Nel febbraio 2016, esattamente un anno prima della sua scomparsa, l’etnologa Clara Gallini diede alle stampe quello che sarebbe divenuto il suo ultimo libro, Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia. In quest’opera, l’espediente narrativo del ricordo del proprio passato lungo le vicende storiche che attraversarono la storia d’Italia dalla Seconda guerra mondiale in poi, fu utilizzato dall’autrice come strumento per la realizzazione di un esperimento di auto-etnografia, volta a indagare sé stessa negli anni della malattia. In questo percorso di osservazione interiore, condotto bilanciando magistralmente l’analisi di esperienze dolorose e vicissitudini personali con la leggerezza e l’ironia che ne caratterizzò sempre il suo stare al mondo, Gallini diede una straordinaria testimonianza di quanto fosse lucidamente consapevole che il proprio viaggio esistenziale stesse ormai volgendo al termine.
Il tema del viaggio finale, preludio al fine-vita, è oggi riproposto, sotto una veste del tutto personale e differente rispetto a quella appena accennata, da Stefano Montes, con il suo e-book Vivere e morire. Una rapsodia etnografica, edito da Il Sileno Edizioni (2024), dal cui sito web l’opera è liberamente scaricabile. L’esperienza di un viaggio in treno da Catania, dove ha appena partecipato a un seminario universitario sull’interdipendenza tra umano e non-umano, e Palermo, dove l’antropologo vive e insegna e dove, al suo arrivo, riuscirà a dare l’ultimo saluto allo zio morente, rappresenta l’occasione per compiere un’etnografia del sé. Tale riflessione attorno al senso della vita e della morte diverrà un pretesto per realizzare un’analisi di senso sull’epistemologia etnoantropologica. L’opera, dunque, si struttura come una sorta di blocco di appunti, trascritti dall’autore nel corso del proprio viaggio in treno e nelle ore immediatamente successive al proprio arrivo a destinazione, all’interno del quale sono riportate le proprie considerazioni attorno al tema della morte e a questioni teoriche e di metodo riguardanti la postura dell’etnografo.
L’evento luttuoso, dunque, si trasforma nell’elemento di partenza per l’elaborazione tanto di un’etnografia del sé quanto di un momento di autoriflessione su alcuni principi fondanti la pratica antropologica. La morte, rito di passaggio per antonomasia dell’esperienza umana, diviene così per Montes il cardine attorno al quale dipanare la stesura della propria rapsodia etnografica [1], adottando un approccio che identifichi il proprio oggetto della ricerca come “fatto sociale totale”. Del resto, la fortunata locuzione di “fatto sociale totale” coniata da Marcel Mauss (1923-1924) può appropriatamente essere applicata all’evento-morte. Esattamente un secolo fa, lo studioso francese introdusse tale concetto per riferirsi a quei fenomeni culturali che, con il loro verificarsi, siano in grado di determinare ripercussioni in vari ambiti della vita sociale: dalla sfera economica a quella affettiva, dal campo religioso a quello magico, unendo aspetti pratici ad altri di natura simbolica. È facile comprendere, allora, come anche la morte possa essere considerata come fatto sociale totale, potenzialmente in grado di generare quello “scandalo” alla base di conseguenze psicologiche ed economiche, così come di originare pratiche di natura magico-religiosa, oltre che un’infinità di effetti relazionali.
Lo studio della morte, in tal senso, offre la possibilità di approcciarvisi attraverso una molteplicità di «punti di vista: iconografico, rituale, letterario, teatrale, architettonico, filosofico» (Thomas 2006: 18). E d’altronde, un’ipotetica bibliografia sulla morte sarebbe praticamente sterminata, per la curiosità che, a tutti i livelli, questo fenomeno biologico – ma con rilevanti ripercussioni culturali – ha sempre suscitato, sollecitando riflessioni finalizzate a dare senso a un evento in apparenza incomprensibile. Così facendo, tuttavia, si è determinata quella «presenza ossessiva della morte» che, secondo il filosofo Edgar Morin, induce una vera e propria incapacità di saper porsi tanto dinnanzi alla decomposizione del corpo umano quanto di fronte al dolore durante il funerale o, più in generale, all’ineluttabile presa d’atto della «perdita dell’individualità» (Morin 2014: 33-36). Non è un caso, del resto, che «la morte non si nomina», sebbene vi sia la più assoluta consapevolezza circa la sua inevitabilità (de Certeau 1979: 37). D’altronde, per tutto il Seicento e per oltre metà del secolo successivo, persino la scienza ufficiale – con in testa proprio i medici – diede per buona la teoria in base alla quale il cadavere di una persona malata fosse in grado di conservare la malattia e, di conseguenza, il suo potere di contagio.
