Considerazioni preliminari
A un anno dalla scomparsa della scrittrice sarda Maria Giacobbe, e in un’epoca di profondi e rapidi cambiamenti che stanno trasformando radicalmente il volto della scuola così come la conosciamo, la lezione offerta da Diario di una maestrina appare oggi più attuale che mai, tanto che quest’opera merita di essere annoverata a pieno titolo tra i classici della letteratura scolastica e non solo [1].
Maria Giacobbe nacque a Nuoro nel 1928, figlia di Graziella Sechi, insegnante, e Dino Giacobbe, ingegnere, entrambi impegnati nell’antifascismo. Cresciuta e formatasi nella città natale, frequentò il Regio Liceo Ginnasio Giorgio Asproni, scegliendo poi di conseguire il diploma magistrale. Questo titolo le permise, fin dal secondo dopoguerra, di ottenere un posto come insegnante elementare nei paesi della Barbagia. A partire dal 1956 iniziò a collaborare con la rivista settimanale Il Mondo, diretta da Mario Pannunzio.
L’anno successivo pubblicò Diario di una maestrina, successivamente tradotto in quindici lingue, che le valse il Premio Viareggio opera prima e la Palma d’oro dell’Unione Donne in Italia. Di lì a poco si trasferì in Danimarca con il marito Huffe Harder, anch’egli scrittore, rimanendoci fino alla fine dei suoi giorni, ma mantenendo sempre vivo il legame con le sue radici sarde. Dopo l’esordio editoriale, intraprese un’intensa attività di scrittura che spaziò tra narrativa, saggistica e giornalismo, producendo opere sia in italiano sia in danese, e dedicandosi anche alla traduzione.
Tra i suoi titoli più significativi figurano Il mare (1967), Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia (1994), Scenari d’esilio (2003) e Arcipelaghi (1995). Da quest’ultimo romanzo, per il quale la scrittrice aveva ricevuto nel 1995 il Premio Dessì Speciale della Giuria, qualche anno più tardi il regista Giovanni Columbu trasse l’omonimo film. Dal 2008 ricoprì il ruolo di Presidente del Comitato degli scrittori danesi per la difesa della libertà di espressione e, inoltre, fu tra i membri fondatori del Comitato per la coesistenza israelo-palestinese.
L’opera letteraria, per sua natura, deve essere interpretata non solo come espressione artistica, ma anche come prezioso documento della memoria storica e culturale dell’epoca in cui viene concepita. Nelle pagine del Diario, si coagulano e tramandano pensieri, sentimenti, valori e conflitti che caratterizzano il contesto sociale, politico e culturale del tempo. A maggior ragione questo accade nei racconti di scuola che rappresentano nel loro insieme un dettagliato quadro narrativo sui cambiamenti del sistema scolastico nazionale e su ciò che essi hanno significato per lo sviluppo del nostro Paese, vale a dire «una fonte primaria per la ricostruzione dell’esperienza scolastica di intere generazioni di italiani» (Marsi, 2012: 105).
Ecco allora che l’insegnante-scrittore, partendo dal dato autobiografico ed esperienziale, produce un intervento critico dalla forte connotazione etica e politica (Ruozzi, 2019: 1398), tanto che il suo ruolo arriva ad assomigliare a quello dello storico perché, mettendo al centro dei loro romanzi l’esperienza vissuta:
«Il contenuto dell’insegnamento, le voci e i caratteri degli studenti, i pensieri e i sentimenti dell’insegnante, le interazioni, l’imprevisto, l’incertezza e il fallimento – presenti nelle scritture letterarie e assenti da quelle documentarie e professionali – concorrono a ricostruire un’ immagine autentica della scuola» (Morani, 2017: 87).
L’insegnante, infatti, non è un creatore di mondi immaginari, ma un testimone privilegiato della realtà in cui vive e depositario di informazioni autentiche, arricchite attraverso l’immaginazione e le cosiddette documentazioni ‘inconsapevoli’, riuscendo a sfruttare al meglio i materiali e le emozioni dell’esperienza didattica ricombinandoli in modi diversi.
