di Claudio Rosati
Racconta che il luogo gli ricorda quello che gli diceva la madre. Siamo nella stalla alta di Casa di Zela. Durante l’ultima guerra, i soldati tedeschi entrarono in casa per vedere se vi fossero uomini nascosti. Il fratello della donna era appena scappato dimenticando nella fretta una pistola sul tavolo. La donna era riuscita a nasconderla in seno coprendola anche con il bambino piccolo che teneva in braccio. Aveva accompagnato i soldati fin nella stalla dove temeva che, camminando, la pistola le potesse cadere. Quel bambino era lui e il ricordo lo commuove ancora. I volontari del museo restano in silenzio. Ne hanno ascoltate tante di storie, ma non dimenticano questa e non dimenticano, soprattutto, gli occhi lucidi dell’uomo.
Consiglio a questi volontari e a tutti coloro che operano per un museo che sia uno spazio di relazione più che di trasmissione, la lettura del libro curato da Simona Bodo, Silvia Mascheroni, Maria Grazia Panigada, Fare nuove le cose. Patrimonio culturale e narrazione, uno sguardo pluridisciplinare, Mimesis Edizioni, 2024. Nato dall’esperienza del gruppo di lavoro Patrimonio di Storie, creato nel 2019 dalle tre curatrici, il libro offre una bussola per orientarsi nel mondo della narrazione nel patrimonio, per dare senso a quello che talvolta appare un poco tumultuoso nella passione della scoperta. Giova sicuramente a questo ruolo la scelta delle curatrici, e a loro volta autrici, di un taglio pluridisciplinare. Né poteva essere altrimenti. La narrazione è il portato di quella trasformazione del museo che possiamo far risalire agli anni ’70 del Novecento. Un movimento che si manifesta in rivoli diversi, ma che ha una costante nella visione, in continua evoluzione, del visitatore. Una visione così radicale, se inquadrata nei tempi lunghi, che ha fatto sì che la parola, oggi, si dica quasi con pudore perché se ne avverte l’inadeguatezza. Allo stesso si soffre la mancanza di una definizione nuova.
Il pubblico non è al centro del museo, come spesso si dice. Quella che è al centro è la relazione tra l’opera e il visitatore. Cosa ben diversa. Nel nostro caso a piegarsi è il modello trasmissivo. «A chi ascolta è chiesto di accogliere e proteggere: un “ascolto narrativo” in sé” – scrive Silvia Mascheroni, introducendo il saggio di Ivo Lizzola – “Stare sul bordo”, non invadere, implica la disposizione a un’attenzione complice; l’ascolto verso l’altro si fa generativo, fibrillazione di quel sentire profondo che elimina ogni tratto di indifferenza e superficialità» [1]. La circolarità, non scontata in un contesto di accentuata autoreferenzialità, è una delle qualità della narrazione. Saper ascoltare, quindi, è il primo requisito di chi si vuol mettere su questo terreno. «Gli esperti del museo si innamorano dei loro tesori, della loro storia. Si perdono nei loro aspetti specialistici e si dimenticano del museo. Si perdono nella propria idea di museo e si dimenticano della sua ragione d’essere», scrive Simona Bodo richiamando le parole di Laura Raicovich [2]. Insomma, la narrazione non aggiunge ma rimodula il modo di essere museo. Ma questo implica, a sua volta, una revisione profonda del nostro essere operatori. La partecipazione, a esempio, parola quanto mai usata, ha senso se attraversa tutta l’organizzazione, a partire dalla definizione dei bilanci.
«Nel contemporaneo – per Mario Turci – il museo sa che ogni sua narrazione rischia di diventare puramente retorica» [3]. E Turci tocca tutti i tasti del procedere giudizioso non retorico: scambio, partecipazione, superamento di ogni autorità interpretativa, dono. Basterebbe l’accento sul senso dell’ “autorità interpretativa” a mettere in evidenza la portata della trasformazione del museo e di come le pratiche narrative non si possano ridurre ad attività esornative, come penserebbe qualcuno che sente messa in crisi la sacralità dell’istituzione. Turci va alla radice della questione: «Il patrimonio “avviene” quando il museo sa offrire spazi condivisi di costruzione, quando sperimenta le sue possibilità narrative» [4]. «Non tutte le storie diventano patrimonio, ma un patrimonio è tale solo se è fatto di storie», puntualizzano Silvia Brena e Massimiliano Colombi [5]. «I racconti progressivamente costruiscono storie attraverso un lavoro di rammendo di ricordi spezzati, di messa a fuoco di visioni sfocate, di offerta di parola a personaggi ormai muti, e consentono agli stessi “costruttori di patrimoni” di trovare nuove collocazioni dentro le storie stesse (…)» [6]. «Il patrimonio è anche – e soprattutto – questo, un magma fluido di segni volti a definire l’identità di un codice a tratti frantumato e sospeso, ma che ha bisogno dell’altro per avere senso», dicono Michela Valotti e Isabella Bertario [7].
