CIP
di Michela Buonvino, Luciana Petrocelli [*]
L’insostenibile permanenza dell’essere “interno”
La storicizzazione delle disuguaglianze territoriali è una questione che tocca da vicino tutta la filosofia politica, in particolar modo solleva interrogativi filosofici che tengono conto della giustizia in termini di specificità sociali e necessità di equità. Il concetto di giustizia distributiva, che è il fulcro della filosofia politica da Aristotele fino a John Rawls, ci aiuta a comprendere non soltanto l’equa distribuzione delle risorse, ma l’equa distribuzione di opportunità. Lo stesso concetto delle capabilities di Amartya Sen (1985) è diventato un paradigma centrale per valutare le performance di una comunità o di una società in relazione alla sostenibilità e capacitazione del proprio capitale sociale.
Il problema della sproporzionalità territoriale non è dunque soltanto economico, ma strutturalmente esistenziale, di riappropriazione del proprio spazio di autodeterminazione, sia individuale che comunitario. La visione strettamente utilitaristica fondata sulla razionalizzazione delle risorse e servizi sulla base della densità della popolazione urta con una visione che, indipendentemente dai numeri demografici, difende il valore intrinseco di ogni territorio. Questo è ciò che sta alla base di tutte quelle politiche che scelgono di evitare soluzioni top-down e cercano di incentivare politiche che partano dalle stesse comunità, coniugando progresso e sostenibilità e andando a riscoprire nello stesso tempo il valore della sostenibilità all’interno di una comunità. Come suggerisce Michel Foucault (2005), le politiche dovrebbero riscoprire “il governo delle popolazioni”, non soltanto attraverso nuove prassi amministrative e gestionali, ma attraverso un adattamento profondo alle aspirazioni e i bisogni di una comunità.
È necessario dunque invertire le logiche della cultura istituzionale per permettere che le comunità siano protagoniste di un progetto di sviluppo realmente radicato nel territorio e per scongiurare l’immobilismo del ritorno a un ideale passato rurale. La digitalizzazione, il lavoro culturale, la rigenerazione urbana, le filiere biologiche altro non sono che forme di una nuova idea di innovazione che non si misuri solo in termini di crescita economica, ma anche attraverso la qualità della vita e in termini di equità. Se l’innovazione sociale è il presupposto e il punto d’approdo di un progetto che fa della rigenerazione l’ossatura del proprio intervento, non si possono tralasciare tutti quei fattori alla base dello sviluppo di una coscienza territoriale. All’interno di essa s’insinua un immaginario collettivo di “area interna” che va scardinato, affrontato e studiato alla luce delle percezioni che gli abitanti hanno dei luoghi vissuti e dei sistemi di rappresentazioni collettive.
Alla base degli immaginari collettivi, attraverso cui una comunità percepisce se stessa, il proprio territorio e il mondo, vi è un sistema di valori e aspettative che sembrano essere tenute insieme da un inscindibile collante. Il processo di sedimentazione di un immaginario collettivo può spesso creare delle barriere psicologiche, culturali e sociali che ostacolano o rallentano lo sviluppo delle dinamiche partecipative. Il fatalismo, che è alla base di un atteggiamento rinunciatario e, in alcune aree, di una cultura fin troppo istituzionale, si fonda sulla convinzione che i problemi siano troppo sistemici per essere cambiati e che, dunque, la partecipazione non abbia un impatto significativo nella risoluzione di dinamiche considerate fin troppo distanti e affrontabili soltanto da interventi top-down. L’abitudine a un approccio politico estremamente interventista potrebbe comportare un’importante crescita delle aspettative di una comunità, accompagnate da una sorta di pretesa di immediata eseguibilità, resa difficile dalla necessaria circostanzialità e destinata a generare inevitabilmente frustrazione collettiva.
Stesso meccanismo è alla base di quelle politiche governative o istituzionali che non possono, o non hanno le capacità, di rispondere adeguatamente alle esigenze della popolazione, alimentando frustrazioni che si manifestano in richieste sempre più elevate. L’attendismo che accompagna il vittimismo rinunciatario [1], tipico di molte aree interne dell’Italia, alimenta la sospensione dei contributi collettivi e l’aspettativa passiva, legittimando però, attraverso una logica inversa, la cultura dell’immediatezza, anche in termini di gratificazione delle aspettative e pretenziosità. Se considerata sotto quest’ultima luce, la questione tocca un punto interessante: una lettura in termini di domanda legittima o illegittima di diritti. Una pretesa di diritti può infatti verificarsi in scenari in cui la cultura del vittimismo è abbarbicata in endemici atteggiamenti quotidiani. In alcuni contesti, infatti, si può generare una visione in cui si considera che ogni aspettativa, problema o esigenza debba essere soddisfatto o risolto immediatamente, portando a richieste che spesso possono sembrare irragionevoli e assistendo a una sorta di trasformazione delle pretese in diritti naturali.
