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Chi definisce l’odio? Un’analisi delle dinamiche dell’antisemitismo contemporaneo

Anti,-,Semitism,Word,Concept,On,Cubesdi Giovanni Gugg 

Chi decide cos’è discriminazione?

La centralità delle vittime nella definizione di fenomeni di discriminazione rappresenta un cambiamento di paradigma nelle scienze sociali, che si oppone alle visioni dominanti imposte dall’esterno. Questa prospettiva trae origine dal riconoscimento che chi subisce una forma di oppressione ne sperimenta gli effetti più profondi e ha quindi una comprensione diretta della loro natura. Ad esempio, il concetto di “safe space” (Amenabar 2016) nasce proprio per garantire alle vittime un luogo protetto in cui esprimere la propria esperienza senza il rischio di essere giudicate o invalidate.

Vari autori hanno contribuito a porre le basi per questa interpretazione, sottolineando come l’esperienza della discriminazione razziale plasmi profondamente l’identità e la coscienza di chi la subisce, perché il razzismo è un sistema di potere e discriminazione, che diventa visibile e tangibile nelle esperienze vissute da coloro che lo soffrono. Frantz Fanon ha affrontato in Peau noire, masques blancs (1952) la condizione di chi subisce il razzismo coloniale, e in alcune parti del libro fa cenni alle relazioni interrazziali e alle discriminazioni religiose, come ad esempio quella antiebraica:

«Le Juif est atteint dans sa personnalité confessionnelle, dans son histoire, dans sa race, dans les rapports qu’il entretient avec ses ancêtres et ses descendants; dans le Juif qu’on stérilise, on tue la souche; chaque fois qu’un Juif est persécuté, c’est toute la race qu’on persécute à travers lui» (ivi : 133) [1].

fanonDal canto suo, William Edward Burghardt Du Bois, pioniere nello studio delle questioni razziali e dell’identità nera negli Stati Uniti, nonché figura centrale nella nascita della sociologia moderna e precursore dei “Black Studies”, è stato particolarmente segnato dai suoi viaggi in Germania e Polonia, dove ha osservato gli effetti dell’antisemitismo, dacché ha potuto riflettere su come le discriminazioni razziali e religiose fossero interconnesse. È il cuore del suo celebre articolo “The Negro and the Warsaw Ghetto” (1952), in cui ha messo in relazione il problema del razzismo negli Stati Uniti e le sue osservazioni sul ghetto di Varsavia, visitato sei anni dopo la distruzione perpetrata dai nazisti, seguita all’insurrezione degli abitanti ebrei contro le deportazioni. Da questa esperienza, Du Bois ha elaborato una prospettiva più ampia sulle ingiustizie sociali e una visione unitaria dei pregiudizi, considerando sia l’antisemitismo sia il razzismo contro i neri come manifestazioni di violenza e capri espiatori.

In generale, tutti gli studi culturali successivi hanno trattato il razzismo dal punto di vista di chi lo vive, evidenziando il ruolo delle strutture di potere che perpetuano le disuguaglianze ed enfatizzando che coloro che sperimentano il razzismo hanno la posizione più legittima per definirlo, in quanto ne vivono le conseguenze dirette (Crenshaw 1991).

Nel caso dell’antisemitismo, tuttavia, la dinamica si complica, infatti è emerso un dibattito particolarmente complesso intorno alla sua definizione e al suo riconoscimento, soprattutto quando sono le stesse persone ebree a definirlo e a esprimere cosa significhi per loro. In molti contesti, gli ebrei che parlano di antisemitismo si trovano talvolta ad affrontare dubbi o critiche, con la loro esperienza talvolta messa in discussione da chi non vive direttamente questa forma di discriminazione. Difatti, la sovrapposizione tra identità ebraica e il sostegno allo Stato di Israele, crea un terreno ambiguo, dove il confine tra critica legittima e pregiudizio antiebraico è difficile da tracciare. Questo è un tema anche nelle discussioni accademiche e politiche, in particolare negli ultimi decenni. Ad esempio, la definizione di antisemitismo fornita dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA 2016), che include riferimenti specifici a certe forme di critica verso Israele, è stata accolta con approvazione in alcuni ambienti e contestata in altri, proprio perché è percepita come un tentativo di limitare o influenzare la voce e l’esperienza degli ebrei:

«Negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo. Applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico».

Secondo alcuni studiosi e attivisti, l’antisemitismo verrebbe spesso trattato come un’eccezione rispetto ad altre forme di razzismo. Mentre il razzismo in generale viene generalmente interpretato come un sistema di potere che richiede la testimonianza di chi lo subisce per essere compreso, per l’antisemitismo a volte si adottano criteri esterni o si richiede una “prova” delle intenzioni discriminatorie. Questo porta a situazioni in cui l’esperienza diretta degli ebrei è relativizzata, anche in ambienti universitari o progressisti.

In effetti, i due fenomeni possono essere considerati in maniera differente. Per semplificare, dalla prospettiva sociologica sono simili, ma da quella storica sono diversi. Il razzismo e l’antisemitismo rappresentano due modalità di esclusione e rifiuto dell’altro, entrambe radicate in fenomeni ideologici distinti, sebbene intrecciati in certi periodi storici. Tuttavia, se il rifiuto dell’altro basato sulla differenza percepita come essenziale è un fenomeno che attraversa l’intera storia dell’umanità, tale rifiuto può essere classificato in diverse categorie, come la xenofobia, il razzismo in senso stretto e, appunto, l’antisemitismo. In particolare, l’antisemitismo – soprattutto durante alcune sue manifestazioni storiche tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX – può essere interpretato come una forma particolare di razzismo, ma non si riduce a esso. Le basi dell’antisemitismo, infatti, non si fondano sempre su teorie razziali moderne o sulla convinzione di una superiorità biologica: in molti casi, come durante il Medioevo e l’età moderna, furono dogmi religiosi a giustificare le persecuzioni contro gli ebrei, indipendentemente da concezioni razziali nel senso ottocentesco del termine (Klug 2013).