La pedagogista Luigina Mortari, nello studio dal titolo Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, evidenzia l’importanza non solo della narrazione, ma soprattutto delle condizioni nelle quali gli insegnanti si trovano a scrivere; si fa riferimento, tra l’altro, alla buona abitudine di tenere diari di bordo che registrano gli eventi didatticamente significativi e che diventa, nella formazione del docente, uno strumento efficace perché presuppone «quell’agire riflessivo che consente la costruzione di uno spazio interiore, un luogo in cui ritirarsi dalla scena per osservarla da lontano» (Mortari, 2003). La redazione dei diari è una pratica meta-cognitiva fondamentale per le professioni educative perché facilita lo sviluppo delle abilità di osservazione e riflessione e permette di narrare l’esperienza nella sua complessità di processo emotivo, cognitivo e politico. Tali pratiche di autovalutazione non permettono solo di misurare l’efficacia delle proprie competenze didattiche, ma anche di suscitare un desiderio di “azione”, inteso come volontà di miglioramento e cambiamento concreto. La capacità di autovalutazione della propria attività didattica sembra influenzare e modificare comportamenti agiti, la percezione di sé e il pensiero sulle pratiche, ma vale anche a sostenere concrete prospettive per la crescita professionale (Gola, 2017).
La scuola narrata: lezioni, vita, speranze
Queste essenziali premesse sono necessarie per rileggere oggi con attenzione e sguardo critico l’opera fondamentale di Maria Giacobbe che, negli anni del suo apprendistato, ha saputo raccontare, ora con chiarezza ora con durezza, l’esperienza dell’insegnamento nell’entroterra sardo, senza mai celare gli aspetti negativi, scomodi o crudi e senza edulcorare alcun dettaglio rispetto alle difficili condizioni in cui si è trovata a lavorare. Diario di una maestrina, scritto tra il 1956 ed il 1957, è una testimonianza sincera, in cui trovano spazio ricordi duri ma al tempo stesso profondamente toccanti, vissuti dalla stessa autrice durante il suo periodo di docenza in alcuni paesi della Barbagia. Si trattava, a quel tempo, di luoghi ai margini della civiltà urbana, paesaggi umani e culturali che sembrano appartenere a epoche lontane, dimenticati dalla politica e, per tale ragione, non inclusi nei primi tentativi di progresso e modernizzazione dell’Italia del secondo dopoguerra. Ci vengono narrate in maniera semplice ed efficace le sfide quotidiane che il nuovo sistema scolastico doveva affrontare, aule fredde e spoglie, famiglie povere che spesso non vedevano nell’istruzione una priorità, e bambini costretti ad alternare scuola e lavoro nei campi:
«Vengono a scuola puntualmente ma non tutti volentieri; la strada, la campagna, i giochi, le ricerche nei mondezzai, le conversazioni dei grandi sono più divertenti che lo stare rinchiusi per tante ore con una quantità di veti e di costrizioni. Tuttavia essi sanno di dover venire e vengono; devono imparare a scrivere e a leggere» (Giacobbe, 2003: 113).
Infatti, in alcune zone periferiche della penisola, Sardegna compresa, furono istituite le cosiddette “scuole popolari” (De Meo-Fiorucci, 2011), ovvero dei corsi serali rivolti a tutti coloro che erano stati costretti ad abbandonare la scuola, ma che desideravano ottenere il minimo grado di istruzione (la licenza elementare) [2]. Dichiaratamente l’obiettivo dei Centri popolari era il recupero degli adulti incapaci di leggere e scrivere, ovvero il contrasto all’analfabetismo “strumentale”, ma di fatto quello principale era il tentativo di sconfiggere una certa ineducazione “morale” e “civile” (Ambrosoli, 1982). Del resto, la formazione alla sensibilità e alla pratica democratica, quanto l’idea che le masse popolari partecipassero al governo e all’amministrazione della cosa pubblica, non facevano ancora parte della mentalità e del costume nazionale.