Nel suo saggio del 1979 La cultura del narcisismo, Christopher Lasch esplora come la cultura moderna sia diventata sempre più autocentrata e vittimista, con individui che si vedono come vittime delle circostanze sociali, politiche ed economiche. Secondo Lasch, la crescente enfasi sull’autoespressione e il narcisismo hanno portato alla creazione di una mentalità in cui le persone sono più focalizzate sulle loro sofferenze personali e identità di vittime, piuttosto che impegnarsi in un processo costruttivo di cambiamento sociale. Uno sbilanciamento verso una forte enfasi sui diritti individuali può portare, dunque, a ignorare il fondamentale equilibrio con i doveri e le responsabilità verso la comunità. Ad alimentare questa prospettiva è l’equazione tra marginalità e vuoto che negli anni si è fatta spazio nelle esistenze quotidiane dei popoli delle aree interne, un immaginario alienante che ha fin troppo spesso alimentato la desertificazione delle iniziative dal basso, ma che può essere superato da una pedagogia politica alla responsabilità e alla cittadinanza attiva che predisponga gli individui alla co-progettazione considerata anche alla luce di un’esperienza estetica. Ma quali sono le dinamiche che influenzano positivamente la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e ai processi di decision-making? In altri termini, quali meccanismi di percezione – o formazione di immaginari collettivi – influenzano poi i processi decisionali di una comunità?
Estetica e politica nella co-progettazione di significati
La partecipazione sociale può essere definita a partire dal coinvolgimento attivo degli individui nelle azioni collettive che la comunità intraprende ed è imprescindibile da quell’operazione di tessitura di interazioni e legami. Assumendo il modello di livelli partecipativi pensato da Arnstein (1969), che delinea cinque gradi di partecipazione (informazione, consultazione, collaborazione, coinvolgimento e responsabilizzazione), specularmente coincidenti a una sempre maggior presa di coscienza da parte della comunità nelle dinamiche organizzative e politiche del proprio territorio, si intravede la complessità della questione del coinvolgimento di una comunità locale nei processi di sviluppo locale.
Se uno studio si vuole approcciare al fenomeno della partecipazione attiva e ai comportamenti di gruppi di persone che prendono consapevolmente decisioni e attivano, dunque, processi cognitivi in un contesto collettivo, è doveroso affrontare il tema della percezione che è insita nel processo dell’elaborazione del giudizio all’interno delle dinamiche di gruppo. La cognizione sociale permette all’individuo di formare degli schemi di senso, significazioni, o delle immagini interne in cui inserire o delineare il proprio sé, gli altri e le situazioni sociali.
Dalla considerazione della dinamica più propriamente percettiva si approfondiscono le condizioni per cui una comunità è saggia, condizione fondamentale per innescare un processo decisionale collettivo e per attivare e intercettare intelligenza collettiva, in cui è sempre e inevitabilmente coinvolto l’agire. È Hannah Arendt (2009) a sostenere che l’azione autentica è quella che si realizza nel contesto pubblico, perché è quella che implica la relazione con l’altro da sé. L’azione è la sola che non potrebbe nemmeno essere immaginata fuori dalla società degli uomini ed è da considerarsi un atto che porta in sé una forte carica trasformatrice, creando nuove possibilità e una possibile realtà condivisa. È il lavoro di rigenerazione territoriale e sociale che si sta portando avanti a Castel del Giudice (IS) nella cornice del Bando Borghi Linea A: un lavoro costante sulla possibilità. Il lavoro a base culturale sta attraversando questa categoria tramite una duplice percorrenza del concetto di immaginazione: in termini di memoria e co-immaginazione del futuro nello stesso tempo. La dinamica percettiva è, infatti, sempre orientata da un a-priori storico, dal momento che l’individuo non potrebbe mai liberarsi di quei significati resi solidi dal rapporto con il passato e con le cose che lo circondano (Dewey 1990), né tantomeno può pensare di liberarsi dall’influenza che essi esercitano nel rapporto che al momento un individuo o una comunità ha con esse, ossia nel momento di progettare insieme. I laboratori partecipativi di co-progettazione che stanno prendendo vita a Castel del Giudice sono da intendersi alla luce di un’esperienza estetica, un lavoro di progettazione della bellezza.