All’interno del suo saggio, Stefano Montes non limita il proprio sguardo verso l’oggetto esclusivo rappresentato dal fenomeno-morte, ma compie un esercizio ben più complesso, proponendo un’articolata riflessione «sul morire come processo in divenire riguardante un parente caro» (Montes 2024: 13). Quindi, non la morte come rappresentazione, alla stregua degli illustri precedenti caratterizzanti la letteratura etnoantropologica, Hertz e van Gennep su tutti, quanto piuttosto un’analisi dei processi cognitivi e semiotici in grado di svilupparsi nell’approssimarsi – in questo caso consapevole – dell’evento luttuoso. Nello specifico, la figura dell’autore pare posizionarsi in quella zona di liminalità in grado di muoversi, alternativamente, al di qua e al di là di una insidiosissima soglia esistenziale, cognitiva ed affettiva. Proprio in virtù di questa condizione di sospensione tra diversificati ruoli sociali, in più circostanze, all’interno del testo, notiamo l’autore rispecchiare la propria condizione all’approccio alla morte tipico dei kwakiutl, popolazione nativa presente nei territori della Columbia Britannica, resi celebri dalle ricerche condotte a fine Ottocento dall’etnologo Franz Boas e successivamente oggetto, tra gli altri, degli studi di Ruth Benedict, Stanley Walens ed Eric R. Wolf:
«Con la mente vado ai kwakiutl, al loro modo di concepire il mondo, la vita e la morte, attraverso le metafore della bocca e dello stomaco. […]. Sono noti in ambito antropologico perché, tra le altre cose, hanno un rapporto particolare con il salmone. Nella loro particolare concezione, ogni volta che un kwakiutl muore, lo spirito migra in un salmone; a sua volta, quando un kwakiutl mangia un salmone, ne libera lo spirito che va a reincarnarsi in un neonato. Nella loro cosmogonia, vivere e morire, festa e funerali, sono elementi interdipendenti: sono visti in un ciclo continuo, socialmente ininterrotto e solidale. Ne risulta che gli esseri umani e non-umani non sono tenuti in conto separatamente, ma vengono considerati membri effettivi di società parallele in cui vita e morte, feste e funerali, si richiamano e si confondono scambiandosi le parti» (Ivi:17).
Più volte, così, all’interno di Vivere e morire, il mondo kwakiutl è oggetto di richiami, come quando Montes, addolorato per l’inevitabile e imminente destino verso cui lo zio sta indirizzandosi, arriva a desiderare – in quel momento – di appartenere a quella dimensione culturale, in modo da poter confidare sulla reincarnazione:
«Io vorrei, per mia parte, essere un kwakiutl. Vorrei vedere tutti gli esseri in relazione, tra loro, gli uni con gli altri: una relazione che consente di pensare una continuità tra la vita e la morte attraverso la reincarnazione. Soffrirei meno, così, per il trapasso di una persona cara. Ma non lo sono. Non sono un kwakiutl. Non riesco a spogliarmi del mio punto di vista culturalmente situato. Non riesco a sfuggire alla mia cultura» (Ivi: 32).
L’impossibilità, per l’antropologo, di astrarsi dal contesto culturale di appartenenza, per osservare l’oggetto delle proprie ricerche in maniera del tutto asettica e distaccata è, in questo caso, opportunamente richiamata e riaffermata. Anche quando lo sguardo è rivolto su sé stessi e non sul mondo esterno, bisognerà tenere in considerazione le influenze esercitate dalla propria cultura e avere la consapevolezza, dunque, che un’analisi del tutto scevra da condizionamenti sia pressoché impossibile da realizzare. Ma non solo: tale esercizio ermeneutico, dotato di una complessità estrema e di un “fattore di rischio” elevatissimo, necessita di un’ulteriore consapevolezza, dettata dalla presenza di quella dimensione altra, divisiva e plurale, che è pur sempre presente in ciascun individuo, essenzializzata nel concetto di condividuo (Remotti 2019) [2].