Klug al convegno sull'antisemitismo in Europa, 2013

Klug al convegno sull’antisemitismo in Europa, 2013

Distinguere razzismo e antisemitismo è essenziale per comprendere le loro motivazioni, i discorsi che li accompagnano e le manifestazioni che li caratterizzano. Tuttavia, tale distinzione non deve mai implicare una contrapposizione etica o politica tra i due fenomeni, né tantomeno suggerire una gerarchia di gravità. Entrambi rappresentano forme di rifiuto dell’altro che richiedono una condanna inequivocabile e un impegno unanime per contrastarle. Comprenderne le specificità e i punti di convergenza è fondamentale per combatterli in modo adeguato ed efficace.

butlerUn ulteriore livello di complessità interviene con il concetto di “antisionismo”. Partendo dal presupposto che l’antisemitismo è un fenomeno complesso, Judith Butler sostiene che non sia riconducibile a un unico contesto e che debba essere analizzato considerando la sua dimensione storica e politica. Secondo Butler, criticare le strutture di potere geopolitico (antisionismo) non equivale ad antisemitismo, mentre lo diventa quando si rappresentano gli ebrei come un gruppo uniforme, responsabile delle azioni di Israele. In Parting Ways (2012), Butler esplora il legame tra la situazione dei palestinesi e le tradizioni ebraiche diasporiche per proporre un nuovo approccio che favorisca una soluzione a uno Stato. Critica il sionismo politico per il suo nazionalismo e razzismo istituzionale, e supera le cornici comunitarie ebraiche per immaginare una convivenza politica basata sulla pluralità. Dialogando con figure come Edward Said, Hannah Arendt e Primo Levi, Butler rifiuta l’idea che Israele rappresenti tutto il popolo ebraico e sfida le accuse contro gli ebrei che criticano Israele. Propone, quindi, un’etica politica fondata su obblighi di coabitazione, che non dipendono da somiglianze culturali ma dalla diversità sociale, promuovendo una visione che trascende i limiti di identità e appartenenze esclusive.

finkelinAnche altri hanno sottolineato che l’accusa di antisemitismo potrebbe, in alcuni casi, essere strumentalizzata per delegittimare posizioni critiche verso Israele. Norman Finkelstein, ad esempio, lo ha scritto in maniera esplicita: in The Holocaust Industry (2000) sostiene che alcuni sfruttano la memoria dell’Olocausto come «arma ideologica» per garantire «l’immunità dalle critiche» a Israele, definito «Stato suprematista ebraico».

Questo uso potenzialmente abusivo dell’accusa pone una sfida: come mantenere l’ascolto attivo delle vittime senza trasformare il discorso in un’arma politica? È la riflessione portata avanti dallo storico David Feldman (2018), direttore del “Pears Institute for the Study of Antisemitism”, che ha scritto proprio sulle sfide di definire l’antisemitismo oggi, specialmente nel contesto contemporaneo:

«Yet today the term “anti-Semitism” also marks another battleground. Objections to anti-Semitism often now arise in relation to debate on the existence, policies, and practices of a Jewish state—Israel. The literature here is voluminous. At its core is the charge that disproportionate or obsessive criticism of Israel, as well as categorical opposition to the existence of Israel as a Jewish state, constitutes either the new anti-Semitism or a continuation of the old» (ivi: 1149) [2].

Questo scenario mostra quanto sia complesso costruire un consenso sulle definizioni di odio e discriminazione, specialmente quando queste si intrecciano con questioni di identità nazionale e conflitto geopolitico. Sostenere il principio dell’ascolto delle vittime richiede, dunque, uno sforzo continuo per bilanciare giustizia, rappresentazione e libertà di espressione. 

La definizione attuale di antisemitismo, e le sue controversie

La definizione adottata dall’IHRA (2016) rappresenta uno sforzo significativo per fornire uno strumento pratico di identificazione e contrasto dell’antisemitismo. La Commissione Europea (2021) la considera «un punto di riferimento per promuovere un approccio basato sui diritti umani e incentrato sulle vittime per combattere l’antisemitismo», e la raccomanda «come strumento utile, in particolare per scopi educativi e formativi per insegnanti, ONG, autorità statali e media». Nella sua versione breve («operativa non giuridicamente vincolante»), la definizione recita:

«L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni retoriche e fisiche dell’antisemitismo sono dirette verso individui ebrei o non ebrei e/o le loro proprietà, verso istituzioni della comunità ebraica e strutture religiose».

Nella sua versione estesa, la definizione riconosce l’ampiezza del fenomeno, che va dall’odio e pregiudizio espliciti agli attacchi più sottili, come l’uso di stereotipi negativi o il negare il diritto dello Stato di Israele a esistere. Questa definizione operativa ha trovato ampia accettazione in molti contesti istituzionali, ma anche alcune critiche. In particolare, studiosi e attivisti sottolineano il rischio che includere critiche a Israele, sebbene contestualizzate, possa soffocare il legittimo dibattito politico, specie quando riferito a temi come l’occupazione dei territori palestinesi o le politiche governative israeliane, come hanno scritto 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi in una lettera al “Guardian” nel novembre del 2020 (Aa.Vv. 2020).

Il termine “antisemitismo” nasce negli anni Settanta dell’Ottocento per descrivere nuove forme di avversione verso gli ebrei, in un’Europa caratterizzata da un crescente fervore nazionalista e dall’affermazione delle teorie razziali. Il vocabolo fu coniato dal filologo ebreo Moritz Steinschneider, che la trasse dal sostantivo “semita”, e la sua prima attestazione si deve a un articolo del 1879 pubblicato sulla rivista ebraica “Allgemeine Zeitung des Judenthums” (Singer 1901-1906). In quell’articolo, si annunciava la pubblicazione di un «settimanale antisemita» da parte del pamphlettista tedesco Wilhelm Marr, che fu il primo a introdurre il termine nel linguaggio politico e razzista. All’interno di un discorso in cui intendeva giustificare il pregiudizio contro gli ebrei su basi razziali piuttosto che religiose, Marr dipinse gli ebrei come un’entità etnica e culturale opposta al “popolo tedesco”, introducendo così un linguaggio che sarebbe stato presto adottato da movimenti nazionalisti e razzisti in tutto il continente.

wierkoksIl neologismo “antisemitismo” si diffuse rapidamente, divenendo popolare per designare in modo apparentemente nuovo e laico un’antica ostilità. Fu allora che avvenne il passaggio cruciale: il vecchio pregiudizio si trasformò in un’ideologia politica e pseudo-scientifica, basata sull’idea che l’umanità potesse essere divisa in razze biologicamente distinte e gerarchicamente organizzate. Strutturandosi attorno all’idea della razza, infatti, l’antisemitismo pretendeva di descrivere gli ebrei – classificati come “semiti” – non solo come moralmente o intellettualmente inferiori («naturalmente malvagi» e «intrinsecamente avidi»), ma anche dotati di caratteristiche fisiche che li rendevano visibilmente diversi dagli altri («il naso adunco, le labbra particolarmente spesse o, al contrario, insolitamente sottili, e orecchie grandi e sporgenti») (Wieviorka 2024, p. 13).

Prima dell’introduzione del termine, i pregiudizi contro gli ebrei si manifestavano principalmente in forme religiose (gli ebrei venivano accusati di “deicidio”, cioè di essere responsabili per la morte di Gesù Cristo), che avevano spesso conseguenze violente: dall’emarginazione alla persecuzione, fino alle oppressioni, espulsioni, ghettizzazioni e stragi. Attraverso la cosiddetta “giudeofobia popolare cristiana”, in Europa per secoli gli ebrei erano stati vittime del fanatismo superstizioso delle masse popolari; dell’invidia per le buone posizioni economiche di alcune famiglie ebraiche; dell’emarginazione culturale e della mancanza di integrazione sociale degli ebrei stessi, che dunque erano stati frequentemente un facile capro espiatorio per i problemi della società; del disprezzo pubblico manifestato contro gli ebrei anche a livello istituzionale e religioso; dei pregiudizi come le false accuse di praticare l’usura, di compiere assassinii rituali o di diffondere epidemie, come la peste.