Già Aristotele poneva la questione in termini di bellezza, quando affermava che nella vita dedicata alla polis l’eccellere produceva belle imprese, dando una definizione, seppur parziale, di bios politikos e facendo trapelare la necessità della mediazione estetica nel giudizio politico. La ri-generazione di un nuovo equilibrio tra etica, estetica e politica si pone alla base dell’introduzione dell’idea di un processo creativo all’interno della percezione stessa del luogo che si abita e che cambia. L’agire politico e attivo di una comunità non implica, se intesa in questi termini, l’accoglienza passiva di forme predefinite, bensì lo sviluppo continuo di un’attività ricostruttiva che rigeneri contemporaneamente l’elemento materiale e la coscienza che opera nell’atto percettivo del bello.
Virtuose declinazioni di bellezza
Castel del Giudice, un piccolo paese molisano incastonato nell’area appenninica tra il Molise e l’Abruzzo, sta sperimentando processi di partecipazione attiva e processi decisionali collettivi in virtù della capacità di veicolare le interazioni sociali in vista del bello. Questo piccolo territorio sta esplorando nuove forme di organizzazione sociale per la gestione territoriale, nuovi approcci e codici sociali, tanto che il suo modello lo si potrebbe definire un modello a “quadrupla elica” che vede la collaborazione di quattro attori principali in un sistema di innovazione: l’università, come generatore di conoscenze e innovazione; l’industria, più propriamente le imprese; l’amministrazione/comune, in grado di creare quel tessuto istituzionale necessario a veicolare ogni forma di innovazione e che funge da facilitatore per la regolamentazione e le politiche di supporto all’ecosistema dell’innovazione; la società civile/cittadini, che ha un ruolo fondamentale nell’orientare le scelte politiche, la ricerca e l’innovazione verso le necessità sociali e territoriali.
I processi partecipativi sperimentati con il Bando Borghi Linea A, e avviati negli anni precedenti dall’amministrazione comunale e dalla comunità di Castel del Giudice, trovano forma nei focus group organizzati dall’Università degli Studi del Molise, negli incontri di psicologia di comunità e patto di comunità, quest’ultimo inteso come strumento civico di co-programmazione e co-progettazione, in cui si declinano bisogni, strategie e linee d’azione condivise. Attraverso queste attività, le diverse competenze, esperienze e capacità dei soggetti coinvolti vengono valorizzate mediante una modalità collaborativa e sinergica così da individuare metodi e contenuti adeguati a rispondere ai bisogni emersi dalle fasi precedenti della ricerca. Con una metodologia attiva e partecipativa che prevede la co-progettazione fra ente locale, cittadini e territorio, si sta costruendo anche un processo ambientale, sociale ed educativo che parte dal basso per raggiungere l’indipendenza energetica del borgo. Lo strumento è quello della costituzione di una comunità energetica rinnovabile (CER) che prevederà, attraverso l’installazione di un fotovoltaico da 200 kW collegato alla cabina primaria di Castel del Giudice, l’autoproduzione di energia elettrica. Dal punto di vista della governance, il modello associativo assegna all’assemblea della cooperativa di comunità energetica tutte le funzioni esecutive e di gestione, nonché l’adozione delle azioni mirate al reinvestimento dei profitti per la realizzazione di ulteriori impianti fotovoltaici, sistemi di accumulo e controllo degli impianti.
Molti studi in ambito sociologico e filosofico politico (Connor 1985; Lake 1980; Arnstein 1969) hanno dimostrato che il coinvolgimento delle persone nei processi di decision-making comporti efficacia non solo in termini di trasversalità tra progettazione delle politiche pubbliche e soddisfacimento dei bisogni di una collettività, ma anche in termini di legittimazione dell’operato delle amministrazioni pubbliche e raggiungimento degli obiettivi. Ma tra le condizioni che consentono il pieno espletamento della saggezza della collettività vi è la considerazione della sua eterogeneità e indipendenza: le migliori decisioni collettive sono frutto del confronto e del disaccordo e non del compromesso e della conformità (Surowiecki 2004).