Un altro elemento su cui Montes pone la propria attenzione è legato alla possibilità di compiere ricerca etnografica senza la necessità di effettuare lunghi viaggi transoceanici. Un tragitto relativamente breve, compiuto in treno tra le due principali città siciliane, diventa il momento propizio per riconfigurare sé stesso in un contesto di profondo dolore, qual è quello dell’imminente dipartita di una persona cara. Quello sguardo da lontano, così magistralmente descritto da Claude Lévi-Strauss come elemento preponderante della pratica di ricerca etnografica, appare superato, come del resto accade sempre più diffusamente nell’antropologia contemporanea. Soltanto per rimanere alla tradizione di studi italiana, già Ernesto de Martino, con le sue spedizioni in Lucania e Salento, aveva mostrato la possibilità e l’importanza di occuparsi delle «Indie di quaggiù». Ma non è soltanto una questione di territorialità del proprio ambito di ricerca.
La possibilità e la consapevolezza di compiere un’osservazione del sé costituisce, da qualche anno a questa parte, una nuova dimensione dell’epistemologia etnoantropologica. Vivere e morire ce ne offre una dimostrazione concreta e lo fa applicando alcune categorie – oggetti e concetti – della tradizione classica a questo “nuovo” ambito di esplorazione. Per svolgere un’auto-etnografia, quindi, non si può prescindere dall’individuazione di un soggetto – il sé – e di un oggetto – la morte – da cui partire per una riflessione che non può non avere sconfinamenti nei campi della psicologia, della filosofia e della semiologia. L’iniziale punto di riferimento tanatologico si converte, così, nel dipanarsi della scrittura, in una sorta di ossimorica antropologia dell’esistenza capace di ruotare attorno al suo contrario, la morte. Ne scaturisce un’interessante riflessione, per l’appunto rapsodica, sull’etnografia e il suo statuto disciplinare. In tal senso, risulta cruciale quel concetto di soglia, e dei simbolismi ad essa sottesi, che già lo stesso van Gennep – come opportunamente rilevato da Montes – aveva individuato come «principio fondamentale del vivere (e morire): viviamo passando da uno stato all’altro, superando soglie su soglie nell’arco di un’intera esistenza e persino nella morte» (Montes 2024: 19).
La dimensione simbolica della soglia, infatti, non fa altro che porre in correlazione ciascun uomo alla propria comunità di appartenenza, cosicché l’attraversamento rituale da una dimensione all’altra dell’esistenza – si pensi idealtipicamente ai tanti e vari rituali funebri – non costituisce altro che una modalità di ricerca di un equilibrio omeostatico messa in atto allo scopo di superare gli sconquassi determinati dell’evento luttuoso. Ancora una volta, limitando il nostro sguardo all’ambito italiano, non si può non ricordare quanto evidenziato da Ernesto de Martino in Morte e pianto rituale, laddove il ricorso a determinate pratiche rituali, a partire dal lamento funebre, costituiva la principale modalità di risoluzione dello «scandalo» determinato dalla morte di una persona cara (de Martino 1958). Tuttavia, in Montes, non è tanto l’elemento rituale – seppur presente [3] – a costituire oggetto di riflessione, quanto piuttosto la rilevanza da accordare al contesto in cui si situa l’uomo nel momento in cui si approssima la fine di un individuo vicino.
Come avviene, pertanto, l’elaborazione del lutto? In quali forme può avvenire il superamento dell’episodio-morte? Di fronte a questi interrogativi, non rimangono che poche certezze. Tra queste, il fatto che «il morire resta, comunque e sempre, individuale dal punto di vista dell’esperienza vissuta» (Montes 2024: 22) e che, d’altra parte, l’esperienza della scrittura possa divenire un utile strumento per il superamento di quelle crisi dovute alla morte di una persona cara: «la scrittura ha anche una funzione catartica e assolve bene allo scopo: attutire emozioni troppo forti che, altrimenti, non passerebbero indenni nell’animo di una persona ferita. Ma non si tratta di questo soltanto: elaborare il lutto, smussare il dolore» (Ivi: 38).
