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Friedrich e Goya davanti alla guerra

1di Francesco Azzarello 

Je suis persuadé que nous avons pour tâche urgente, et permanente, de dévisager ces deux mystères qui constituent les extrémités de l’univers vivant: d’un coté le mal; de l’autre la beauté.

François Cheng, Cinq méditations sur la beauté, Albin Michel: Paris 2006. 

[…] las guerras son, a ver si nos enteramos, peligrosas y putas guerras.

Arturo Pérez-Reverte, Una ventana a la guerra, XL Semanal 03.05.2003 

Com’è noto Beethoven [1], venuto a sapere che Napoleone si era fatto proclamare imperatore (era il 1804), cancellò l’annotazione “intitolata Buonaparte” con tanta furia da lasciare sul foglio veri e propri buchi al posto della dedica. Il grande compositore non fu certo l’unico artista nell’Europa del tempo a trovarsi a dover rielaborare in qualche modo l’operato dell’Empereur e, in senso meno puntuale, a subire le scosse dei Lumi e della Rivoluzione francese. Di fronte alla terribile violenza di quel ventennio a cavallo fra due secoli, non stupisce il gesto del genio tedesco, un gesto talmente veemente e icastico da includere in sé tutta l’amarezza della delusione, della speranza tradita che quelle vicende lasciarono nell’anima di moltissimi contemporanei e contemporanee. Francisco Goya e Caspar David Friedrich, pochi anni dopo, avrebbero entrambi vissuto, ognuno dal proprio Paese, sia l’invasione dell’esercito imperiale che le guerre di resistenza o liberazione che ne seguirono. Per non parlare dello smacco più duro di tutti per chi visse quell’epoca con una qualche speranza di progresso: la Restaurazione.

2Fra il 1806 e il 1814 Napoleone (a partire dal 1808 per quanto riguarda la Spagna, ma l’ingerenza francese nei Paesi germanofoni era già cominciata nel 1804), prima di finire temporaneamente confinato a l’isola d’Elba, porta le proprie truppe nei paraggi immediati di entrambi gli artisti: Madrid e Saragozza per lo spagnolo, Dresda e la vicina Krippen (dove il pittore si rifugiò con la famiglia) per il tedesco. Oggetto di questo scritto non saranno ovviamente le macrovicende implicate in una sorta di triangolo biografico-destinale, ma, più modestamente, le opere dei due artisti che più chiaramente le riflettono: le 82 incisioni note come Desastres de la guerra per Goya; le pochissime tele cosiddette “patriottiche” (e forse sarebbe meglio chiamarle “politiche”) per Friedrich. 

Più precisamente: non si tratterà di fare un’analisi dettagliata (e antiquaria) di ogni singola immagine ma di restituire l’essenziale della risposta dei due artisti a una crisi (in senso girardiano) che né l’uno né l’altro avevano personalmente desiderato o provocato ma ai cui effetti e alle cui dinamiche non potevano certo sottrarsi. In questo senso sia Goya che Friedrich — entrambi liberali e convinti sostenitori di un assetto sociale illuminato, egalitario e moderno — si trovarono coinvolti in una situazione simile a quella che, più o meno intensamente, anche noi potremmo presto vivere (se non lo stiamo già facendo), tanto che a riflettere sulle opere con cui interpretarono quella crisi mi è parso (per riprendere la celebre espressione della storica Barbara Tuchman [2]) di guardare in uno specchio lontano anche se in prospettiva rovesciata: Friedrich e Goya reagivano a guerre presenti o appena passate a casa loro, noi, per adesso, siamo esposti ed esposte ai venti di quelle future (che ci riguarderanno direttamente) e di quelle presenti che ci vedono coinvolti e coinvolte solo secondariamente.