Il termine “semita” compare alla fine del Settecento nell’ambito della linguistica comparata per descrivere un gruppo di idiomi strettamente imparentati tra loro. Appartengono a questo gruppo l’accadico, il babilonese, il fenicio, l’aramaico, l’ebraico e l’arabo, parlate da popoli che, secondo la tradizione biblica, discenderebbero da Sem, uno dei figli di Noè. Come osserva Wieviorka, paradossalmente questa costruzione culturale intorno alla parola “semita” – e tutto quel che ne è derivato – affonda le sue radici nel testo sacro.

In quello stesso periodo, si iniziò anche a identificare il sanscrito come la lingua parlata da un presunto popolo originario, i cosiddetti ariani. Secondo queste teorie, gli ariani avrebbero avuto origine in India e si sarebbero diffusi in Europa, lasciando tracce linguistiche che rivelavano una parentela tra il sanscrito e molte lingue europee. Questa scoperta alimentò una crescente convinzione che gli ariani fossero gli antenati dei popoli europei. Ben presto, si sviluppò una narrativa mitica che attribuiva agli ariani una presunta superiorità intellettuale, morale, estetica e culturale, concepita come un tratto trasmesso ereditariamente ai loro discendenti, gli indoeuropei. In questo contesto, i popoli germanici furono surrettiziamente considerati come i più puri e diretti eredi di questa stirpe ideale.

Pertanto, sebbene inizialmente la distinzione fosse di natura linguistica, essa fu rapidamente caricata di significati razziali e culturali, contribuendo a giustificare la discriminazione verso gli ebrei. Dalla metà dell’Ottocento, vari studi condotti in Francia, Germania e Inghilterra contribuirono a trasformare questa immaginata superiorità culturale ariana in un’ideologia di superiorità razziale biologica. La storia venne così reinterpretata come una continua lotta tra razze, considerate intrinsecamente disuguali. È questo il contesto in cui nasce il termine “antisemitismo”. Sebbene il suo significato letterale indichi un’“ostilità verso i semiti” – comprendendo quindi anche arabi e altri popoli semitici – il suo impiego storico e attuale si riferisce esclusivamente all’ostilità verso gli ebrei.

Nel tempo, il termine ha avuto varie declinazioni, a dimostrazione che l’antisemitismo è un costrutto che evolve insieme alle ideologie e ai contesti sociopolitici in cui si inserisce. È per questo che, oggi, la necessità di una definizione chiara e condivisa come quella dell’IHRA riflette non solo l’urgenza di combattere l’odio antiebraico, ma anche la complessità del fenomeno, che continua a adattarsi ai nuovi contesti globali e culturali.

71wbquzn33lLe molteplici forme dell’antisemitismo

Sul piano storico, quel che chiamiamo antisemitismo si è manifestato in forme diverse. Una delle più antiche è quella religiosa cristiana, che accusava gli ebrei di “deicidio”, ossia di essere responsabili della morte di Gesù. A questa si sono aggiunte altre forme, come l’antisemitismo economico, basato sull’accusa di manipolazione finanziaria, come nel caso dei Rothschild, stereotipo che è stato utilizzato per giustificare persecuzioni e pogrom; quello politico e nazionale, che vedeva gli ebrei come una minaccia alla coesione degli Stati-nazione europei; e quello razziale, culminato con il genocidio della Shoah, che ha codificato l’odio antiebraico su basi biologiche.

L’antisemitismo religioso affonda le sue radici nei primi secoli del cristianesimo, quando la Chiesa, per affermare la propria identità, si distanziò dall’ebraismo, accusandolo di essere una religione “superata” e di aver causato la morte di Gesù. Per questi motivi, è anche noto come “antigiudaismo teologico cristiano”, la cui narrazione del “deicidio” portò a secoli di emarginazione, conversioni forzate, espulsioni e massacri. La figura dell’ebreo come “altro” rispetto alla comunità cristiana si consolidò nel Medioevo, con rappresentazioni stereotipate che lo dipingevano come usuraio, avaro e malvagio, persino in possesso di poteri sovrannaturali. Esempi drammatici includono le accuse di “omicidio rituale”, come nel caso del martirio di Simonino di Trento, un bambino al centro di un’accusa contro la comunità ebraica locale nel 1475. Il corpo del piccolo Simone fu ritrovato nei pressi della casa di un membro della comunità ebraica di Trento, per cui gli ebrei furono accusati, processati e condannati a morte basandosi su confessioni estorte sotto tortura, alimentando la leggenda dell’omicidio rituale (Teter 2020). La morte del bambino fu utilizzata come strumento di propaganda religiosa e politica da parte del principe vescovo Johannes Hinderbach, che sfruttò immagini e stampa tipografica per diffondere questa falsa accusa, trasformandola in un prototipo di altre accuse simili nei secoli successivi. Ne derivarono violenti pogrom e un culto che ha avuto profonde ripercussioni storiche, smentito solo nel XX secolo, quando gli storici hanno dimostrato l’infondatezza di quelle accuse e, al contrario, l’incidenza del pregiudizio antigiudaico (infatti nel 1965, durante il Concilio vaticano II, la Chiesa ha ufficialmente abrogato il culto del Simonino):

«The existence and dissemination of Simon’s story and cult helped further reinforce European Christians’ belief that Jews murdered Christian children. […] The blood libel in Trent, a city at the foothills of the Alps, was neither the first nor the last in the long series of antiJewish charges in European history, but it was pivotal and paradigmatic» [3] (Teter 2020: 7).

61kwhqjzptl-_ac_uf10001000_ql80_Con l’emergere del capitalismo europeo, soprattutto a partire dal XVIII secolo, gli ebrei furono spesso associati alla finanza e al commercio, settori in cui erano stati spinti a lavorare a causa delle restrizioni che, per secoli, avevano impedito loro di possedere terre o praticare altre professioni “riservate” ai cristiani. Queste condizioni storiche hanno contribuito a sviluppare e consolidare una serie di pregiudizi nei confronti degli ebrei, che venivano visti non solo come “stranieri”, ma anche come “manipolatori economici”, mentre invece erano semplicemente dei “mediatori finanziari” che gestivano prestiti e transazioni. Tale situazione ha creato un terreno fertile per la nascita dell’antisemitismo economico, che associava gli ebrei – distorti in “nemici invisibili” – alla contraffazione dei mercati e all’accumulo di ricchezza in modo illecito.

