L’ultimo libro di Franco Lo Piparo, Sicilia isola continentale. Psicoanalisi di una identità, pubblicato da Sellerio lo scorso ottobre, partendo dall’analisi del linguaggio di tanti illustri siciliani cerca di smontare alla radice l’ideologia sicilianista che tanti danni ha arrecato alla nostra Isola [1]. Si tratta di un libro di godibilissima lettura che riprende, almeno in parte, sotto forma di pamphlet, quanto lo stesso studioso aveva sostenuto, in modo più accademico, in un suo precedente saggio del 1987 sulla Sicilia linguistica, compreso nella grande Storia d’Italia Einaudi, dedicata alla regione siciliana, curata da M. Aymard e Giuseppe Giarrizzo.
Lo Piparo è un filosofo del linguaggio dotato di una felice vena narrativa. Lo stile della sua scrittura ricorda tanto sia Voltaire che Leonardo Sciascia, anche se quest’ultimo viene ingiustamente criticato dal linguista nel corso della sua narrazione [2]. D’altra parte il pamphlet non risparmia nessuno e persino alcuni padri della patria (Gentile, Gramsci, Pirandello) ne escono male. Ma nessuno è infallibile come vedremo più avanti. Il filosofo arriva ad utilizzare ironicamente persino Giufà per mettere alla berlina quanti si ostinano a cercare la “Nazione siciliana” in fondo ad un pozzo. Il libro infatti si apre con queste parole:
«Una volta Giufà si trovò a passare nei pressi di un pozzo e vide la luna riflessa nell’acqua. Gli parve che la poveretta fosse caduta nel pozzo. Riflettendo sul da farsi si disse: “Devo scendere a salvarla!”.[…]. È uno dei numerosi aneddoti di cui si è alimentata a lungo la saggezza popolare siciliana […]. L’identità siciliana è come la luna nel pozzo che l’astuto e generoso Giufà salva dall’annegamento e, vedendola poi in cielo, rimane soddisfatto del proprio lavoro di salvataggio» (ivi: 9-10).
I primi a cadere sotto gli strali polemici di Lo Piparo sono i due capi del separatismo siciliano dell’ultimo dopoguerra, Andrea Finocchiaro Aprile e Antonio Canepa. Questi leader nel momento stesso in cui auspicano la separazione della Sicilia dall’Italia, nei discorsi e nei manifesti, usano la lingua italiana. Così la cosiddetta nazione siciliana parla e scrive la lingua di coloro che l’inno separatista chiama «i tirannici italici / nemici della nostra terra» (ivi: 26-31).
Ma Lo Piparo sa che Canepa e Finocchiaro Aprile hanno avuto illustri predecessori. Ad esempio, nessun cenno alla questione del linguaggio si trova nella lunga e articolata Costituzione del 1812, il primo documento politico con cui la Sicilia moderna e pre-unitaria proclama, in lingua italiana, la propria indipendenza e analogo silenzio si nota in tanti altri documenti. Il linguista giustamente osserva: «Il ceto politico difensore della nazione Sicilia né rivendica una qualche specificità linguistica dell’isola né spiega le ragioni della sua italianità linguistica. […]. Eppure, una qualche spiegazione andava data […]. Il ceto politico siciliano non ha dubbi: la nazione Sicilia è linguisticamente e culturalmente italiana» (ivi: 32-37).
L’ esito politico della luna di Giufà
Con questo titolo – e un sottotitolo ancor più graffiante: Il risarcimento perpetuo e il diritto alla signorilità retribuita – Lo Piparo affronta l’esame del regio decreto legislativo del 15 maggio 1946 con cui è stata istituita la Regione Siciliana con il suo Statuto autonomo. Come è noto, alla fine della Seconda guerra mondiale, le principali forze politiche nazionali, per sgonfiare il movimento separatista che minacciava di separare la Sicilia dall’Italia, convennero sull’opportunità di concedere una larga autonomia all’ isola.
Ma Lo Piparo non ama lo storicismo giustificazionista e va diritto al suo bersaglio attraverso l’analisi dell’art. 38 dello Statuto che riproduciamo di seguito:
«Lo Stato verserà, annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nell’esecuzione di lavori pubblici. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto della media nazionale. Si procederà ad una revisione quinquennale della detta assegnazione con riferimento alle variazioni dei dati assunti per il precedente computo».