Ho ritenuto, in sintesi, che guardare indietro potesse servire ad andare avanti un po’ meno a tentoni. Tanto più che le opere analizzate non costituiscono una risposta, per così dire, privata o estemporanea ai drammatici eventi che i due artisti stavano vivendo (come quella di chi oggi giustamente si indigna e si rattrista leggendo di quanto accade non troppo lontano da noi), anzi sono il risultato sia delle loro reazioni emotive che delle loro riflessioni più fredde, trattandosi di opere pensate, letteralmente, per il grande pubblico. Opere, pertanto, che non solo dovevano durare più a lungo degli eventi e delle persone da cui originavano e a cui si dirigevano ma che dovevano portare in sé il legato costruttivo, l’eredità spirituale, che non i due artisti come individui ma l’intera umanità, ai loro occhi, avrebbe dovuto provare a non dimenticare.

3Ulteriore analogia fra la crisi che toccò vivere a loro e quella nostra: la novità percepita (o intuita nel nostro caso) come sorprendente e irreversibile. Non mi riferisco con il termine novità alle pur vere (e arcinote) rivoluzioni radicali, in ambito sia strutturale che sovrastrutturale, che ogni storico che si rispetti registra e riconduce alla Modernità, all’Illuminismo e al cosiddetto Lungo diciannovesimo secolo (rivoluzioni che oggi ci sembrano del tutto normali) ma ad una in particolare e, per così dire, nuovamente nuova: lo “scatenarsi di Bellona”, la dea della guerra, il cui intensificarsi progressivo fino al parossismo più sanguinario avvenne proprio davanti agli occhi dei contemporanei e delle contemporanee di Kant e della sua esortazione razionale alla Pace perpetua [3]. Di che si tratta? Della cesura, ben nota agli specialisti di storia militare [4], fra il modo, generalmente considerato poco cruento, di condurre la guerra prima della Rivoluzione francese (ma alcuni sviluppi in questo senso risalgono già al cosiddetto Primo conflitto mondiale, ovvero la Guerra dei sette anni combattuta fra il 1756 e il 1763) e i bagni di sangue posteriori. 

Che cosa avvenne? Un cambio radicale di strategia. Gli eserciti settecenteschi tendevano a manovrare, ovvero a muoversi e quindi acquartierarsi presso una propria base piuttosto che cercare lo scontro frontale col nemico. Sostanzialmente si cercava di costringere il nemico alla capitolazione riducendolo all’impotenza funzionale piuttosto che affrontandolo sul campo di battaglia. Gli ufficiali disegnavano complesse geometrie che tenevano conto dei propri e degli altrui centri di approvvigionamento, a loro volta disposti in modo geograficamente intelligente, con particolare attenzione alle reti fluviali. La ragione di tanta prudenza non era principalmente umanitaria ma fondamentalmente economica: l’idea era quella di evitare a tutti i costi che gli eserciti si approvvigionassero da soli, saccheggiando i territori che attraversavano. In questo modo si evitavano tre grosse criticità: a) l’impoverimento estremo del territorio proprio o da conquistare (come nella Guerra dei trent’anni), b) la diserzione in massa dei soldati, all’epoca soprattutto mercenari, interessati cioè alla propria sussistenza prima che al raggiungimento degli obiettivi strategici di chi li assoldava e infine c) la perdita irreparabile di un bene politicamente preziosissimo e difficilissimo da sostituire in breve tempo: truppe lungamente addestrate a mantenere il passo e l’ordine di battaglia su qualunque terreno e a qualunque condizione. Si ricorreva all’esercito, insomma, soltanto (fino a) quando lo si poteva approvvigionare. La guerra guerreggiata costava talmente cara che si cercava di evitarla. 

Dopo la Rivoluzione francese e in particolare con Napoleone, la geometria lascia il posto all’accelerazione. Gli eserciti napoleonici non si muovono ordinati e al passo, ma marciano il più velocemente possibile verso una battaglia che sperano risolutiva, finita la quale invece di riposare incalzano il nemico in fuga, per proseguire quindi in volata verso la capitale del nemico, dove Napoleone detterà per forza di cose le condizioni di pace. Per fare la guerra in questo modo era necessario renderla meno dispendiosa ovvero: 

1. permettere alle truppe di approvvigionarsi direttamente dal territorio che attraversavano devastandolo (ed è parte dello scenario dei Disastri della guerra e corrisponde a quel che la letteratura del tempo indicava come entusiasmo degli eserciti rivoluzionari). 