Le famiglie bancarie ebraiche, come i Rothschild, furono così trasformate in simboli di un “complotto finanziario globale”, un’immagine che ha alimentato teorie cospirative che continuano a persistere in alcuni ambienti. In questi miti, gli ebrei erano accusati di essere artefici di crisi economiche, di guerre e di conflitti internazionali, come se la loro influenza nel sistema economico fosse la causa di tutte le disgrazie. Si tratta di stereotipi economici divenuti ancora più pericolosi in momenti di crisi, come accaduto durante la Grande Depressione degli anni ‘30. In tempi di incertezze finanziarie, infatti, la ricerca di un capro espiatorio è spesso più forte, e gli ebrei, già associati al denaro e ai problemi economici, venivano incolpati di essere responsabili del crollo delle economie nazionali. In circostanze del genere, il legame tra capitale e complotti veniva facilmente riattivato da movimenti politici estremisti, che sfruttavano la paura e l’odio per incitare alla persecuzione degli ebrei. Analizzando gli articoli antisemiti di Henry Ford in “The International Jew” e i sermoni antisemiti di Charles E. Coughlin, un presbitero cattolico del Michigan, Gabriella e Dumitru Tucan (2024) osservano che si trattò di discorsi emblematici di quegli anni di crisi in America, i quali, in un clima di profonda sfiducia sociale, veicolarono l’ostilità verso gli stranieri e gli ebrei come mai prima di allora:

«Rather than addressing the genuine issues […], they both diverted public attention to an imagined crisis. This diversion caused widespread public anxieties and unrest, and therefore placed an unnecessary burden on a society already facing significant hardships. Their approach to crisis, as constructed through language, was deeply grounded in their ideological leanings rather than a nuanced understanding of the actual factors contributing to the nation’s economic downfall. Not coincidentally, their audience was the vulnerable and marginalized middle class, whose fears and anxieties they exploited extensively. They provided easy explanations for a complex situation with no easy solutions, while all the time highlighting a public adversary. Their scapegoating narratives focused on Jews, a longstanding target that tragically had been associated with social, economic, and political issues throughout history»[4] (Tucan 2024: 48-49).

Nel XIX secolo, con la nascita degli Stati-nazione, si affermò un’idea di identità nazionale basata su un’appartenenza culturale, religiosa e politica omogenea. In questo contesto, gli ebrei vennero spesso considerati come “estranei” non assimilabili, un’immagine alimentata da pregiudizi storici e da un antisemitismo politico che si adattò ai nuovi paradigmi. In particolare, l’accusa di “doppia lealtà” rifletteva la convinzione che gli ebrei, pur vivendo all’interno degli Stati-nazione, fossero più fedeli alla loro comunità religiosa o alle reti transnazionali ebraiche che agli interessi dello Stato. Questa percezione fu rafforzata dal loro presunto cosmopolitismo, che li collocava al di fuori della narrativa nazionalista dominante. Tale stereotipo li dipingeva come apolidi, privi di un vero radicamento territoriale, e quindi come una potenziale minaccia per la stabilità politica e sociale.

imagesUn caso paradigmatico è rappresentato dall’affaire Dreyfus in Francia (1894-1906), quando Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo dell’esercito francese, fu ingiustamente accusato di tradimento a favore della Germania. Il caso fu emblematico per diverse ragioni. Innanzitutto, per la sua strumentalizzazione politica, dal momento che l’accusa a Dreyfus fu utilizzata da forze nazionaliste e conservatrici per rafforzare un’idea esclusivista di identità francese, basata su cattolicesimo e tradizione monarchica. Ma la vicenda fu accompagnata da una violenta campagna mediatica e popolare contro gli ebrei, rappresentati come “estranei” incapaci di vera fedeltà alla nazione. Inoltre, il caso divise profondamente la società francese tra dreyfusardi (che sostenevano l’innocenza di Dreyfus e i valori repubblicani di uguaglianza) e antidreyfusardi (che difendevano la colpevolezza di Dreyfus e un’idea nazionalista ed esclusivista dello Stato) (Duclert 2010).

In molti Stati-nazione, pertanto, gli ebrei vennero trasformati in simboli dei problemi sociali, economici e politici. La modernizzazione, l’urbanizzazione e le fluttuazioni economiche venivano spesso attribuite agli “intrighi” di presunti gruppi ebraici elitari. Questo processo di scapegoating, cioè di “capro espiatorio”, permise alle élite politiche di deviare l’attenzione dai propri fallimenti, individuando un nemico su cui canalizzare il malcontento popolare. Si tratta di un meccanismo tipico dei periodi di crisi economica, in cui l’aumento dei pregiudizi verso determinati gruppi rivela quello che René Girard chiama “desiderio mimetico”, quando l’attribuzione di responsabilità agli altri mostra il potere dei dominanti, ma allo stesso tempo la loro debolezza morale: «è perché è un modello che l’Altro è un rivale, ma è anche perché è un rivale che è un modello» (Squillaci 2015).

Nel XIX e XX secolo, con la diffusione delle teorie razziali pseudoscientifiche, l’antisemitismo si evolse in una forma biologica, che classificava gli ebrei come una “razza inferiore” incompatibile con la purezza delle nazioni ariane. Tra i principali fautori di queste idee c’erano figure come Joseph Arthur de Gobineau, che con il suo Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane (1853-54) promuoveva l’idea che le “razze” superiori fossero destinate a governare, mentre quelle “inferiori” dovevano essere controllate o eliminate, legittimando il colonialismo e la schiavitù. Il culmine di questa visione delirante fu il nazismo, che trasformò il pregiudizio in politiche sistematiche di discriminazione, deportazione e sterminio. La “purezza della razza ariana” divenne un concetto centrale nella propaganda nazista, che cercava di creare una società etnicamente omogenea, eliminando tutte le “minacce” percepite, tra cui gli ebrei, che venivano visti come una contaminazione biologica. Questo portò alla Leggi di Norimberga del 1935, che privavano gli ebrei della cittadinanza tedesca e ne criminalizzavano il matrimonio e l’integrazione con i “non ebrei”. La Shoah, quindi, non fu solo un genocidio basato sulla morte sistematica di sei milioni di ebrei, ma un tentativo di cancellare completamente la loro presenza dalla storia e dalla cultura europea: i nazisti non si limitarono a sterminare gli ebrei nei campi di concentramento e di sterminio, ma cercarono anche di distruggere ogni traccia della loro cultura, storia e identità.

Queste diverse forme di antisemitismo non si escludono a vicenda, ma spesso si intrecciano e si adattano ai contesti storici. Ad esempio, l’antisemitismo religioso e quello economico sono stati usati insieme per giustificare i pogrom zaristi in Russia, mentre il nazismo mescolò antisemitismo razziale e politico per mobilitare il consenso popolare. Ancora oggi, queste tipologie sopravvivono in forme più o meno esplicite, dimostrando la straordinaria capacità dell’antisemitismo di reinventarsi in risposta ai cambiamenti sociali e culturali.