Secondo Lo Piparo si tratta di un articolo programmatico che riassume bene la storia e il senso dell’ideologia sicilianista. Ne è, per così dire, il coronamento emblematico:
«L’art. 38 è un vero e proprio lapsus freudiano. I suoi estensori sanno con certezza che “i redditi di lavoro nella Regione” avranno sempre un “minore ammontare in confronto alla media nazionale”. Una profezia che è anche un programma etico-politico. Lo Statuto è la manifestazione politica dell’equivoco della fantasmatica identità siciliana: identità fatta di richieste di risarcimenti per presunti torti subiti piuttosto che di progetti politici […]. L’identità del mendicante che progetta di arricchirsi trasformando in mestiere redditizio l’arte del mendicare» (ivi:102-103).
In altri momenti la dissacrante analisi del filosofo sarebbe stata giudicata severamente da politici e storici. È facile immaginare, ad esempio, quale sarebbe stata la reazione di un Enrico La Loggia o di un Francesco Renda. Ma oggi, vista la fine che ha fatto l’autonomia siciliana, è prevedibile che il professore riceverà solo consensi.
Lo Piparo non manca di ricordare un precedente storico dello Statuto siciliano del 1946: il 19 ottobre 1860 venne istituito uno straordinario Consiglio di Stato – presieduto da Gregorio Ugdolena e composto da illustri siciliani come Mariano Stabile, Michele Amari, Stanislao Cannizzaro, Gaetano La Loggia, Francesco Paolo Perez e Salvatore Vigo – con il compito di studiare ed esporre al Governo Nazionale proposte per migliorare le condizioni economiche e sociali dell’isola. Il Consiglio svolse celermente il compito assegnato tant’è che il mese successivo all’incarico propose di istituire una rendita in favore della Sicilia e un sistema esteso di lavori pubblici al fine di livellarne le condizioni economiche a quelle delle altre regioni italiane. (ivi:104-105).
Questa la conclusione di Lo Piparo:
«L’art. 38 del 1946 è una versione peggiorata della proposta del 1860. Il risarcimento almeno non era pensato, nel 1860, come perenne. […] l’idea ha una lunga storia e probabilmente affonda le sue radici nel modo in cui buona parte della cultura siciliana ha vissuto e rivendicato a partire dall’Unità la propria specificità […] come diritto al risarcimento di presunti torti subiti ad opera di regioni più ricche. Che è un modo paradossale e indiretto per rimarcare la propria subalternità nel momento in cui si rivendica la propria autonomia» (ivi:105-106).
In realtà le cose stanno diversamente da come afferma Lo Piparo: la Sicilia, come l’intero Meridione, nei primi anni dell’unificazione nazionale subì dei torti evidenti, ben descritti da Gramsci nei suoi appunti e articoli giovanili sulla questione meridionale. E questi ultimi, contrariamente a quanto afferma l’autore, non hanno nulla a che vedere con l’idealismo gentiliano. Gramsci infatti, fin da giovane, utilizza in modo creativo l’analisi marxista di classe per dimostrare che il sottosviluppo meridionale, rispetto al Nord del Paese, si accentuò dopo il 1860 a causa dell’«accentramento bestiale» che non ha tenuto conto dei bisogni specifici delle diverse regioni italiane; i protezionismi hanno aggravato ulteriormente la situazione, arricchendo industriali ed agrari e impoverendo soprattutto i contadini del sud. La Prima guerra mondiale, infine, diventata fonte di profitti colossali per le imprese industriali del Settentrione, ha completato il quadro. Scrive Gramsci nell’aprile del 1916:
«Si parla spesso di mancanza di iniziativa nei meridionali. È un’accusa ingiusta. Il fatto è che il capitale va a trovare sempre le forme più sicure e redditizie di impiego» [3].
E per mostrare come Gramsci fosse non meno consapevole di Lo Piparo del peso che hanno le ideologie e i pregiudizi nella storia ricordo un passo dei suoi appunti del 1926:
«È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura “meridionalista” della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la “scienza” era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato» [4].
Ma, come ammette lo stesso Lo Piparo, anche le “intelligenze superiori” prendono talvolta qualche abbaglio.