Eppure, questi studenti, seduti in aule fredde e fatiscenti, sperimentano forse per la prima volta il senso di appartenenza a una comunità più grande. In quel contesto difficile, la scuola diventa non solo un luogo di apprendimento, ma anche uno spazio dove iniziare a sentirsi parte di qualcosa di più ampio, al di là della loro realtà familiare e del loro piccolo mondo quotidiano:
«essi in questa scuola, forse per la prima volta, sentono di far parte di una società civile nella quale gli uomini si distinguono dalle bestie non solo perché un po’ meglio si sanno difendere dalle intemperie ma soprattutto per la capacità di capire e di esprimere l’essenza delle cose» (Giacobbe 2003: 42).
Riflettendo sul problema dell’emarginazione degli analfabeti e delle persone non adeguatamente scolarizzate, un problema che denotava la “crisi” profonda del sistema educativo italiano, Anna Maria Lorenzetto ha scritto che la diffusa mancanza di cultura e capacità comunicativa favorisce lo sviluppo di rapporti sociali all’insegna della prevaricazione invece che della collaborazione (Lorenzetto, 1963). La pedagogista esprimeva queste riflessioni in aperta polemica con le linee guida educative del Ministero dell’Istruzione, sottolineando, in particolare nelle pagine di Dal profondo Sud. Storia di un’idea, come l’alfabetizzazione degli adulti, in una società moderna, possieda una naturale carica rivoluzionaria soprattutto nel Meridione (Lorenzetto, 1994).
Gli studi pedagogici dagli anni Sessanta in poi dimostrano di accogliere di buon grado la lezione degli scrittori-maestri del periodo post-bellico, i quali avevano cercato di trasmettere al lettore l’impatto emotivo determinato dalla desolazione del “profondo Sud”. Non bisogna tralasciare, tra le altre cose, che i tentativi di riformare il sistema scolastico e il metodo educativo si erano conclusi con la sostanziale rinuncia all’adozione dell’attivismo pedagogico.
La maestrina, per prima, portò avanti una didattica focalizzata sullo sviluppo e il potenziamento delle competenze di ogni singolo individuo, tenendo conto al tempo stesso sia delle inclinazioni di ciascuno di loro sia delle limitazioni dovute al contesto socio-culturale (La Mantia, 2020). Abbandonò l’idea di seguire gli argomenti imposti dai programmi ministeriali, che suscitavano talmente tanta irritazione nei suoi alunni da spingerli a un “mutismo ostile” o noia da farli addormentare durante le ore di educazione civica:
«Ascoltano attentamente tutto ciò che ha diretto rapporto con l’apprendimento dell’alfabeto, ma se tento di avviare conversazioni su argomenti che ad essi sembrano estranei alla scuola, quelli che cioè nei programmi ministeriali per le scuole popolari vanno sotto il titolo di parte terza, s’infastidiscono e tentano di richiamarmi all’ordine, sia esplicitamente che chiudendosi in un mutismo ostile e distratto» (Giacobbe 2003: 39).
Al contrario, la loro curiosità e sete di sapere si risvegliavano solo quando si trattavano argomenti legati alla conoscenza scientifica e alla storia dell’uomo: «su un terreno così delicato non bastava essere “esperti”, occorreva essere educatori significativi, in grado di unire alle competenze una vera e propria passione per lo sviluppo perfettivo dell’uomo» (Caocci, 2023: 474) [3].
Leggendo le pagine del diario di Giacobbe emergono con forza le difficoltà di una scuola che, nei programmi e nei metodi, appare scollegata dalla vita reale dei ragazzi. Una distanza che non solo alimenta una profonda incomunicabilità, ma che porta gli studenti a non immaginare per sé stessi un destino diverso, oltre i confini del proprio ambiente, e quindi a non percepire l’istruzione come una possibilità di riscatto sociale. Nei primi anni di apprendistato, non fu affatto semplice convincere gli allievi che l’alfabeto potesse davvero trasformare le loro vite. Allo stesso tempo, fu una grande e faticosa conquista per loro riuscire a imparare a leggere e scrivere, frequentando le lezioni dopo lunghe e faticose giornate di lavoro nei campi:
«La scuola dà i mezzi per sfrondare il Destino di tutto il suo potere e per ridurlo a una semplice invenzione. I miei allievi, con l’ardore distruttore e rivoluzionario proprio dei giovani, si appassionano a questo lavoro e ascoltano avidamente tutto ciò che per loro sa di nuovo» (Giacobbe 2003: 40-41).