Cultura (ri)generativa: quando la cultura trasforma un territorio
Il punto di partenza del lavoro che stiamo conducendo a Castel del Giudice nella cornice del Centro di (ri)Generazione è la considerazione dell’enorme potenziale rappresentato dal lavoro a base culturale nei processi di sviluppo locale sostenibile e di rigenerazione delle aree interne, giacché il lavoro culturale si rivela in grado di attivare economie virtuose che mettono in connessione una pluralità diversificata di attori cooperanti in sinergia su uno stesso territorio (Bindi 2022, 2023; Bindi et al. 2024) [2]. Alla base delle operazioni compiute nel quadro delle linee di azione progettuale troviamo, anzitutto, la riconsiderazione attenta del tema della sostenibilità e, in particolare, della continuità delle azioni a base culturale nelle aree cosiddette fragili [3]. A questo proposito, una linea di sperimentazione culturale e sociale che caratterizza il progetto si incentra sull’immaginazione di nuovi spazi e contesti per la creatività e l’innovazione nella fase di (ri)progettazione dei territori e di transizione digitale.
Prioritario si rivela il problema della scelta degli indirizzi di governance come anche quello dell’individuazione delle forme di inclusione e di democratizzazione nell’accesso e produzione di contenuti culturali; bisogna dunque esplorare il tema delle economie della cultura, partendo da una riflessione sul rapporto tra valore culturale e valore economico, approfondendo le dinamiche della distribuzione e della circolazione di esperienze creative e delle modalità di partecipazione delle comunità locali nel quadro dei processi di rigenerazione. Il lavoro sul campo condotto a Castel del Giudice ha mostrato che la “comunità locale” non è una collettività omogenea, bensì un fecondo incubatore di differenze generative, portatrice com’è di una ricchissima varietà di visioni e di rappresentazioni dello sviluppo locale; la creatività, ancora una volta, diviene primo motore per la progettazione e la realizzazione di interventi capaci di creare economia e nuovi laboratori di democrazia e partecipazione, dotati di un potere trasformativo.
Stiamo osservando che la cooperazione di diversi attori culturali sul territorio è in grado di attivare, gradualmente, sulla scena locale, reti virtuose che vengono sostenute da una politica inclusiva che ricerca e incentiva il dialogo con il mondo dell’animazione culturale (Buonvino et al. 2024). In un quadro siffatto, il mutamento dell’offerta culturale locale costituisce la chiave di volta per la creazione di un fecondo incubatore di trasformazioni rilevanti, consentendo a un’area cosiddetta “depressa” di liberarsi dal pregiudizio incorporato del vuoto culturale, costruito da secoli di egemonia del paradigma industrial-centrico (De Rossi 2018; De Rossi, Barbera 2021; Bindi 2019), portando alla luce un nuovo senso condiviso della densità e della bellezza culturale. Molte le attività culturali (laboratori sensoriali ed esperienziali che si articolano intorno a pratiche di vicinanza e reciprocità, spettacoli, performance, escursioni e workshop all’aperto ecc.) che sono state realizzate in questi mesi dal Centro di (ri)Generazione: laboratori in cui si sperimentano sia nuove forme di condivisione di valori e di meta-apprendimento sia nuove consapevolezze relative al rapporto tra le persone e il luogo in cui vivono; a questo ultimo proposito, la ricchezza paesaggistica del territorio di Castel del Giudice permette e favorisce l’esplorazione di strategie che mirano all’istituzione di un’economia basata sulla valorizzazione delle risorse territoriali: una economia circolare che vuole nutrire flussi di turismo lento legato ai cammini, al benessere e alla salute.