Dal “siculoitaliano” al “toscoitaliano”
Nella parte centrale del libro Lo Piparo riprende sommariamente quanto aveva già scritto nel citato saggio del 1987 sulla Sicilia linguistica analizzando i diversi modi in cui la lingua è stata usata nell’isola, dal 1200 in poi, negli atti amministrativi, nei contratti, nella predicazione e nelle pratiche ecclesiastiche, oltre che negli scritti letterari.
Il primo documento esaminato proviene da un Monastero di Messina fondato dai Normanni. Si tratta di un formulario in siciliano antico, utilizzato per celebrare matrimoni, risalente agli anni 1259-126. Lo Piparo, prima di entrare nel merito linguistico del testo, rileva due caratteristiche profondamente innovative rispetto ai costumi dell’epoca: il formulario prevede la presenza attiva della comunità (lu populu); senza l’approvazione del populu il matrimonio non è valido. Inoltre, i due sposi sono su un piano di assoluta parità: l’officiante rivolge a entrambi le stesse domande per accertare il libero consenso di sposo e sposa al vincolo matrimoniale. Il formulario è scritto inoltre in una lingua che doveva essere comprensibile a tutti, sposi e populu. Mettendo a confronto in due colonne le parole siciliane con le supposte parole toscane, si nota che le differenze sono minime e hanno a che fare soprattutto col sistema vocalico. Il testo, conclude Lo Piparo è, a pari titolo, un documento del siciliano antico e dell’italiano antico. Si può pertanto denominare siculoitaliano. (ivi:151-159)
La presenza normanna in Sicilia, iniziata nel 1061 con l’occupazione di Messina, ha prodotto un cambiamento radicale nella storia dell’isola. Secondo Lo Piparo, che fa sue alcune pagine dello storico Denis Mack Smith, i Normanni, che subentrano agli Arabi nel governo dell’isola, contribuiscono in modo determinante ad avvicinare la Sicilia al Continente anche per via del ripopolamento che promuovono mettendo in posti chiave uomini di origine continentale.
Secondo Alberto Varvaro – citato da Lo Piparo (ivi: 171-172) – la stessa famosa Scuola poetica siciliana, sorta dentro la Corte Normanna, aiuta poco a comprendere il siciliano: «la lingua dei poeti della scuola – ad eccezione di Cielo d’ Alcamo – non ci insegna quasi nulla sul siciliano». I testi della Scuola federiciana sono un capitolo della storia della lingua italiana per due motivi: 1) l’attività della Scuola ha un suo sviluppo e seguito in Toscana e non mette alcuna radice in Sicilia; 2) i testi della Scuola, essendoci stati tramandati nel rimaneggiamento toscano che ne hanno fatto i copisti, non possono essere assunti come documenti del volgare usato dai siciliani in quel periodo.
Lo Piparo sembra però avere opinioni diverse da Varvaro:
«Il primo punto è smentito dall’abbondanza di testi letterari scritti in siculoitaliano a partire dal Trecento» (ivi: 172); inoltre la «toscanizzazione operata dai copisti dei codici che ci hanno trasmesso i testi della Scuola federiciana è possibile leggerla come il segno di una profonda affinità strutturale tra i due volgari» (ivi: 173).
Nelle pagine successive Lo Piparo si sofferma nell’analisi dei contenuti dei testi elaborati dalla scuola federiciana e sottolinea giustamente la loro modernità rispetto all’epoca in cui vennero scritti, soprattutto per il modo in cui vengono rappresentate l’amore e i rapporti sessuali (ivi: 177-187).
In questa parte centrale del suo libro Lo Piparo mostra come la Sicilia non è stata mai separata dal resto d’Italia. E il siculoitaliano che nasce nel periodo normanno si sviluppa parallelamente al toscoitaliano; ciò rende possibile che nel XIII secolo i poeti federiciani fossero leggibili, senza bisogno di traduzione, in area toscoemiliana così come oggi risultano naturalmente comprensibili a tutti gli italofoni i romanzi di Camilleri ma anche quelli di scrittori semianalfabeti e “orali” come Tommaso Bordonaro o Vincenzo Rabito a cui dedica alcune delle sue più belle pagine (ivi: 261-271). Ammirevoli anche i ritratti che ci offre di due grandi scrittori siciliani, Tomasi di Lampedusa ed Elio Vittorini, che hanno saputo rappresentare nei loro capolavori due opposte immagini della Sicilia. Ed anche noi, d’accordo con Lo Piparo, preferiamo nettamente l’isola di Vittorini rispetto a quella del Principe (ivi: 287-307).