Ne consegue, pertanto, che l’esperienza dolorosa rappresentata dalla perdita di un proprio familiare divenga un possibile oggetto dell’osservazione e dell’analisi dell’antropologo. Questi, attraverso la stesura di una monografia, ci offre una testimonianza preziosa di come una vicenda intima, strettamente personale, possa trasformarsi in un esercizio di scrittura capace di compendiare elementi di riflessione multisituati e multidisciplinari: dalla psicologia alla semiotica fino a giungere alla filosofia, i settori scientifici coinvolti sono piuttosto eterogenei e ben rappresentati. Montes infatti interroga sé stesso e, attraverso tale processo, compie un esercizio continuo di contestualizzazione e ricontestualizzazione, giungendo a un’alterizzazione di sé che appare utile nel tentativo di decodificare il significato e l’essenza del momento: «osserviamo gli altri ma ne siamo al contempo osservati; osservando gli altri non possiamo fare a meno di mettere in gioco noi stessi. E questo vale anche per me, in questa auto-etnografia! Io osservo e partecipo: dall’interno e dall’esterno del mio punto di osservazione» (Ivi: 27). Ponendo lo sguardo da questo angolo prospettico, la centralità dell’esperienza etnografica si sposta dal momento dell’osservazione a quello della scrittura, che diviene così, al tempo stesso, il cuore e l’elemento conclusivo del fare antropologia. La scrittura etnografica si fa essenza; la scrittura etnografica non può non riconoscere il proprio debito alla letteratura: «volenti o nolenti, la letteratura ci ha formati, nel tempo, e noi – antropologi o altri – attingiamo sovente al suo sapere, magari senza intenzione diretta, per la testualizzazione della realtà vissuta in prima persona» (Ivi: 30).
Il ruolo dell’antropologia, in tal senso, è quello di farsi decostruttrice di certezze e valutazioni assolutizzate, in grado di ergersi a voce critica all’interno di un panorama fatto di complessità culturali, di prospettive e di sguardi, di soglie culturali e soglie sociali, di possibilità e necessità di mettere in gioco i propri modelli per scandagliarne le debolezze e gli elementi di frattura, tenendo conto non solo dell’esteriorità oggettiva ma anche dell’emotività interiore di ciascun soggetto indagato. Attorno al ruolo e al peso attribuiti a tale soggettività si gioca la partita dell’etnografia elaborata da Montes: una ricerca sul sé di fronte al fenomeno-morte, in cui oggettività e soggettività si intersecano, in cui la soglia tra vita e morte, così come tra passato (la piacevolezza dei ricordi) e presente (la sofferenza per l’imminente lutto) appare a dir poco fluida, impossibile da identificare univocamente, da fermare in un istante: «la morte di una persona cara ha questo di eccezionale dal punto di vista della dimensione temporale e affettiva: il presente e il passato tendono a incontrarsi come non mai, eccezionalmente, come non è possibile altrimenti, in altre situazioni. La morte rimescola la dimensione temporale. La morte richiama il ricordo di altre morti e di altri tempi. La morte interroga le aspettative future di chi rimane» (Ivi: 50). E chi rimane, perlomeno nelle culture occidentali, una volta praticati i rituali variamente finalizzati all’elaborazione del lutto, si trova impegnato in una fondamentale opera di costruzione della memoria [4].
Mettere in atto tutta una serie di rituali significa, in pratica, elaborare un apparato di azioni simboliche aventi lo scopo di riannodare le fila interrotte da quel brusco evento traumatico rappresentato dalla morte di un parente o di una persona cara. E, oltre a placare le sofferenze per il lutto subìto, così facendo la memoria del caro defunto viene vivificata, ristabilendo «la giusta distanza tra i vivi e i morti: né troppo vicini (perché altrimenti si soffrirebbe troppo per la perdita) né troppo lontani (perché i morti rischierebbero di essere dimenticati)» (Ivi: 69). Ancora una volta, come già più volte evidenziato in queste brevi riflessioni sulla monografia di Stefano Montes, occorre fare i conti con soglie spaziali e temporali, rispetto alle quali diviene fondamentale trovare un punto di equilibrio tra le varie forze contrapposte chiamate in gioco, mediante l’utilizzo dell’elemento-rituale, chiave di volta per l’attraversamento di tali soglie.