Rappresentazioni dello sviluppo, frizioni generative, futuri possibili
Non bisogna trascurare, tra l’altro, l’urgenza di condurre una riflessione puntuale relativa alle realtà conflittuali che caratterizzano le dinamiche dello sviluppo locale (cfr. Abram, Waldren 1998). Infatti, il concetto di “partecipazione” implica la negoziazione tra differenti politiche e poetiche dello sviluppo (cfr. Olivier de Sardan 1995), tra diversi sistemi di conoscenza, che oscillano tra i due estremi del discorso burocratico delle istituzioni e del discorso “locale”. Per una profonda comprensione di tali dinamiche – e dunque affinché il discorso sulla partecipazione non si riduca a vuota retorica o, ancor peggio, a centralizzazione travestita da decentralizzazione o a falsa coscienza – occorre analizzare con attenzione i processi di acquisizione della capacità d’azione e delle competenze pragmatiche degli attori sociali coinvolti nella definizione della problematica socio-antropologica dello sviluppo. Le possibilità di azione sono direttamente connesse e dipendono criticamente dall’emergere di una rete di attori che diventa gradualmente ma mai completamente impegnata e partecipe all’interno dei progetti di sviluppo (Long & Long 1992). A livello analitico una delle principali sfide consiste nel comprendere i processi di incorporazione e di internalizzazione dei fattori cosiddetti “esterni”. Tali processi consistono, in termini generali, nell’interazione tra interventi inizialmente percepiti come “estranei” e le risorse e le limitazioni dei gruppi e degli individui che li incorporano e che elaborano, in risposta, specifiche strategie sociali.
Antropologia dello sviluppo e antropologia del cambiamento sociale coincidono, mettendo insieme le conoscenze acquisite in plurimi ambiti di esercizio delle ricerche antropologiche, soprattutto nel campo dell’antropologia politica e in quello dell’antropologia simbolica. L’antropologia dello sviluppo e del cambiamento sociale è prevalentemente un’antropologia delle rappresentazioni; la conoscenza dei saperi tecnici e/o “locali”, delle configurazioni semiologiche emiche che strutturano i campi entro cui si originano le trasformazioni, si rivela indispensabile alla comprensione di come i processi di cambiamento sono pensati e vissuti dagli attori implicati. La generazione di malintesi e di percezioni asimmetriche relativamente alle azioni di sviluppo è, dunque, sempre connessa alla questione delle retoriche dello sviluppo; queste ultime richiedono di essere minuziosamente esplorate, assieme ai processi concreti di mise en oeuvre delle azioni di sviluppo a livello locale.
Non dobbiamo dimenticare che la dimensione “locale”, qui diverse volte evocata, è in parte il risultato di processi stratificati di produzione della località (Appadurai 1996, 2013); è, detto altrimenti, l’insieme delle “condizioni di possibilità” a partire dalle quali i gruppi umani fanno esperienza di sé e fabbricano il proprio futuro che non è mai, in alcun modo, uno spazio neutrale, definendosi sulla base di determinate concezioni di “benessere”, di “emergenza” e di “crisi”; sono, a ben vedere, le emozioni e le sensazioni che l’idea di futuro produce a fornire alle diverse configurazioni assunte dall’immaginazione la loro consistenza.
Torniamo, quindi, alla questione del lavoro dell’immaginazione, all’importanza che assume, nella cornice di un progetto ambizioso come quello del Centro di (ri)Generazione, la co-programmazione di percorsi finalizzati alla realizzazione di obiettivi in grado di garantire un cambiamento delle cose nel senso desiderato, che possono prendere vita soltanto all’interno di spazi della speranza (Harvey 2000) – questa ultima da intendersi come l’equivalente politico del lavoro dell’immaginazione –, spazi dotati di una propria agentività, che riflettono le forme cangianti delle creatività dei gruppi sociali: strutture, strutturate e strutturanti allo stesso tempo, in cui diviene possibile la messa a punto condivisa di una nuova etica e di una nuova estetica pubblica.
Pianificare un’offerta culturale in un territorio come Castel del Giudice significa provare a definire insieme repertori di buone pratiche relativi alla sperimentazione progettuale a base culturale in grado di generare innovazione sociale. Perché ci sia veramente innovazione sociale questa deve fondarsi su processi reticolari, partecipati, inclusivi e collaborativi, non verticistici. Noi tutte/i, ricercatrici e ricercatori, insieme a tutte le figure professionali del Centro di (ri)Generazione, siamo chiamate/i a muoverci in questa direzione, a riflettere, in primis, sul nostro coinvolgimento nella declinazione di specifiche misure di governance e nei disegni di sviluppo (che possono stimolare e accompagnare processi di empowerment delle “comunità” e degli attori locali). Si rende necessario l’utilizzo di un approccio orizzontale, condiviso, democratico, aperto alle sfide provenienti dall’incontro/scontro con l’“altro da sé”, in grado di accogliere e dare senso alle plurime frizioni che invero rappresentano la condizione necessaria e ineliminabile perché ci sia davvero co-costruzione di conoscenze, affinché da una epistemologia condivisa possano nascere multidirezionali processi di valorizzazione intersoggettiva del mondo e della vita.
