio lavoro, basato sull’unione delle mani con la mente, e la sua iniziazione alla vita di coppia incentrata sulla fruizione del corpo fisicamente intesa. E nascono così le contraddizioni insanabili delle quali noi viviamo le ultime manifestazioni perverse senza averne coscienza a causa della contiguità dei fenomeni e l’intreccio spesso diabolico che avvolge la nostra vicenda».
Così facendo Sergio pratica quell’azione culturale, quel legame tra politica e cultura con la C maiuscola… già indicata da Gramsci nei Quaderni dal carcere. Prassi oggi largamente abbandonata. Ed è proprio da questo senso, da questo significato del politico come atto artistico e colturale...di semina… che riparte, dopo la lotta partigiana e il suo esilio praghese.
Per il Cid, «una forte immaginazione genera l’evento. L’arte consiste nel liberare la vita…e l’artista libera una vita potente, una vita più che personale…è una liberazione della vita». Arte e politica sono per Sergio argilla informe capace di sentire e trasformarsi, di capire la realtà, strumento di testimonianza e trasmissione. Arte e politica sono «un’esperienza estetica dell’uomo, fattore fondamentale e collettivo, sociale dell’evoluzione umana».
Scelta insistentemente arrischiata e non autocompiacimento, né tantomeno ricerca di denaro e di notorietà. «Il vero successo sta nel superare la paura di non avere successo». Tanto che si allontana ben presto, fin dagli inizi degli anni sessanta, dagli artisti della cerchia udinese, alcuni partigiani come lui, dove stanno germogliando…«l’occhio guercio della convenienza e i miserabili stratagemmi dell’egoismo».
Ho raccolto i suoi diari. O per lo meno quello che ne è rimasto in quel suo continuo trasferirsi, nonostante lavori, da un luogo all’altro senza domicilio stabile. Non me li ha lasciati lui in eredità. Nei nostri lunghi incontri Cid mi ha più volte fatto giurare che mai avrei detto di lui. Che mai avrei raccontato la sua storia. Promessa che, dopo la sua morte avvenuta nel 2014, ho deliberatamente violato sapendo benissimo che disobbedire non vuol dire tradire. Tutt’altro. Sono andato a cercarli dispersi negli scatoloni tra cantine e vecchie case abbandonate di Tarvisio.
Quaderni mangiucchiati dai topi; pagine con l’inchiostro slavato dall’umidità e dall’acqua, altre bruciacchiate; aforismi a centinaia, sparsi su foglietti di tutti i tipi; pagine e pagine di calendari dove sul retro distende la sua calligrafia minuta in testi tutti diligentemente datati. Elenchi delle qualità delle pietre, dei marmi, del legno, dei minerali e dei mordenti…un elenco tra gli altri dal titolo: “La tipologia degli amori”. Minuziosissimi resoconti delle spese e dei materiali acquistati in quei primissimi non luoghi (siamo tra gli anni sessanta e settanta) che già individua, in anticipo sui tempi: «dove tutto è stato fatto perché il cliente venga assorbito totalmente in una monotona e irreale solitudine senza saper più dove si è….Udine o Calcutta?».
Un impressionante elenco di nomi dei filosofi presocratici accanto a citazioni in greco. Quaderni sdruciti dal tempo, dove interviene sulle parole e sui richiami con dei marcatori colorati, che diventano minute opere grafiche. Appunti e ancora appunti volanti. Testi sconvolgenti per lucidità, tutti o quasi precisamente datati…giorno, mese, anno, che dicono di incontri, di lavoro, di viaggi. Ma se ad una prima superficiale occhiata sembrano accadimenti normali e abitudinari, una lettura attenta e meticolosa rivela l’immagine di un profondo indagatore della materia dell’animo umano, con le sue innocenze e bellezze, ma anche degli sfregi che l’uomo sa fare all’uomo. Foglio dopo foglio ne esce un trattato sul quotidiano. Una letteratura del fatto…di un “fatto sociale totale”, come lo concepiva Lévi-Strauss. Tra le righe si intuisce anche lo scontro tra ideologie, materiale di cui è fatto il mondo, l’hegeliano Weltgeist e, certamente quasi da subito, la chiara visione della sconfitta partigiana.
Nello sfogliare questi ‘resti’ di vita che sono i suoi appunti e che rimangono il suo testamento scritto, lui grande amante della trasmissione orale, ci si imbatte in preveggenti intuizioni sulla perdita morale e la caduta nella volgarità del dire e del fare… «la parola è come la mano, se non sa dire distrugge..», la furbizia opaca degli arroganti, il totalitarismo serpeggiante in quelle che definisce «innocenze maligne…il male non è legato alle origini è una nostra scelta»…disegnando caratteristiche umane più che attuali. Ne percepisce già l’inaccettabile che si ripresenta:
«L’aggressività è sempre accompagnata da infantile cinismo e da una specie di idiotismo. La platealità nasconde sempre la brutalità più smaccata. Anche il formalismo esteriore ne è la spia palmare e infallibile. Un mostruoso concentrato di certezze stupide. Vuole essere astuto. È solo abbietto, con un’opacità percettiva e indifferenza emozionale. La sua è una cattiveria di impotenza che ama il potente. Era costretto a ricorrere alle misure amministrative repressive. Non aveva altro nella carcassa».