Il trauma del furto
Un capitolo chiave del libro è dedicato all’analisi di un celebre testo di Ignazio Buttitta che Lo Piparo interpreta in modo assai personale. Mi sembra opportuno partire dal testo del poeta:
Lingua e Dialettu
Un populu
mittitilu a catina
spughiatilu
attuppatici a vucca
è ancora libiru.
Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavula unnu mancia
u lettu unnu dormi,
è ancora riccu.
Un populo
diventa poviru e servu
quannu ci arrubbano a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poviru e servu
quannu i paroli non figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.
Mi n’addugnu ora,
mentri accordu la chitarra du dialetto
ca perdi na corda lu jornu.
Mentre arripezzu
a tila camuluta
ca tissiru i nostri avi
cu lana di pecuri siciliani.
E sugnu poviru:
haiu i dinari
e non li pozzu spènniri;
i giuielli
e non li pozzu rigalari;
u cantu
nta gaggia
cu l’ali tagghiati.
Un poviru
c’addatta nte minni strippi
da matri putativa
chi u chiama figghiu
pi nciuria.
Nuatri l’avevamu a matri,
nni l’arrubbaru;
aveva i minni a funtana di latti
e ci vìppiru tutti,
ora ci sputanu.
Nni ristò a vuci d’idda,
a cadenza,
a nota vascia
du sonu e du lamentu:
chissi no nni ponnu rubari.
Non nni ponnu rubari,
ma ristamu poveri
e orfani u stissu.
La poesia pubblicata nel 1972 [5] è stata oggetto di numerosi e autorevoli commenti. Ne hanno parlato e scritto, tra gli altri, Tullio De Mauro (Maestro di Lo Piparo), Leonardo Sciascia, Raffaele Simone e Pier Paolo Pasolini che Lo Piparo non nomina ma con cui indirettamente polemizza, scrive infatti:
la poesia «divenne, subito e impropriamente, una sorta di manifesto di linguisti e intellettuali impegnati nella difesa delle varietà dialettali usate nel territorio nazionale contro il rigido ed esangue normativismo della varietà scolastica e burocratica dell’italiano. La poesia parla d’altro. Parla del problema che stiamo trattando in questo libro» (ivi: 272).
Il linguista commentando i primi 18 versi (fino a e si mancianu tra d’iddi) afferma:
«Se la poesia si fermasse qui ci troveremmo in presenza di una felicissima rappresentazione poetica di un concetto già presente nel Vecchio Testamento e diventato senso comune […]: un popolo-nazione è tale solo se ha una lingua comune che lo distingue da altri popoli. Il concetto si trova formulato in maniera egregia in quella che è stata nel Medioevo una specie di enciclopedia, le Etymologiae di Isidoro di Siviglia […]: Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt (I popoli sorsero dalle lingue, non viceversa). Da qui il principio del quot gentes, tot linguae: quante sono le gentes, ossia le nazioni-popolo, tante sono le lingue e viceversa. Il corollario è espresso nei versi citati di Buttitta: un popolo non è più popolo se perde la propria lingua» (ivi: 274).
La poesia di Buttitta continua passando dal principio generale al caso Sicilia. L’attore principale cambia nome. La scena non è più occupata dalla lingua ma dal dialetto: Mi nn’addugnu ora, / mentri accordu a chitarra du dialettu / ca perdi na corda lu jornu. Le due strofe che seguono spiegano cosa distingue una lingua da un dialetto: la sua insufficiente adeguatezza espressiva. Ma, secondo Lo Piparo, «Ci vogliono molte acrobazie intellettuali per leggervi, come è stato fatto, il peana dei dialetti» (ivi: 277).