L’adattamento dell’antisemitismo post-Shoah

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la scoperta delle atrocità perpetrate durante l’Olocausto e il conseguente processo di denazificazione hanno reso più difficile esprimere pubblicamente sentimenti antisemiti, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Tuttavia, questo non ha significato la fine dell’antisemitismo. Anzi, ha forzato l’odio verso gli ebrei ad assumere forme più indirette, in modo da aggirare il tabù sociale e politico che ora gravava su espliciti attacchi razzisti.

9791220274159Una delle forme più comuni di antisemitismo post-bellico è quella legata alle teorie cospirative. Un esempio significativo di questa transizione è la riproposizione del “complotto ebraico globale”, già propagato dai “Protocolli dei Savi di Sion”, un documento falsificato che sosteneva l’esistenza di una cospirazione ebraica per il dominio mondiale, e poi rilanciato in occasione degli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e in altre località americane, come se fossero un’operazione segreta del Mossad e della CIA. Oggi, invece di essere espressamente formulato in questi termini, l’antisemitismo si nasconde sotto l’accusa di un presunto controllo ebraico sulle finanze, sui media o sulla politica, indirizzando la critica verso presunte “lobby” ebraiche piuttosto che contro gli ebrei come popolo.

Un altro elemento fondamentale in questa evoluzione è l’uso del sionismo e di Israele come nuovi bersagli della critica. La fondazione dello Stato di Israele nel 1948 ha rappresentato un punto di svolta nella geopolitica globale, con l’emergere di una nuova dinamica: la critica a Israele è diventata, in molti casi, un mezzo per esprimere sentimenti antisemiti. In contesti dove le critiche alle politiche israeliane si mescolano con stereotipi tradizionali sugli ebrei, l’antisionismo diventa un modo per attaccare non solo lo Stato di Israele, ma anche tutte le persone che professano l’ebraismo.

Per comprendere il termine “antisionismo”, è preferibile cominciare definendo cos’è il “sionismo”. Questo vocabolo viene da Sion, una delle colline di Gerusalemme, e nel XIX ha dato il nome a un movimento promosso da Theodore Herzl che sostiene l’insediamento degli ebrei nella terra che all’epoca era chiamata Palestina e che loro chiamavano terra d’Israele. Quel movimento ambiva alla autodeterminazione del popolo ebraico, non diversamente da altre spinte nazionalistiche ottocentesche, come ad esempio il Risorgimento italiano [5]. Tuttavia, il consenso verso quell’idea non fu unanime nel mondo ebraico: c’erano, infatti, ebrei antisionisti che si opponevano all’insediamento degli ebrei in quella terra, in particolare tra gli ebrei ortodossi, per i quali il ritorno a Sion avrebbe dovuto avvenire solo dopo l’arrivo del Messia, ma anche all’interno del potente movimento socialista ebraico dell’epoca. La sua crescita è legata all’affaire Dreyfus, che evidenziò come l’antisemitismo persisteva anche dove gli ebrei si erano assimilati, come in Francia. Dopo la Shoah, però, il termine “sionista” fu usato in alcuni contesti come eufemismo per “ebreo”, specie nei Paesi occidentali, dove l’antisemitismo divenne legalmente punibile e, dunque, vi si sovrappose l’antisionismo.

Le gradazioni del termine si fanno ambigue e scivolose quando le legittime critiche alla politica del governo israeliano, praticate anche all’interno di Israele, si confondono con quel particolare tipo di antisionismo che attribuisce a Israele ogni problema globale o che ne contesta l’esistenza stessa. Evidentemente, le sfumature sono essenziali, eppure l’antisionismo contemporaneo sembra derogarvi frequentemente, perché è spesso inquadrabile come una convergenza di ideologie, tra cui l’antisemitismo cattolico conservatore, l’ideologia di alcuni gruppi islamisti e posizioni di estrema sinistra. Accuse come il paragone tra Israele e il regime nazista, la negazione del diritto di Israele ad esistere come Stato sovrano, o l’associazione di Israele con forze diaboliche, riflettono schemi tipici dell’antisemitismo, ma vengono camuffate da critica politica. Questo fenomeno non è limitato a un solo contesto o a un’unica area geografica, ma si manifesta in vari luoghi del mondo, dove le tensioni geopolitiche e le questioni relative a Israele offrono terreno fertile per la diffusione di questi pregiudizi.

Come già anticipato, l’IHRA ha cercato di contrastare questa sovrapposizione, includendo nelle sue linee guida una definizione di antisemitismo che comprende anche le forme moderne, come l’uso dell’antisionismo come veicolo per l’odio contro gli ebrei. Tuttavia, questa posizione ha suscitato polemiche, con alcuni critici che sostengono che una definizione troppo ampia rischi di limitare la libertà di espressione, soffocando il dibattito legittimo sulle politiche israeliane. Si tratta di una controversia che mette in luce un delicato equilibrio tra la protezione contro l’odio e la libertà di esprimere opinioni politiche, specialmente in un contesto di conflitti internazionali complessi.

istituto-cataneo-antisemitismoNei decenni successivi alla Shoah, l’antisemitismo non è scomparso, ma ha assunto forme più velate e complesse, magari frammentate e sfaccettate, che richiedono una vigilanza continua per identificare e contrastare le sue nuove manifestazioni. Il 7 ottobre 2023, ad esempio, ha drammaticamente riacceso il conflitto tra Israele e Hamas e, con esso, le tensioni che già esistevano, compreso il fenomeno dell’antisemitismo, portandolo ad un livello mai visto dalla fine della Seconda guerra mondiale, addirittura in ambito accademico. Uno studio sociologico dell’Istituto “Carlo Cattaneo” (Colombo et al. 2023) rivela gli atteggiamenti degli studenti di tre università dell’Italia settentrionale verso gli ebrei e verso Israele, prima e dopo il 7 ottobre. L’indagine identifica tre componenti principali dell’antisemitismo: l’antisemitismo classico, basato su accuse di cospirazione e “doppia lealtà”, più diffuso tra chi si colloca politicamente a destra (lo studio ha notato una riduzione temporanea di questa componente nei giorni successivi all’evento, seguita però da un ritorno ai livelli iniziali); l’accusa a Israele di comportarsi come la Germania nazista, più comune a sinistra, con una crescita significativa dopo il 7 ottobre, in particolare tra gli studenti delle posizioni politiche più radicali (nelle settimane seguenti, si è avvicinata al 70% tra i giovani di sinistra); l’antisemitismo con accuse multiple agli ebrei, che include accuse di sfruttare l’Olocausto e di essere oppressori (questa componente non mostra segni di riduzione e alcune accuse specifiche aumentano in modo consistente).