A Tarvisio, prima anni settanta, diventa consigliere comunale e capogruppo indipendente del PCI. Si mormora ancora dei suoi interventi: il grande entusiasmo con cui parla della condizione umana, del rispetto della natura e del mondo in tutte le sue forme, convoglia nella sala comunale sempre zeppa, uomini e donne di tutte le correnti politiche. Con una fiammata inaspettata, sconcertando tutti, anche quelli della sua parte politica impegnati nella lotta di classe operaia, pone l’urgenza del problema ambientale.
Quando lo accompagnavo nei boschi, quelli da lui preferiti e che salgono verso Cave del Predil, tagliati dal Rio Freddo, alla ricerca della preziosa resina da lui usata non ricordo più per quali impieghi nel suo fare artistico, mentre mi parlava lanciava il suo grosso naso adunco cercando di individuare l’abete ferito che portava quello che lui chiamava il sangue degli alberi. Mentre ne raccoglieva il siero, dialogava con loro, accarezzandoli e ringraziandoli. Simultaneamente i suoi occhi, quegli indimenticabili occhi incantati d’azzurro, adocchiavano le grandi pietre sputate dalla montagna e sedute sbilenche e frementi nell’acqua gelata per individuarne qualcuna da avvicinare «..la pietra non è dura, basta seguire i suoi interstizi, le vene che lei ha già con sé…e lo scalpellino ha il compito di estrarne la forma che già contiene. Un po’ come con gli esseri umani e la parola… quando li si incontra per la prima volta si cerca, si scava…alle volte non si trova».
Nel frattempo mi diceva di suoi amici che un giorno mi avrebbe fatto incontrare e conoscere. Del loro pensiero e impegno…e snocciolava nomi per me allora bizzarri: Anassagora, Talete di Mileto, Eraclito, Democrito, Empedocle, Parmenide, Epicuro… Quei suoi amici li incontro sì, qualche anno dopo, ma sui libri che casualmente o no, mi passano tra le mani. Cid pratica una libera disseminazione della sua esistenza sapendo bene quanto siano pericolose coerenza ed etica prese come utopia ultima. Anche per questo suo insistente stare al mondo si ritrova costantemente in una condizione limite: «L’uomo si fa persona: si fa, non è; si fa vero con le scelte più difficili, tra le più faticose, le meno protette e avendo per fondamento l’etica del cuore. Un cuore vicino e una mente lontana».
Se da un lato riesce ad estrarre dalla realtà del quotidiano l’essenza delle psicologie e del comportamento umano, dall’altro questa pratica dell’esistere, dello sperimentare senza tregua, diventa un vero e proprio corpo a corpo con la vita, anche pratico…
«piove forte e all’interno i crolli si sono estesi a tutte le stanze. Per sostenere i soffitti hanno puntellato anche nella stanza dei libri. Il recupero dei bauli sempre più complicato. Una visione brutale di un segmento della mia condizione…» che si manifesta con tutta la sua spietatezza …il tentativo di esorcizzare la realtà insostenibile attraverso l’attesa, il rinviare continuamente lo scontro con la brutalità nella paura di perdere l’entusiasmo e la poesia, le attese sempre più pallide e pencolanti e snervate, il tempo sprecato che inacidiva i giorni e le ore, mi stringevano il cuore nella morsa di un dolore fisico preannunciando il collasso dell’organismo».
Ma i suoi incontri con giovani – i più grandi hanno oggi circa la mia età – continuano. Quante notti passate assieme in quelle sue costantemente provvisorie, a volte anche anguste dimore (gli ultimi anni li passa sulla strada, di notte nella saletta d’aspetto della stazione di Gemona del Friuli; poi grazie ad un sindaco, in uno scantinato di un prefabbricato al lume delle candele, costruito dopo il terremoto del 1976 a Bordano del Friuli, pagandone regolarmente il canone) a parlare di quel talento che non si possiede se non si conquista giorno dopo giorno…e delle risorse umane. Troppe volte sprecate.
Paolo Lollo, che è uno di quei ragazzi tarvisiani di allora e oggi psicanalista, filosofo, segretario generale d’Insistance arte psicanalisi e politica, ricercatore associato all’Università Paris 13, gli invia una lettera che ritrovo tra le sue carte e miracolosamente arrivatagli, trent’anni dopo, da Parigi: «… non so come dirti, ma spero che tu ti sia accorto che sei stato per me un Maestro di vita e di pensiero…perché hai dato una direzione e un movimento alla mia vita durante i primi anni della giovinezza…».