Alla base del rapporto tra insegnante e studenti – si sa – ci deve essere la fiducia, di certo non facilmente conquistabile in zone come quelle in cui si trovava ad operare l’autrice; la fiducia tra alunni e maestra è importante non solo perché crea un ambiente sicuro e positivo, nel quale gli studenti si sentono liberi di esplorare nuove idee, ma soprattutto perché consente loro di commettere errori e crescere senza paura di giudizio. Inoltre, quando gli alunni si fidano della maestra, sono più inclini a partecipare attivamente, a chiedere aiuto quando necessario e a impegnarsi maggiormente nell’apprendimento, favorendo così un progresso educativo più efficace e significativo.
Nel tempo, il rispetto e la fiducia conquistati da Maria Giacobbe si tradussero in un cambiamento profondo, avendo insegnato e praticato il valore della parità, praticamente un miraggio per quegli alunni da sempre assuefatti a una silenziosa sottomissione (Ciampa, 2022). Coloro che inizialmente erano emarginati, la cosiddetta «feccia del paese», divennero il cuore pulsante di una comunità partecipe, capace di crescere e trasformarsi sia dentro che fuori le mura scolastiche.
Tutto ciò ci ricorda come l’inclusione e il dialogo possano abbattere ogni pregiudizio, costruendo una società più unita e solidale. In un mondo ancora segnato da conflitti apparentemente irrisolvibili, siamo invitati a riscoprire il potere dell’empatia, intesa nel suo significato etimologico di “sentire dentro” e “sentire insieme”, e a riconoscere nella comunità uno strumento fondamentale per un autentico cambiamento sociale.
Scuola e società: le sfide del nostro tempo
Leggendo le pagine del Diario, si percepisce che il mondo descritto dalla scrittrice non era completamente e definitivamente chiuso, ma piuttosto uno spazio che si apriva al futuro e al miglioramento. Ed è in questo senso che, anche a distanza di più di sessant’anni dalla prima edizione, Diario di una maestrina continua a parlarci di noi, della nostra terra e delle costanti del mestiere più difficile del mondo. Le opere letterarie, infatti, rappresentano spesso «un contrappunto realistico del mondo scolastico, che lontano dalla retorica dei testi di legge e delle circolari ministeriali, mostra lo stato reale della nazione» (Marsi, 2012: 105).
Maria Giacobbe, dopo la prima pubblicazione presso la casa editrice la Laterza, nel 1975 aggiunse una lucidissima prefazione precisando che i suoi racconti non erano frutto di «una visione velleitaria della realtà, bensì del sentimento comune di speranza suscitato dall’imminente attuazione del Piano di Rinascita della Sardegna» (Giacobbe 2003: 196). Nella prefazione denunciava la delusione per gli scarsi successi del piano economico riportando quelle che sarebbero state le parole del senatore Gianquinto: «la Sardegna è stata assolutamente tagliata fuori dalla grande operazione che la riguarda», aggiungendo che «l’obiettivo dello sviluppo economico e del progresso dell’Isola doveva ancora una volta essere rimandato» (ibidem).
Noi oggi sappiamo che il fallimento del Piano di rinascita rappresenta uno dei nodi irrisolti dello sviluppo italiano, un capitolo in cui si intrecciano speranze disattese, cattiva gestione e un complesso di problematiche strutturali. Questo ambizioso progetto, nato con l’obiettivo di ridurre il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, non ha raggiunto i risultati sperati, lasciando dietro di sé una scia di occasioni mancate. Appare chiaro che una delle ragioni principali della sua inefficacia siano da rintracciare nella cattiva gestione delle risorse, a cui si aggiunge l’ombra della corruzione e della criminalità organizzata.