In generale, lo studio mostra che l’evento del 7 ottobre ha avuto impatti diversi sui vari indicatori, sottolineando la complessità del fenomeno e la sua distribuzione lungo l’asse politico: secondo la autocollocazione politica degli intervistati, osserva Asher Colombo, si nota che tra chi si definisce di destra o di centro destra i dati non cambiano, mentre tra chi si reputa di sinistra o centro sinistra i dati crescono, e crescono sensibilmente nel centro sinistra dopo il 7 ottobre. «L’idea che gli ebrei sfruttino a proprio vantaggio la Shoah non si riduce dopo il 7 ottobre e quella secondo cui Israele sarebbe come la Germania nazista, cresce», conclude Colombo (cit. in De Pas 2024).

Questo antisemitismo non sempre si manifesta in forma esplicita, ma attraverso allusioni o stereotipi che alimentano pregiudizi storici contro gli ebrei. Un esempio può essere l’uso di linguaggi o immagini che, pur non menzionando esplicitamente l’ebraismo o il popolo ebraico, evocano concetti e tendenze antisemite tradizionali. Le università, dove la libertà di espressione dovrebbe essere una priorità, sono diventate un terreno di conflitto ideologico in cui le critiche a Israele talvolta sfociano in attacchi contro gli ebrei, anche a livello simbolico e sociale; è quello che la editorialista Eugénie Bastié – con riferimento specifico alla situazione negli Stati Uniti e, in parte, in Francia – ha definito “antisemitismo dei campus” (Bastié 2024).

cattura-8Si tratta di una forma di antisemitismo che non si limita alla violenza verbale o alle discriminazioni esplicite, ma che si insinua anche nei discorsi quotidiani, nei dibattiti e nelle pratiche educative. Questo fenomeno non solo compromette il dibattito intellettuale, ma mina anche la possibilità di una riflessione critica che possa davvero separare le questioni politiche e sociali dalla religione o dalla cultura di un intero popolo. La crescente diffusione di questo tipo di antisemitismo suggerisce la necessità di una maggiore consapevolezza e di un impegno per educare alla differenza, alla comprensione interculturale e alla lotta contro le discriminazioni in tutti i contesti sociali e culturali. Soprattutto, colpisce l’uso esagerato o impreciso di determinati termini (“nazista”, “fascista”, “regime”…), che evidenzia soltanto il livello di impoverimento concettuale e la banalizzazione di fenomeni storici e politici complessi. Andrebbe recuperata la consapevolezza di un uso accurato e responsabile del vocabolario, specialmente da parte di intellettuali e accademici, per evitare di alimentare il pensiero demagogico e le intolleranze ideologiche (Lanzieri 2024).

Forse il tratto più preoccupante di questo antisemitismo contemporaneo è la sua “normalizzazione”, perché rappresenta una dinamica particolarmente insidiosa. La “banalisation”, per usare il termine più in voga in Francia, si verifica quando gli atteggiamenti o i discorsi antisemiti non solo non vengono condannati, ma diventano accettabili o tollerabili nella società. Come ha rivelato un sondaggio francese nel maggio 2024, «lungi dall’aver provocato un’ondata di solidarietà duratura, i massacri perpetrati da Hamas hanno in un certo senso “scatenato” un odio antiebraico alimentato dall’odio per Israele. Tale flagello, che sta minando le fondamenta della società, è diventato comune sia nelle parole che nei fatti» (Vernet, de Saint Sauveur 2024). Ciò avviene soprattutto quando l’antisemitismo viene travestito sotto altre giustificazioni, come la critica geopolitica o la lotta contro l’imperialismo. La connessione tra queste giustificazioni e l’antisemitismo si manifesta nei discorsi che, pur avendo un’apparente legittimità o rilevanza politica, finiscono per riflettere stereotipi antisemiti o per denigrare la comunità ebraica. La normalizzazione di queste forme di odio è problematica perché rende più difficile riconoscere e combattere l’antisemitismo, che si infiltra in contesti più ampi, apparentemente giustificati o legittimi.

Negli ultimi 80 anni, in Europa l’antisemitismo è stato generalmente diverso dal passato: gli ebrei non sono discriminati, né segregati (se vivono in comunità a parte è una loro scelta, non un obbligo), eppure sono ancora il bersaglio di pregiudizi (in misura minore rispetto a un secolo fa, ma ancora in percentuali incisive) e, soprattutto, sono vittime della stragrande maggioranza delle espressioni di odio (verbale e fisica, sia verso le persone, che i beni e i luoghi) (Wieviorka 2016). Questo va sottolineato per poter guardare alla realtà della situazione attuale, in modo da comprenderne le dinamiche e la fragilità, perché quel che l’antisemitismo ha ben mostrato di sé nei suoi oltre due millenni di storia è la sua capacità di mascherarsi, trasformarsi e ripresentarsi all’improvviso. Per poter meglio riconoscerlo, alcuni studiosi come Pierre-André Taguieff (2018) si sono cimentati nella distinzione delle diverse forme di antisemitismo attuale, evidenziandone la complessità e la diffusione. Il “nuovo antisemitismo” si distinguerebbe in tre grandi matrici: l’antisemitismo di estrema destra, quello di sinistra radicale e quello di ispirazione islamista.

L’antisemitismo di estrema destra, legato a ideologie nazionaliste e suprematiste, non di rado accompagnato da integralismo religioso cristiano, è una forma tradizionale di antisemitismo che, sebbene non nelle modalità sguaiate e violente del passato, è ancora presente in molte parti d’Europa. Questi gruppi continuano a diffondere la retorica dell’“invasione” e della “purezza razziale”, in cui gli ebrei sono visti come una minaccia alla società etnicamente omogenea che questi gruppi aspirano a creare. Questo è particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove l’antisemitismo dell’alt-right, che lotta per il suprematismo bianco e contro il femminismo, ha compiuto una strage il 27 ottobre 2018 alla sinagoga “Tree of Life – Or L’Simcha” di Pittsburgh, in Pennsylvania, in cui sono morte undici persone e ne sono rimaste ferite altre sei, tra cui alcuni sopravvissuti all’Olocausto. Prima dell’attacco, l’attentatore, un uomo di 46 anni arrestato sul posto dopo uno scontro con la polizia, aveva pubblicato commenti antisemiti sulla piattaforma social Gab, criticando l’organizzazione HIAS (Hebrew Immigrant Aid Society, fondata nel 1881), che supporta i rifugiati, e accusandola di favorire l’immigrazione di persone che, secondo lui, minacciavano gli americani.

31ue9ecljnl-_ac_uf10001000_ql80_L’antisemitismo di sinistra radicale è forse una delle forme più insidiose e meno riconosciute, frequentemente mascherato come “antisionismo”. David Hirsh (2018) parla di «antisemitismo da bistrò», considerato un tipo di antisemitismo “sofisticato” e “colto”, che si differenzia dal cosiddetto «antisemitismo da bierkeller», cioè violento e apertamente odioso (“da bettola”). Si tratta di un antisemitismo, dice Hirsh, radicato nei discorsi e nelle pratiche di alcune élite progressiste e democratiche, in cui si sviluppano narrazioni che demonizzano Israele e, indirettamente, gli ebrei, come nel caso della campagna per il boicottaggio di Israele. Partiti e movimenti che avanzano o giustificano certe narrazioni, aggiunge Hirsh, adottano una «politics of position» che privilegia le appartenenze identitarie e polarizza i discorsi, sostituendo il dibattito democratico con pratiche coercitive.