Alla specificità della memoria narrativa, richiama Pietro Clemente che dichiara come la forza comunicativa delle guide museali “indigene” lo abbia sempre colpito: «persone che sentono il museo come parte della propria storia; nel loro racconto si percepiscono e si trasmettono emozioni, dolori, visioni nel ricordo» [8]. Anche Clemente insiste sulla componente del dialogo: «qualsiasi narrazione che non sia un dialogo può essere destinata alla dispersione, o peggio, essere un carico ingiustificato per chi lo deve ricevere» [9]. «Non facciamo che parlare di trasmissione alle nuove generazioni, ma è un desiderio al buio rispetto a un possibile ascolto e a un’apertura al dialogo» [10].
Sulla dimensione autoriflessiva della narrazione, insistono Silvia Barlacchi e Maria Spanò, a partire dall’esperienza dello storico dell’arte alla Galleria degli Uffizi; specialista coinvolto prima come persona che come studioso, «in un percorso a ritroso nella propria formazione, aprendosi a nuove interpretazioni, con occhi diversi: un complesso lavoro su se stessi» [11]. Alla densità della pratica narrativa ci porta Maria Grazia Panigada, una delle tre protagoniste di Patrimonio di Storie. Bergamo, Cesenatico, Firenze, Padova, San Casciano Val di Pesa, segnalano altrettante esperienze, dalla grana fine, mai ripetitive e sempre accrescitive nell’acquisizione di competenze e nel rispetto di un dialogo assecondato [12]. Le testimonianze di narratrici e narratori (Mariangela Fusco, Rosana Giornati, Marzia Gotti, Dudù Kouate, Maria Italia Lanzarini, Tiziana Mauro) chiudono le pagine, ma allo stesso tempo ci aprono al campo del patrimonio costruito ed esplorato.
Andrebbero lette, forse, all’inizio perché capaci di illuminare tutto il resto. Una qualità del libro è anche nella possibilità di passare da un contributo all’altro senza necessariamente rispettare l’ordine dell’indice, ma, si potrebbe dire, l’urgenza di una necessità. Fare nuove le cose, con la sua bella evocazione proustiana, si adatta bene allo zaino di chi voglia attraversare il museo contemporaneo, senza farsi distrarre dalle mode e da presunte scorciatoie digitali, per rimanere nella concretezza e nell’umiltà di un lavoro quotidiano che si nutre di ascolto e di relazioni.
La stalla, le pareti ingombre di oggetti, graficizzati alla Guatelli, ma è soprattutto il clima di reciprocità e di ascolto autentico a far scaturire il racconto del visitatore commosso di Casa di Zela. «La mamma me lo raccontava: mi teneva in braccio e nascondeva la pistola del fratello sotto di me. Avete capito?».
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] S. Mascheroni, Intrecci di senso in S. Bodo, S. Mascheroni e M. G. Panigada (a cura di), Fare nuove le cose, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2024:14.
[2] S. Bodo, Reincantare il patrimonio, in S. Bodo, S. Mascheroni e M. G. Panigada (a cura di), Fare nuove le cose, op. cit.:30.
[3] M. Turci, Non sappiamo più accendere il fuoco, in S. Bodo, S. Mascheroni e M. G. Panigada (a cura di), Fare nuove le cose, op. cit.:30.
[4] Ibidem]
[5] S. Brena, M. Colombi, Costruire storie, costruire comunità, in S. Bodo, S. Mascheroni e M. G. Panigada (a cura di), Fare nuove le cose, op. cit.: 88.
[6] Ibidem
[7] M. Valotti, I. Bertario, La narrazione autobiografica per la formazione dei saperi esperti. Educare al patrimonio culturale, dalle aule alla città, in S. Bodo, S. Mascheroni e M. G. Panigada (a cura di), Fare nuove le cose, op. cit.:116.
[8] P. Clemente, Umane dimenticate storie, in S. Bodo, S. Mascheroni e M. G. Panigada (a cura di), op. cit.:77.
[9] Idem:80.
[10] Ibidem
[11] S. Barlacchi, M. Spanò, Raccontare l’arte nei musei. Un dialogo possibile fra emozione estetica e rigore scientifico, in S. Bodo, S. Mascheroni e M. G. Panigada, Fare nuove le cose, op.cit.:107.
[12] M. G. Panigada, Narrare e incontrarsi nel patrimonio, in S. Bodo, S. Mascheroni e M. G. Panigada, Fare nuove le cose, op.cit.: 121-138.
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Claudio Rosati, storico e museologo è autore di musei e saggista. Ha progettato, tra altri, anche in collaborazione, il Museo di San Salvatore, il Museo dell’Ospedale del Ceppo, il Museo della Gente dell’Appennino Pistoiese. Ha partecipato al progetto di riallestimento del Museo della Ceramica a Montelupo ed è autore del progetto del Museo del Ciclismo in occasione dei Mondiali del 2013. Ha partecipato, come consulente, al progetto del Museo delle Deportazioni a Firenze e al Museo Ferrucciano di Gavinana. È socio fondatore e componente del comitato scientifico della Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici. Come docente a contratto ha insegnato in corsi universitari a Firenze e Pisa. Ha presieduto il collegio dei probiviri di Icom Italia e ha diretto il settore musei della Regione Toscana. È autore, tra altri, di Amico museo. Per una museologia dell’accoglienza (2015) e di Musei in Toscana. Dentro e fuori la cornice (2022).
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