In questo scenario l’istruzione e la formazione, che invece avrebbero potuto rappresentare un motore di cambiamento, sono rimaste ai margini delle politiche di rinascita, dal momento che non ci fu un investimento significativo nella scuola e nella formazione professionale. La Sardegna, scrive quasi con rassegnazione Giacobbe, ha continuato a soffrire di un divario di competenze, che ha reso difficile attrarre investimenti e creare nuove opportunità di lavoro, da ricercare soprattutto «nella mancanza di una efficiente collaborazione tra iniziativa pubblica, mondo urbano e mondo rurale» (ivi: 197). Questo, come è ovvio, ha prodotto un sentimento di sfiducia nei confronti delle istituzioni centrali, le quali venivano percepite come lontane e disinteressate dei problemi della comunità sarda:
«La impossibilità per molti, quasi tutti in Sardegna, di essere ciò che veramente vogliono essere, di fare ciò che ritengono meglio fare, di scegliere tra due strade e seguire quella che giudicano migliore è una delle cose che rendono così desolato questo paesaggio umano» (ivi: 120).
Le riflessioni dell’autrice inducono, quasi naturalmente, a ripensare queste dinamiche calandole nell’Italia di oggi, quale oggetto di cospicui finanziamenti da parte del Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR) e che vede ancora la scuola non sufficientemente compresa negli investimenti che ci attendono da qui ai prossimi anni.
Per ciò che riguarda il mondo dell’istruzione sono già state avanzate importanti criticità, come già denunciato dalla rete EducAzioni in un recente comunicato stampa [4]. Un primo aspetto problematico del PNRR è che si concentra principalmente sul recupero delle competenze di base come strumento per ridurre l’abbandono scolastico. Sebbene questo sia un fattore importante, studi e esperienze sul campo dimostrano che la dispersione scolastica è un fenomeno complesso, influenzato dal contesto familiare e territoriale, dal clima scolastico, dalle relazioni con i docenti e dalla povertà materiale e culturale. A complicare la situazione la precaria situazione del personale scolastico, costretto ancora oggi a continui spostamenti della sede e a rincorrere la sicurezza di un posto a tempo indeterminato, difficoltà in qualche modo già ravvisabili tra le righe del diario:
«Sono ben decisa a far valere i miei diritti di cittadina italiana. Però mi viene un dubbio: forse cessiamo di essere cittadini, dal momento in cui diventiamo impiegati dello Stato. Qui si dice di noi che “mangiamo il pane del governo”, infatti nella concezione della gente comune, e noi stessi ne siamo contagiati, dipendiamo non dallo Stato – che del resto è qualcosa di troppo vago, c’è addirittura qualcuno che sostiene che lo Stato siamo noi, e allora dove si va a finire? – ma dal governo e, come servi fedeli, non dobbiamo avere idee diverse da quelle di chi ci dà il pane» (Giacobbe, 2003: 145).
Il tempo di vita dell’insegnante è scandito anche dalla permanenza e dal trasferimento in diverse sedi di servizio, che per alcuni significa spostamento in città e regioni lontane dalla propria, topos letterario ben descritto nei racconti di giovani supplenti (Ruozzi, 2020: 1). Infine, rimane da affrontare l’obiettivo primario del Piano, ovvero la transizione digitale e l’inclusione: servirebbe una formazione adeguata e costante per gli insegnanti, che però spesso viene trascurata o trattata come una misura accessoria.
Le criticità del PNRR al Sud si stanno, di nuovo, manifestando proprio nella difficoltà di tradurre i fondi stanziati in interventi concreti e duraturi, spesso ostacolati da inefficienze amministrative, carenza di progettazione e logiche di profitto che poco hanno a che vedere con i reali bisogni delle comunità locali. Questa situazione, come già avvenuto nel secondo dopoguerra, rischia di ampliare ulteriormente il divario socioeconomico tra le due (o tre?) Italie, vanificando l’opportunità di uno sviluppo equo e sostenibile.
Anche in questo senso, le pagine del Diario di una maestrina offrono molti suggerimenti per approfondimenti sulla realtà scolastica sarda e nazionale: il racconto di scuola risulta, in generale, interessante poiché riproduce uno spazio nel quale, secondo gli insegnamenti di György Lukács (1972), la rappresentazione del particolare riflette l’universale in una sorta di eterna metafora della realtà. Nel testo di Maria Giacobbe, come abbiamo detto, traspare con forza la convinzione che sia possibile, e quanto mai necessario, fare qualcosa; il compito degli insegnanti di ogni ordine e grado è quello di lasciare un segno, seppur minimo, nella realtà e nelle aspettative dei suoi studenti, aiutandoli a sviluppare nuove capacità e a scoprire mondi più ampi e diversi di quelli familiari.