Secondo Eva Illouz (2024), si tratta di un «antisemitismo virtuoso» (o “onorevole”, come lo definì il saggista Jean Améry nel 1969), ossia di una postura che giustifica se stessa come una difesa della moralità e dell’umanità, ma al contempo rappresentando gli ebrei e, nel contesto attuale, Israele come un pericolo e come uno “Stato canaglia”. La peculiarità, spiega Illouz, sta nel fatto che tale indignazione morale, tanto intensa e fervente, è rivolta esclusivamente contro Israele, senza equivalenti per altre violenze di Stato. In questo caso, la critica alla politica di Israele viene spesso estesa all’intera comunità ebraica, trattando gli ebrei come collettivamente responsabili delle azioni dello Stato israeliano (in Italia è lampante quando una personalità come Liliana Segre viene trascinata nelle polemiche più rozze, con insulti e minacce che la costringono a vivere sotto scorta) [6].

Tuttavia, l’antisemitismo di sinistra non è una novità, ma affonda le radici almeno all’epoca dell’Illuminismo, quando andò sviluppandosi una forma di antigiudaismo dapprima per il legame degli ebrei con la religiosità, poi per l’associazione tra gli ebrei, il denaro e il capitalismo, infine, dopo la creazione dello Stato d’Israele nel 1948, criticato come un Paese razzista e colonialista in sé (Norwood 2013). Questa prospettiva fu talvolta strumentalizzata da partiti o regimi comunisti, in particolare sotto Stalin, quando il termine “sionista” divenne un sinonimo implicito di “ebreo”, utilizzato per giustificare processi politici, come quello di Praga nel 1952 (o “processo Slánský”), considerato una delle più famose “farse giudiziarie” del blocco sovietico e volto a purgare il Partito Comunista cecoslovacco di presunti nemici interni (Lukes 2008).

71-4wdowiklInfine, è presente una terza declinazione di antisemitismo, quella di matrice islamista; anche questa con radici antiche, ma oggi alimentata da estremismi religiosi e che trova terreno fertile soprattutto nelle periferie europee, dove i conflitti geopolitici legati al Medio Oriente si intrecciano con le tensioni e gli squilibri locali (Wistrich 2002). In Francia, ad esempio, il contesto sociale ed economico ha contribuito a creare un terreno fertile per la diffusione di sentimenti antisemiti che ha seguito l’evoluzione delle immigrazioni nordafricane: da quella maschile temporanea degli anni ‘50-’60, al ricongiungimento familiare negli anni ‘70, che coincide con una crisi economica e l’aumento della disoccupazione per questo gruppo di popolazione che, dunque, si è spesso trovato emarginato e confinato in quartieri popolari, talvolta trasformati in veri e propri ghetti (Insee 2019). In tale contesto, i sentimenti antisemiti sono andati alimentandosi in base all’identificazione con i palestinesi (le persone discriminate e povere in Francia si vedevano vittime di esclusione come i palestinesi sotto Israele, percepito come simbolo dell’oppressione) e per l’attrazione verso l’islamismo radicale (alcuni individui sono stati sedotti da ideologie che dipingono un conflitto globale tra l’Occidente e l’Islam, attribuendo ai “giudei” un ruolo dominante nell’egemonia occidentale, in particolare negli Stati Uniti e in Israele) (Wieviorka 2024).

Il paradosso, osserva ancora Michel Wieviorka (2024: 93-95), è che questo “nuovo antisemitismo” accomuna gruppi discriminati e poveri con l’estrema destra francese, storicamente ostile sia agli arabi che ai neri. Ma l’ulteriore convergenza bizzarra è anche con un certo tipo di antisionismo di sinistra, che può sfociare nell’antisemitismo quando confonde Israele e la popolazione ebraica nel suo insieme, vedendovi il “male assoluto”.

Nel complesso, queste diverse forme di antisemitismo contemporaneo si sovrappongono, si rinforzano a vicenda e contribuiscono a rendere l’antisemitismo un fenomeno meno riconoscibile e più difficile da combattere. L’intersezione di ideologie politiche, conflitti geopolitici e dinamiche post-coloniali rende il discorso sull’antisemitismo estremamente complesso, ma anche urgente. La sua normalizzazione è un segnale che il problema è ancora lontano dall’essere risolto e che richiede una continua attenzione critica.

taguiffL’antisemitismo e l’antropologia culturale

Di fronte a fenomeni complessi e devastanti, come l’antisemitismo, l’antropologia culturale ha il compito di offrire una comprensione profonda delle dinamiche sociali che lo alimentano. Ma cosa può fare concretamente questa disciplina? La risposta risiede nel suo fondamento più profondo: l’ascolto. Si ripete spesso che l’antropologia deve assumersi l’impegno di prendere parola, ma – a mio avviso – mai a discapito dell’ascolto [7]. In un mondo che spesso si riflette in contrapposizioni polarizzanti, l’antropologia culturale deve farsi strumento per abbattere queste divisioni, favorendo un dialogo che dia spazio alla comprensione reciproca.

L’antisemitismo, con la sua straordinaria capacità di trasformarsi e assumere nuove sembianze a seconda del contesto, richiede un’analisi che penetri oltre l’apparenza: rappresenta una fonte esplosiva di irrazionalità apparentemente razionale, che può emergere rapidamente anche nei luoghi più insospettabili e civilizzati, come università, scuole, sale conferenze o tranquille zone residenziali. Troppe persone oggi maneggiano idee pericolose con leggerezza, dimenticando che l’antisemitismo è una forza incontrollabile. Non può essere considerato semplicemente come una componente estrema ma inoffensiva di un movimento, perché la sua natura distruttiva non si limita a fare rumore senza conseguenze. La vera lotta, infatti, non si limita alla denuncia, ma implica un processo di sensibilizzazione che sfida le convenzioni sociali, culturali e politiche che perpetuano l’odio. È in questo contesto che l’antropologia culturale può svolgere un ruolo cruciale: creare spazi di incontro, incoraggiare una visione del mondo che superi l’idea di separazione tra gruppi e promuovere la cultura della convivenza. Solo in questo modo si può sperare di affrontare in modo efficace le varie forme di odio che affliggono la nostra società.