Cultura e sostenibilità: educare alle interconnessioni tra attanti
Una delle sfide principali è rappresentata proprio dal problema della sostenibilità di queste esperienze fuori dai grandi circuiti urbani dell’industria culturale. Essenziale si rivela il ruolo dell’educazione, lato sensu, che è educazione alla sostenibilità e alle relazioni tra umano e mondo naturale, che passa attraverso processi di apprendimento esperienziale e che promuove un diverso paradigma relazionale fondato su una visione interconnessa e intersezionale del tutto umano e non umano: è questa una competenza di base e il punto di partenza per ingaggiare la cittadinanza in processi trasformativi e sostenibili, dando vita a un gruppo di lavoro esteso, a una comunità educante, frutto di collaborazioni, alleanze, concatenamenti respons-abili tra «attanti» (Latour 2000) che condividono una «natura conativa» (Spinoza 2000), che abitano e animano temporaneamente o permanentemente un territorio, praticando quella che John Dewey ha definito «azione congiunta», condizione necessaria all’affermarsi di un pubblico.
Il territorio, attraverso un patto educativo inteso in quanto sistema di relazioni fondato sulla solidarietà e sulla cooperazione, si trasforma in spazio educativo condiviso, in grado di contrastare le conseguenze disarticolanti della crisi ambientale e politica, mutandosi in soggetto naturale e culturale capace di affettare e di essere affetto (il riferimento è alla nozione spinoziana di affetto). In The Enchantment of Modern Life (2001) Jane Bennett ha esplorato il ruolo giocato dall’affetto umano verso il mondo naturale e culturale nei processi di definizione e di attuazione di principi etici. In particolare, l’analisi di Bennett riguardava la natura politica delle discipline corporee che a loro volta hanno il potere di dare forma alle sensibilità etiche che si trovano alla base delle relazioni sociali; questi elementi danno vita a un ambito “micropolitico” che richiede di essere indagato in profondità, dal momento che proprio in questo contesto i principi etici si trasformano in comportamenti. Come ha sostenuto Bennett, «L’economia non diventerà più verde, le ricchezze non saranno redistribuite, i diritti non saranno applicati né estesi se non vi saranno disposizioni, umori e culture umane capaci di sostenere queste trasformazioni» (Bennett 2023: 14). L’etica deve essere intesa, pertanto, come «un complesso di collegamenti tra contenuti morali, stili estetico-affettivi e stati d’animo pubblici» (ibidem), da cui non è esclusa l’agentività materiale sia dei corpi naturali sia degli artefatti tecnologici.
Il futuro giunge da lontano: l’importanza del fare respons-abile per la rigenerazione della vita
In Il futuro alle spalle. Ripensare le generazioni (2024), Tim Ingold scrive: «[…] non c’è responsabilità senza respons-abilità, senza la voce di chi si china o veglia, sollecitando la voce dell’altro con cui corrisponde» (Ingold 2024: 151-152). Secondo Ingold l’attuale crisi climatica, ecologica e politica dipende in particolare modo da come si pensa la relazione tra le generazioni, che egli rappresenta come l’incessante dipanarsi di una corda composta da tanti fili che, a un certo punto, si avvicendano come in una staffetta. La vita, afferma, anziché essere confinata all’interno di ciascuna generazione, si forgia proprio a partire dalla loro sovrapposizione collaborativa, attraverso la quale le generazioni riescono a garantirsi un futuro e lo assicurano ai loro discendenti [4].
La sostenibilità, colonna portante del progetto, implica la scelta di un percorso lungo, che si compie attraversando diversi strati generazionali. In questa riflessione, rientra in gioco il ruolo cruciale dell’educazione, intesa, in senso ampio, come il modo in cui una società costruisce e sostiene il proprio futuro. Questo tipo di educazione non porta a una conoscenza superiore e certa, ma ci conduce a prestare attenzione al mondo, a «spalancare le porte della percezione per far entrare il mondo nel campo dell’attenzione e della decisione» (ivi: 153). Questo significa scegliere di adottare una postura forse in un primo momento destabilizzante ma che proprio per questo motivo invita a legarsi, scrive Ingold, come i fili di una corda per evitare di perdersi o di essere abbandonati; costringe a rispondersi; è questa una forma di educazione – un «portare fuori» e un «chinarsi indietro» (ivi: 145) – che favorisce la respons-abilità; è – detto altrimenti – «un modo di vivere insieme nella possibilità» (ivi: 144).