Sembra sorprenderci ancora oggi che, seppur all’interno di un microcosmo come quello del centro della Sardegna, i problemi di Fonni, Bortigali, Orgosolo, Oliena potrebbero assomigliare a quelli di altri villaggi dimenticati del Meridione e che, alla fine, poi quei luoghi così devastati possano diventare sicuri e familiari:
«E adesso sono tre anni che insegno a Orgosolo. Tre anni in cui tanti clichés che avevo quando arrivai sono scomparsi e un nuovo sentimento li ha sostituiti: sentimento che è di affetto e di solidarietà per questi bambini, per le loro mamme, per i loro padri e fratelli. Orgosolo non è più l’“Università del delitto”» (Giacobbe 2003: 175).
A guardar bene, i racconti del diario, pur radicati in una realtà angusta e locale, rivelano dinamiche universali di povertà, desiderio di riscatto e, talvolta, sete di conoscenza, e riverberano come specchi i problemi di un’Italia che affrontava e affronta ancora oggi enormi contraddizioni, soprattutto in quei luoghi dove l’istruzione rappresenta spesso l’unico strumento per immaginare un futuro diverso, lontano dalla fatica e dalla marginalità sociale. Le vite degli studenti sardi, raccontate con sensibilità e lucidità, svelano un’umanità universale in cui le barriere geografiche si dissolvono di fronte a temi come il diritto all’istruzione, la lotta contro l’esclusione sociale e la ricerca di un’identità migliore, come ci racconterà essa stessa nella postilla che si apre con un’eloquente domanda: «Ma che cosa fanno oggi quelli che a Orgosolo furono miei allievi e miei amici?» (Giacobbe 2003: 211).
Grazie alla narrativa di Giacobbe queste storie hanno potuto avere spazio e voce, entrando di diritto nella storia nazionale del sistema scolastico: questi bambini, infatti, incarnano sfide, alcune vinte altre perse, di un’intera generazione, dove il peso del lavoro precoce, la miseria culturale e il senso di impotenza si intrecciavano con il desiderio e l’aspirazione di una vita diversa. La loro esperienza diventa un prisma attraverso cui osservare le disparità del sistema educativo e le difficoltà dell’alfabetizzazione in zone rurali e svantaggiate, temi che ancora oggi – a distanza di più di settanta anni – mantengono una forte rilevanza.
Con la sua penna leggera e incisiva, Maria Giacobbe ha reso immortali i nomi, i volti, i sorrisi e le vite dei suoi studenti, insieme alle loro sfide, che accomunano tutti i bambini e «li rendono simili a tutti i loro coetanei del mondo» (Giacobbe 2003: 124). Questi ritratti, vivi e autentici, non solo restano impressi nei ricordi della maestrina, ma diventano un patrimonio prezioso per la definizione di una nuova storia sociale del nostro Paese che prenda avvio proprio dalla scuola e dai suoi protagonisti.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] L’edizione di riferimento usata è: Giacobbe M., Diario di una maestrina, Nuoro, Il Maestrale, 2003..
[2] Nel 1949 l’Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo (UNLA) ideò i “Centri di cultura popolare”, che operarono prevalentemente nelle aree rurali del Mezzogiorno d’Italia, dove, nel dopoguerra, si registravano le più alte percentuali di analfabetismo.
[3] Si segnala all’interno dello stesso contributo di Piera Caocci la pregevole intervista, una delle ultime prima della scomparsa della scrittrice nuorese, in cui emergono alcuni nodi interessanti rispetto alla pubblicazione dell’opera e al suo successo editoriale e giornalistico.
[4]Cfr. https://www.educazioni.org/wp-content/uploads/2021/05/PNRR_commento_EducAzioni_040521_DEF-1-1.pdf
Riferimenti bibliografici
Ambrosoli L., La scuola in Italia dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1982.