Anche se rimane il dubbio che sia stato in realtà Lo Piparo a compiere più acrobazie di Tullio De Mauro e Pasolini [6] nell’interpretare il testo di Buttitta, accantoniamo i dubbi e seguiamo il ragionamento del linguista:
«Dal prosieguo della poesia si capisce che per Buttitta il siciliano fu lingua e diventò dialettu a causa di un furto: Nuatri l’aviamu a matri, nni l’arrubbaru […]. Chi fu il ladro il poeta non lo dice». (ivi, idem). Lingua e dialettu, afferma Lo Piparo, «è una fotografia, realistica e per questo impietosa, dell’idioma siciliano in cui Buttitta pensa e scrive poesie. Vale mille trattati di sociolinguistica e dialettologia» (ivi: 278) ma le due strofe finali «sono una smentita senza appello di quanti hanno voluto leggere nella poesia un elogio del dialetto» (ivi: 279).
Tornando al presunto furto linguistico subito dai siciliani Lo Piparo ricorda che l’ipotesi venne sostenuta la prima volta nel 1543 dal siracusano Claudio Mario Arezzo. Il tema viene tratto da un passaggio del De vulgari eloquentia in cui Dante afferma che il volgare illustre italiano nasce in Sicilia perché sede del trono regale era l’isola. L’ idea dantesca viene ripresa da Arezzo in termini di furto: il volgare usato dai siciliani colti del tempo era «quillo chi hogi li thoscani pi loro si sono appropriato». (Ivi: 282)
L’argomento del “furto”, secondo il filosofo, ha un risvolto psicoanalitico non detto: «l’idioma siciliano non è lingua autonoma dall’italiano ma è la lingua italiana al suo sorgere. Il primato del siciliano viene a coincidere con l’originaria italianità linguistica della Sicilia. […]. Sub specie linguae si sta discutendo dell’identità culturale dell’isola: la Sicilia è o non è italiana?» (Ivi: 282-285).
Quello di Lo Piparo è un libro davvero singolare che pochi si possono permettere di scrivere. Merita senz’altro di essere letto per la ricchezza dei suoi contenuti e per i tanti stimoli che offre all’approfondimento di temi su cui da secoli si discute. Sicuramente, anche per il carattere polemico e controverso di tante sue pagine, se ne continuerà a parlare.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] Per un esame più storico e socio-politico della Sicilia e dell’ideologia sicilianista rimando a: GIUSEPPE CARLO MARINO, L’ ideologia sicilianista. Dall’età illuminista al Risorgimento, Flaccovio, Palermo 1971 e 1988; NANDO DALLA CHIESA, Il potere mafioso. Economia e ideologia, Mazzotta, Milano 1976 e a Aa. Vv. Storia d’Italia. Le Regioni dall’ Unità a oggi. La Sicilia a cura di MAURICE AYMARD e GIUSEPPE GIARRIZZO, Einaudi, Torino 1987.
[2] Secondo me Lo Piparo sbaglia ad inchiodare Leonardo Sciascia ad una battuta che si lascia scappare nella lunga intervista rilasciata a Marcelle Padovani in Sicilia come metafora. Non è stato Sciascia ad inventare il termine sicilitudine e lo scrittore di Racalmuto è stato uno dei primi a prendere le distanze dall’ideologia sicilianista e a denunciare il fallimento dell’autonomia siciliana.
[3] ANTONIO GRAMSCI, Il Mezzogiorno e la guerra, Il Grido del popolo, 1 aprile 1916. Ora in La questione meridionale, a cura di Franco De Felice e Valentino Parlato, Editori Riuniti, Roma 1972: 55-58.
[4] ANTONIO GRAMSCI, La questione meridionale, op. cit.:135-136.
[5] IGNAZIO BUTTITTA, Io faccio il poeta, Prefazione di Leonardo Sciascia, Feltrinelli, Milano 1972.
[6] TULLIO DE MAURO in Parlare italiano. Antologia di letture, Editori Laterza, Bari 1972:799, sottolinea che Ignazio Buttitta non si poneva problemi linguistici e, contro i puristi del dialetto, osserva che le sue poesie sono scritte nello stesso dialetto italianizzato che si parla a Bagheria. Rimando, inoltre, ad una lunga recensione di Pier Paolo Pasolini del libro di Buttitta in cui si trova Lingua e dialetto, mirabilmente commentata dal bolognese, su cui mi sono soffermato nel saggio: Eredità dissipate Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene Multimedia, Bologna 2023: 133-142.
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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania, di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012); Giuseppe Giovanni Battaglia, un poeta corsaro, in Aa. Vv. Laicità e religiosità nell’opera di G.G. Battaglia (2018); Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene editore Bologna 2022.
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