Il fenomeno-morte, in definitiva, maussianamente interpretabile come fatto sociale totale, si configura come condensatore di elementi di interesse e ripercussioni di varia natura. Non è un caso, del resto, che la morte sia stata oggetto di attenzione da parte di eterogenei settori disciplinari e che se ne siano colte le sfaccettature sia dal punto di vista rituale sia dal punto di vista simbolico e semiotico nonché il ruolo esercitato dalle complesse dinamiche cognitive ed emozionali. In tutte le sue multiformi articolazioni, dunque, la morte si presta ad analisi e approfondimenti. Non fa eccezione l’etnografia del sé condotta da Stefano Montes, in cui l’oscillazione tra vivere e morire si fa rotta da seguire, in cui la riflessione sull’attraversamento – proprio o altrui – delle soglie esistenziali diventa fenomenologia di un complesso elemento della realtà.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] Il sottotitolo dell’opera è un esplicito omaggio alla poesia Rapsodia su una notte di vento, di T.S. Eliot, in cui vi si «racconta, in forma poetica, una passeggiata di un soggetto che, irrequieto e insonne, cerca di trovare pace nella solitudine della notte. È una rapsodia attraverso la quale l’autore descrive un soggetto che cerca di riprendere contatto con il mondo che gli si presenta, però, in modo insolito, alterato e mutevole. Nella poesia di Eliot, scandita temporalmente dai minuti e dalle ore [così come sarà strutturata l’etnografia di Montes], è come se gli stati d’animo del soggetto trovassero la loro voce grazie a un mondo sregolato che non è, comunque, in armonia con il soggetto stesso» (Montes 2024:. 19).
[2] «La nostra tesi è che il concetto di “con-dividuo” – tutto fatto di relazioni e di compartecipazioni, le quali si combinano sempre in maniere uniche, peculiari, singolari e relativamente irripetibili, tanto all’interno quanto all’esterno del soggetto – sia in grado di farci superare le aporie generate dalle nozioni di “identità” e di “individuo”, le quali mal sopportano o riducono a poca cosa relazioni, partecipazioni, condivisioni, che sono invece costitutive di ogni configurazione condividuale, sia pure in modi e gradi diversi» (Remotti 2019: 327).
[3] Si pensi a quanto scritto a pag. 34: «Il rito, in definitiva, per quanto riguarda la morte, è uno strumento efficace: è quello strumento che consente un attraversamento meno sofferto verso un altrove altrimenti ignoto». Così come non sono rari i rimandi a casi etnografici mutuati dalla letteratura di settore.
[4] Ciò avviene in contrapposizione con alcune culture di interesse etnografico, presso le quali, invece, la memoria del defunto non va assolutamente richiamata: «Si prenda l’esempio dei Manuš francesi, i quali tendono a distruggere ciò che era di proprietà del parente morto e fanno bene attenzione a non evocare la sua memoria, persino a non pronunciarne più il nome. Sembrerebbe, dal loro comportamento, che intendano spezzare, anzitempo, qualsiasi legame stabilito tra il defunto e i propri cari. […], per quanto strano possa sembrare agli occhi di un occidentale d’altra cultura, i Manuš mantengono un legame con i propri morti attraverso una strategia del non-detto e del silenzio che sembra andare in senso contrario rispetto a quella usuale, spezzando il contatto, camuffando il rito» (Montes 2024: 67-68).
Riferimenti bibliografici
M. de Certeau, Scrivere l’innominabile, in J. Baudrillard – M. de Certeau – R. Jaulin – M. Vernes, Luoghi e oggetti della morte. Nuovi percorsi interpretativi sulle moderne figure della morte, Savelli, Roma 1979: 27-38.
E. de Martino, Morte e pianto rituale: Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Einaudi, Torino 1958.
C. Gallini, Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia, Nottetempo, Roma 2016.
R. Hertz, Sulla rappresentazione collettiva della morte, Savelli, Roma 1978.
C. Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino 1984.
M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques, in «L’Année Sociologique», seconde série, 1923-1924.
S. Montes, Vivere e morire. Una rapsodia etnografica, e-book, Il Sileno Edizioni, Lago (CS) 2024.
E. Morin, L’uomo e la morte, Il Margine, Trento 2014.
F. Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Bari-Roma 2019.
L.-V. Thomas, Antropologia della morte, Garzanti, Milano 1976.
L.-V. Thomas, Morte e potere, Lindau, Torino 2006.
A. van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981.
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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, dopo alcune collaborazioni con le Università di Roma e Catania, oggi lavora per il Ministero della Cultura. Tra i suoi ambiti privilegiati di ricerca, la storia degli studi demoetnoantropologici italiani e i simbolismi animali e vegetali nelle culture del sud Italia. Ha recentemente pubblicato il volume Tortuosi percorsi. Giuseppe Cocchiara negli anni della formazione (1922-1945), Edizioni Museo Pasqualino, 2023.
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