L’esercizio di “riallineamento” praticato dal Centro di (Ri)Generazione parte dall’evidenza che «un futuro oltre l’Antropocene potrà consistere solo nel reimparare ad accordarsi con gli elementi che sostengono l’intera esistenza» (ivi: 170). La cultura della sostenibilità non è solo un principio, ma un invito al fare respons-abile che ci unisce al tessuto del mondo, un invito a riconnettere frammenti sparsi di natura, di umanità, di speranze, di sogni. Rigenerare è mettersi in ascolto della memoria del mondo, ripristinare, senza fretta, come artigiani che tessono nuovi inizi con i fili della saggezza e della cura, per ricucire lo strappo tra ciò che creiamo e ciò che ereditiamo.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
[*] I paragrafi primo, secondo e terzo sono stati scritti da Luciana Petrocelli; i paragrafi quarto, quinto, sesto e settimo sono stati scritti da Michela Buonvino.
Note
[1] Espressione presa in prestito dal sindaco di Castel del Giudice, Lino Gentile.
[2] Tali questioni sono state al centro del dibattito che si è svolto il 5 dicembre 2024 a Castel del Giudice in occasione del workshop Biodiverso Culturale.
[3] I concetti di cultura della sostenibilità e sostenibilità della cultura sono interconnessi e complementari; la prima espressione fa riferimento a un sistema di valori, a modalità di organizzare la vita sociale che hanno come obiettivo principale quello di garantire la vita delle generazioni presenti senza compromettere quella delle generazioni future. La cultura, l’arte, la creatività hanno il potere di trasformare le poetiche e le politiche relative alla crisi ambientale e climatica in azione performativa e trasformativa, contribuendo al cambiamento sociale e generando la trasformazione stessa del settore culturale.
[4] Questo il tema principale del focus group organizzato da Letizia Bindi, Michela Buonvino, Luciana Petrocelli e Antonella Mancini, intitolato “(Re)Immaginare il futuro”, tenutosi a Castel del Giudice il 27 giugno 2024. In quella occasione il gruppo di lavoro ha incontrato i cittadini e le cittadine di Castel del Giudice per riflettere sulle modalità di (ri)definizione di un nuovo orizzonte delle attese partecipativo, esplorando l’impatto del progetto sui processi di (re)immaginazione del futuro.
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Michela Buonvino, antropologa culturale, è attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi del Molise e si occupa di patrimoni bioculturali e di rigenerazione territoriale delle aree interne a partire dal lavoro a base culturale, di processi di patrimonializzazione e di festivalizzazione della cultura. È docente a contratto di Antropologia del mondo globale contemporaneo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (SIE) e di Antropologia dei patrimoni presso l’Università degli Studi del Molise. È dottoressa di ricerca in M-DEA/01 (Sapienza Università di Roma). Dal 2018 conduce una ricerca sul campo a Sefrou e a Fès (Marocco). La sua tesi di dottorato concerne le relazioni tra performance culturali, politiche dell’identità e processi di formazione della sfera pubblica islamica nel Marocco contemporaneo.
Luciana Petrocelli, dopo aver conseguito la laurea magistrale in filosofia presso la Sapienza di Roma, con una tesi sulla soggettività in Karl Marx, nel 2020 porta a termine un dottorato di ricerca in filosofia politica presso la Pontificia Università Gregoriana, dove conduce una ricerca sulla teologia politica nell’interpretazione spinoziana di Leo Strauss. Il lavoro è stato pubblicato da Mimes Edizioni con il titolo Lo Spinoza di Leo Strauss. Un’ermeneutica della teologia politica spinoziana. Nel 2022 è stata ricercatrice presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dove ha lavorato sul concetto di immaginazione che ha visto la pubblicazione con Ed. LeMonnier dal titolo Immaginare l’infinito. L’immaginazione spinoziana nella sua disposizione alla salvezza. Attualmente è assegnista di ricerca e docente a contratto di didattica della filosofia presso l’Università degli Studi del Molise.
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