Sempre Lollo ne schizza oggi un ritratto emblematico: «L’arte, per Sergio è ragione di essere ‘nel mondo’, è azione che trasforma lo spazio interiore in un rinnovato paesaggio della storia. L’arte è ciò che permette all’uomo di divenire, è articolazione del corpo che riattiva antiche forze silenti. Sono forze che trascendono la volontà e il pensiero e che convergono tutte nella mano dell’artista, dello scultore, dello scrittore. La mano di Sergio è forte, vibrante, magnetica. Essa è un luogo di pensamento che riflette mentre agisce, incide mentre modella, accarezza mentre scolpisce. Il pensiero di Sergio è scultura. È una parola che incide sulla realtà e che nessuna retorica della comunicazione potrà mai cancellare. Per il partigiano Cid, l’arte è politica e la politica non può che essere arte della parola, del simbolico. Nel gesto dello Scultore s’iscrive la preistoria dell’umanità, in quello dello scrittore la storia».
Il grande simbolista russo Ivanov scriveva in Po zvezdam (“Seguendo le stelle”) che «c’è una reciprocità tra arte e vita, e la vita in cambio dei suoi valori esige ugualmente altro dall’arte… e la forza di resistenza necessaria per questa lotta incessante si chiama talento». Una vicenda umana quella di Sergio, Cid, Andrea, che coniuga vivendola, l’impermanenza, «la terra e la vita non hanno bisogno di noi per imporre i suoi ordini, inventare forme, cambiare direzione». Un’avventura accompagnata da una vivace ironia; «l’ironia è interrogazione, è spazio tolto al cinismo» e ci insegna a guardare il mondo e a stupirsene. Vicenda che non è stata un destino privato, ma il volto del suo tempo…che è quasi anche il nostro tempo. Un tempo che si disperde, dall’iniziale forte tensione e creatività sociale, nata lassù sulle montagne, per poi cristallizzarsi fin troppo presto in un soffocamento della storia. In una Resistenza tradita.
Ed è qui che Sergio incarna nel suo comportamento quotidiano, in quella sua composizione artistica nel dire e nel fare, quella figura dell’uomo capace di prendere coscienza e misura della assurdità della vita così come Albert Camus la affronta nel suo Mito di Sisifo. E come il Sisifo di Camus alla ricerca incessante di un punto fisso da cui partire, con coraggio e disperazione, per portare il suo fardello fino in cima alla montagna, per poi, felice, ridiscendere a cercarne uno ulteriore.
Tra l’immanente e il metafisico, arte e politica, arte e vita per Sergio si fanno un tutt’uno. Cid guarda dentro di sé e si accorge della follia del mondo, ma non si arrende e cerca di abbozzare un’idea e un comportamento, per lasciarci in eredità quell’opera d’arte che è la più complessa, la più ardua e simbolica tra tutte: apprendere a guardare il mondo per stupirsene. E farne di questo la più simbolica delle opere d’arte. Una costellazione familiare questa del Cid, che guarda oltre alla famiglia ristretta, o a nuclei minimi. Una costellazione che riguarda tutta la famiglia dell’uomo e l’ambiente in cui è accolta. Per questo il Cid non ha mai dismesso il suo sacco da viaggio, imponendosi di rimanere partigiano a vita. Una lezione di coraggio, generosità, etica e umiltà morale che pare annichilita in questo tempo dominato da guerrafondai e da uno sfrenato, ignorante e autolesionista egoismo collettivo.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] Il corsivo nel testo segnala le citazioni dai diari del Cid.
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Danilo De Marco, fotografo e giornalista indipendente da ormai più di 25 anni, ha collaborato con i più importanti quotidiani, settimanali e mensili italiani: dal Corriere della Sera alla Repubblica, dall’Unità al Manifesto, Internazionale, Avvenire, Carta ecc…In Francia con Le Monde, Le Monde Diplomatique, Nouvelle Observator, Lire ecc…In Austria e Germania con Di Press, Süddeutsche ecc…In Messico La Jornada. Ha camminato mezzo mondo: dal Tibet al Messico, dalle montagne dei Kurdi in Turchia e Iraq a quelle degli U’wa in Colombia, fino alle Ande dell’Ecuador. Dalla valle del Narmada in India ai tamil dello Sri Lanka, dai campesinos della Bolivia al Brasile dei Sem Terra, dalle foreste del Congo a quelle dell’Uganda: e tanto altro. Molte esposizioni fotografiche, i libri, che raccontano soprattutto le R/Esistenze attraverso il mondo dei popoli ingiustificatamente sottomessi alla legge del più forte.
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