È l’ascolto a dover essere recuperato e tradotto come pratica di pace. Insieme a una ripresa della dignità, dell’empatia e della compassione. In mezzo alla desolazione dei bombardamenti urbani e dei corpi mutilati e senza vita a Gaza, negli ultimi 15 mesi abbiamo dovuto assistere anche a scene di giubilo o a relativizzazioni di quanto avvenuto nei kibbutz israeliani il 7 ottobre (incredibile, ad esempio, è lo scetticismo di alcuni di fronte alle donne israeliane stuprate, che secondo costoro dovrebbero presentare le “prove” delle violenze subite). Evidentemente, qualcosa si è rotto anche a livello politico, se certe frange della cosiddetta sinistra identitaria si sono pericolosamente avviate lungo una visione del mondo dogmatica, con adepti mossi da una visione escatologica, piuttosto che dall’universalismo.

Con l’ascolto profondo, che permette di comprendere le radici e le sfide, l’antropologia culturale deve saper esplorare le identità, le esperienze e le storie delle persone, senza giudicare né semplificare. L’ascolto attento delle esperienze umane è l’unico modo per accedere a una conoscenza olistica che vada oltre le categorie stereotipate; in antropologia, non è un atto passivo, ma un processo attivo di immedesimazione, che implica una sospensione del giudizio e una riflessione continua. Non si tratta solo di raccogliere dati, ma di entrare in empatia con l’altro, di superare il pregiudizio, di riconoscere le diversità e le complessità che arricchiscono l’esperienza umana, di decostruirsi e di adottare una visione che supera le dicotomie tra “noi” e “loro”.

L’ascolto e l’empatia possono diventare atti di resistenza: contro la violenza e ogni forma di razzismo, compreso il camaleontico antisemitismo. L’antropologia può essere uno strumento essenziale per combattere l’odio e la stigmatizzazione, e per promuovere una società più giusta, inclusiva e pacifica. Questa disciplina non si limita a studiare le differenze, ma cerca di abbattere le barriere tra gli esseri umani, favorendo il dialogo e la costruzione di una cultura che valorizzi la diversità e l’esperienza condivisa. Anche – e forse soprattutto – quando sembra impossibile. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note
[1] Traduzione: «L’ebreo viene attaccato nella sua personalità religiosa, nella sua storia, nella sua razza, nel rapporto che ha con i suoi antenati e i suoi discendenti; nell’ebreo che viene sterilizzato, viene ucciso il ceppo; ogni volta che un ebreo viene perseguitato, è l’intera razza che viene perseguitata attraverso di lui».
[2] Traduzione: «Oggi il termine “antisemitismo” segna anche un altro campo di battaglia. Le obiezioni all’antisemitismo spesso sorgono ora in relazione al dibattito sull’esistenza, le politiche e le pratiche di uno stato ebraico, Israele. La letteratura in materia è voluminosa. Al centro c’è l’accusa che la critica sproporzionata o ossessiva di Israele, così come l’opposizione categorica all’esistenza di Israele come stato ebraico, costituisca o il nuovo antisemitismo o una continuazione del vecchio».
[3] Traduzione: «L’esistenza e la diffusione della storia e del culto di Simone contribuirono a rafforzare ulteriormente la convinzione dei cristiani europei che gli ebrei uccidessero i bambini cristiani. […] La calunnia del sangue a Trento, una città ai piedi delle Alpi, non fu né la prima né l’ultima della lunga serie di accuse antiebraiche nella storia europea, ma fu fondamentale e paradigmatica».
[4] Traduzione: «Invece di affrontare i problemi reali […], entrambi hanno deviato l’attenzione pubblica su una crisi immaginaria. Questa deviazione ha provocato ansie e disordini diffusi nell’opinione pubblica, e quindi ha gravato inutilmente su una società che stava già affrontando notevoli difficoltà. Il loro approccio alla crisi, costruito attraverso il linguaggio, era profondamente fondato sulle loro inclinazioni ideologiche piuttosto che su una comprensione sfumata dei fattori reali che contribuivano al declino economico della nazione. Non a caso, il loro pubblico era la classe media vulnerabile ed emarginata, di cui hanno sfruttato ampiamente le paure e le ansie. Hanno fornito spiegazioni facili per una situazione complessa e senza soluzioni facili, mettendo sempre in evidenza un avversario pubblico. Le loro narrazioni capro espiatorio si concentravano sugli ebrei, un bersaglio di lunga data che tragicamente era stato associato a problemi sociali, economici e politici nel corso della storia».
[5] Come sottolinea Ester Capuzzo (2012), i rapporti tra Giuseppe Mazzini e Moses Hess, precursore del sionismo, furono intensi e il pensiero di Mazzini incoraggiò sicuramente l’aspirazione sionista soprattutto negli anni del realizzarsi dell’unità d’Italia, la quale diveniva modello per le altre nazionalità, compresa l’ebraica.
[6] Nella “guerra di parole” in corso, è una attitudine che alcuni chiamano “paliwashing”, perché usa la causa palestinese come paravento per giustificare il discorso antisemita. Il termine non è rigoroso e, anzi, piuttosto scivoloso, come d’altra parte lo sono spesso i vari “-washing” utilizzati negli ultimi anni per denunciare politiche fintamente (o non abbastanza) rispettose dell’ambiente (il “greenwashing”) o dei diritti LGBT+ (il “pinkwashing”); tuttavia, è alquanto evidente che il supporto alla lotta palestinese viene frequentemente strumentalizzato – specie in periodi di forte tensione – per mascherare un odio che si radica in antiche discriminazioni contro gli ebrei, con effetti devastanti sulle percezioni della comunità ebraica. Per fare un esempio, nell’agosto 2024 una scrittrice e attivista progressista italiana, assidua ospite di iniziative filopalestinesi, in un video su Instagram alquanto disturbante ha affermato: «Odio tutti gli ebrei, odio tutti gli israeliani, tutti, tutti. Odio tutti quelli che li difendono. Se un giorno dovessi vedervi tutti appesi per i piedi, e non basta piazzale Loreto, serve piazza Tien An Men, io vi giuro che sarò in prima fila a sputarvi addosso».
[7] Negli ultimi anni è sorto un ulteriore neologismo interessante: “westplaining” (Garcevic 2017; Labuda 2022; Mannheim 2022), che mi sembra illumini efficacemente un certo paternalismo occidentale. Nel tentativo di spiegare le dinamiche dei conflitti (in Europa dell’est, in Medioriente o altrove), spesso le élite intellettuali occidentali assumono una visione parziale che non riconosce la complessità storica e culturale di queste regioni. L’incapacità di comprendere la realtà locale e il tentativo di imporre una visione esterna possono alimentare stereotipi e, implicitamente, rafforzare certe narrazioni ideologiche. 
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Wistrich, Robert S., 2002, “Muslim AntiSemitism. A Clear and Present Danger”, «The American Jewish Committee», maggio 2002; la versione in francese è disponibile online: https://www.memorialdelashoah.org/wp-content/uploads/2016/05/texte-reference-memorial-shoah-wistrich.pdf

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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.

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