Caocci P., Intervista a Maria Giacobbe, autrice del “Diario di una maestrina”, in «History of Education & Children’s Literature», XVIII, 1, 2023: 471-478
Chávez Villanueva P., La scuola di fronte alle sfide attuali. Verso una scuola educatrice e creatrice di cultura La scuola (di qualsiasi tipo) si trova oggi a far fronte a problemi strutturali e culturali specifici, che si vanno sommando senza soluzione da qualche tempo, in «Rassegna CNOS. Problemi esperienze prospettive per l’istruzione e la formazione professionale», n. 37, 2021.
Ciambi M., Diario di una maestrina, in «Doppiozero», 13 luglio 2022, file:///C:/Users/veron/OneDrive/Desktop/Doc%20MUTUO/Diario%20di%20una%20maestrina.pdf.
De Meo A., Fiorucci M., Le scuole popolari Per l’accompagnamento e l’inclusione sociale di soggetti a rischio di esclusione, Roma, Focus – Casa dei Diritti Sociali, 2011.
Giacobbe M., Diario di una maestrina, Nuoro, Il Maestrale, 2003.
Gola G., Autovalutazione del docente. Un percorso per la crescita professionale, in «Formazione & Insegnamento. European Journal of Research on Education and Teaching», XV (2): 155-163.
La Mantia N., Insegnanti a scuola, maestre nella vita: l’istruzione oltre le regole per cambiare la società. Maria Giacobbe e la Sardegna nel suo “Diario di una maestrina”, qui consultabile https://scholar.google.it/citationsview_op=view_citation&hl=it&user=hzBtMcMAAAAJ&citation_for_view=hzBtMcMAAAAJ:qjMakFHDy7sC.
Lorenzetto A., Alfabeto e analfabetismo, Roma, Armando Editore 1963.
Lorenzetto A., Dal profondo Sud. Storia di un’idea, Roma, Edizioni Studium, 1994.
Lukàcs G., Il romanzo storico, Torino, Einaudi, 1972.
Marsi S., Il racconto scolastico come memoria storica, in «Oblio», n. XI, 2021: 97-105.
Morani R., Insegnanti -scrittori o scrittori insegnanti? Raccontare la pratica didattica attraverso la letteratura, in F. Batini e S. Giusti (a cura di), Le storie siamo noi. Empowerment delle persone e delle comunità, Quaderno di lavoro VI convegno biennale sull’orientamento narrativo, Lecce, Pensa Multimedia Editore, 2017.
Mortari L., Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo della formazione, Roma, Carocci, 2003.
Ruozzi C. (a cura di), Raccontare la scuola, Testi, autori e forme del secondo Novecento, QdR 2 – Collana Didattica e letteratura, Torino, Loescher, 2011.
Ruozzi C., Raccontare il presente attraverso lo sguardo della scuola, in Le forme del comico, Atti delle sessioni parallele del XXI Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti) Firenze, 6-9 settembre 2017 a cura di Francesca Castellano, Irene Gambacorti, Ilaria Macera, Giulia Tellini Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2019.
Ruozzi C., La scuola allo specchio. Rappresentazione e realtà della professione docente nella narrativa di Albino Bernardini e Sandro Onofri, in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Roma, Adi Editore, 2020.
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Veronica Medda, laureata magistrale in Filologie e Letterature moderne, presso l’Università degli studi di Cagliari, con una tesi sull’intertesto mitologico delle Operette morali (un estratto dal titolo «L’ombra di Edipo: interferenze mitiche nel “Dialogo della Natura e di un Islandese” di G. Leopardi» è stato pubblicato nella rivista Medea, ha recentemente terminato un percorso biennale come assegnista presso l’Università della Valle D’Aosta con un progetto dal titolo Natura e paesaggio nello Zibaldone di Leopardi. Materiali documentari della Fondazione Natalino Sapegno. Al momento, in parallelo all’impegno come docente di materie letterarie nella scuola secondaria di secondo grado, sta lavorando alla stesura di una monografia, esito finale degli ultimi due anni di ricerca scientifica. Nel 2022 ha pubblicato per RISL un contributo da titolo «L’impianto mito-logico dei dialoghi “alla maniera di Luciano”: sistematicità, scomposizione e nuovi significati».
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