di Tiziana Sparacino
«Mi sono imbattuta in un figlio di Dio, camminava lungo la strada. Gli ho domandato dove stesse andando e mi ha risposto: “vado alla fattoria di Yasgur, vado ad unirmi ad una band rock’n’roll. Pianterò una tenda nei campi per tentare di liberare la mia anima”». Cantava così Joni Mitchell nel 1969.
Con queste foto voglio portarvi nel magico mondo di Woodstock e fermare il tempo al 1969, quando nella più grande rivoluzione musicale cantautori del calibro di Joan Baez, Bob Dylan, il gruppo Credence Clearwater Revival, Jams Japlin, Jefferson Airplaine, Jimi Hendrix cantavano l’inno alla libertà, ai diritti umani, contro ogni forma di violenza e contro la guerra.
Sono passati più di cinquanta anni e oggi si è ancora legati al “pregiudizio”, alle vuote apparenze, alla servile soggezione alle forme materiali e simboliche del potere.
Voglio allora accompagnarvi a Londra, così come Catania, New York, Roma, dove pacificamente si sfila contro la globalizzazione, contro lo smog, contro la guerra, contro le differenze di genere, per riportarvi al mitico 1969, all’apice della cultura hippy, che aspirava a costruire un mondo basato sui valori della pace, dell’amore e della libertà. Corsi e ricorsi storici!
Ovunque ci sia una comunità di esseri umani, lì c’è vita che scorre. E nel suo fluire la vita si compone di diversità. In questo mondo in cui la globalizzazione dovrebbe rappresentare apertura e confronto, rompere gli argini delle differenze, oggi si è invece portati a innalzare muri insormontabili, ed è ancora necessario scendere in piazza per affermare un diritto dovuto.
E allora cosa ci resta oggi di questa ribellione, per lo più interiore? Ci resta solo la libertà di esprimerla, pensando per un attimo anche ai Paesi in cui questo diritto è negato.
E allora la strada, la piazza, si trasforma in Vita, unita a speranza, fatica, liberazione, dove tutto diventa confronto, incontro, “corpo a corpo” con l’altro. Nella piazza ci si spoglia dei vestiti come dei pregiudizi, delle convenzioni, delle regole. Nella piazza si trasgredisce, si manifesta, si cerca e si trova l’ispirazione, si esibiscono corpi e pensieri, si scrivono i pensieri sui corpi. Nella piazza ci si abbraccia, si ama, si sogna, si canta e si canzona.
«….dove tutto ha un prezzo,/ sarà il tuo nuovo mondo preferito/ Puoi essere una star del cinema/ e ottenere tutto quello che vuoi./ Basta mettere un po’ di plastica sul tuo viso./ Questo mondo è un circo, vedi solo la superficie…/ Non puoi vedere che stanno fingendo, non saranno mai nudi./ Basta riempire il tuo drink con un gin tonic, questo è il sogno americano,/ quindi sorseggia i pettegolezzi, bevi fino a soffocare/ sorseggia i pettegolezzi, bruciati la gola./ Non sei iconico, sei proprio come tutti loro» (Gossip, Maneskin).
La piazza gremita di uomini e donne spontaneamente radunati invita a liberarci dal perbenismo che ci soffoca come un nodo scorsoio, dalle leggi del costume e della morale, dalle angustie del conformismo e dell’omologazione. Nella piazza insieme agli altri, in armonia con gli altri, si gioca, si danza, si scherza. Un moto di energia che sfida la vita. La vita nuda.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Tiziana Sparacino, nel 1990 si laurea in Medicina e Chirurgia a Catania, conseguendo nel 1995 un Dottorato di Ricerca e nel 1998 la specializzazione in Chirurgia Generale. Accanto alla passione per la medicina, coltiva anche quella per l’architettura e nel 2009 si laurea a Enna in “Scienze dell’Architettura”. Iscritta a “medici volontari all’estero”, presta servizio come volontaria soprattutto in Africa e Brasile. Uno di questi viaggi la porta nel Sahara occidentale, dove trascorre un mese nel deserto al confine tra Mali, Mauritania e Marocco, seguendo l’esodo del Popolo Saharawi. Da questa esperienza trae spunto per la sua prima mostra personale, dal titolo “La mia Africa”, curata dall’AFC di Catania e il patrocinio della FIAF nel 1993. Nel 1996 propone, sempre su circuito FIAF, con l’ausilio dell’AFC di Catania, una seconda mostra personale dal titolo “Canguro crossing”, scatti fotografici eseguiti in Australia, attraverso i deserti e in mezzo agli aborigeni. Segue nel 2015 una mostra personale dal titolo “Silenzi”, che, traendo spunto dal silenzio del deserto africano, indaga il silenzio interiore, fatto di solitudine, di omertà, di compromessi, di ingiustizie. Ha partecipato a numerose mostre collettive e ha ricevuto non pochi riconoscimenti per il suo lavoro.
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