2. Avere molti soldati da… consumare (la coscrizione obbligatoria di soldati provenienti dai Paesi vinti soddisferà questo triste requisito, motivo che affiora in almeno una tela di Friedrich). 

3. senza perder troppo tempo (e soldi) ad addestrarli, giacché avrebbero dovuto muoversi velocemente in grosse colonne piuttosto che in linee ordinate. 

Dei terribili effetti di questa rivoluzione si rese conto chiunque all’epoca. Della sua dinamica interna solo alcuni, pochi, fra i contemporanei. E non i generali migliori di uno sport che non si praticava più allo stesso modo in cui lo avevano imparato e insegnato ma alcuni giovani intellettuali in divisa di uno degli eserciti perdenti: i prussiani Gerhard von Scharnhorst e [5], un po’ più avanti, Carl von Clausewitz. Quest’ultimo arriverà a teorizzare la guerra come un affare del tutto simmetrico [6], una sorta di duello in cui due attori concentrano le proprie forze nel tempo e nello spazio per affrontarsi a viso aperto, come nella pittura murale che Goya realizzerà per se stesso nella famosa quinta del sordo (sua residenza temporanea) e oggi visibile al Museo del Prado di Madrid. 

4A battere Napoleone saranno soltanto la vastità e la povertà dell’immenso territorio russo (che rendeva scarso l’approvvigionamento e innocua ogni accelerazione, offrendo sempre vie di fuga al difensore) e l’asimmetria (strategia che, evitando lo scontro frontale, permette alla parte più debole di avere alla lunga qualche chance di successo contro quella più forte [7]) garantita dalla tattica di guerriglia sperimentata sia in Spagna che, forse meno intensamente, in Germania. Strategia vittoriosa ma crudelissima e, verosimilmente, sarà proprio la crudeltà (più che la vittoria spagnola che ne seguì) a spingere Goya a incidere i Disastri nel modo in cui lo ha fatto. Ma prima di passare a questo tema c’è un’ultima annotazione previa da fare. 

Qualcuno potrebbe chiedersi: se l’obiettivo è riflettere sullo specchio distante della reazione simbolica alla novità spiacevole e innegabile costituita dalle guerre napoleoniche da parte dei contemporanei e delle contemporanee, perché scegliere 

a)      testi artistici (piuttosto che filosofici o teologici) e precisamente figurativi (piuttosto che plastici, architettonici o musicali);

b)      e perché fra tutti i testi figurativi dell’epoca affini al tema proprio quelli di Friedrich e Goya piuttosto che p.e. quelli di David o di Turner? 

5Rispondo che l’arte sfrutta a proprio favore l’ambiguità insita in ogni semiosi in misura maggiore rispetto alle altre forme simboliche (espressive e rappresentative) e per di più ha dalla sua il vantaggio dell’estemporaneità di trasmissione e dell’agilità di uso: per vedere un’immagine, anche ambigua, si impiegano pochi secondi. A leggere la Scienza della logica di Hegel (N.B. scritta fra il 1812 e il 1816), ci vuole una vita. Magari ci vorrà una vita anche per decifrare il senso profondo di una tela di Friedrich ma è molto più facile ricordare una sua immagine piuttosto che un intero trattato (anche intelligentissimo) di filosofia (e la maggiore facilità di evocazione mnemonica delle immagini vale anche nei confronti delle melodie e degli edifici). 

Perché, poi, pitture e non sculture? Perché le immagini pittoriche riescono rispetto alle sculture tridimensionali a concentrare molte più informazioni in se stesse rispetto alle statue: ottimizzando lo spazio di cui dispongono, riescono persino a raccontare intere storie in pochissimi centimetri quadri. Indipendentemente dall’effettiva risonanza immediata che le immagini che ho scelto ebbero all’epoca in cui furono prodotte, mi è sembrato, in buona sostanza, scegliendo questa specifica forma simbolica, di poter rispondere agli interrogativi che mi sono posto oggi, più facilmente (e con maggior possibilità di far capire a qualcun altro o altra ciò che intendo) che non se avessi scelto altri fra i non pochi supporti di senso che quel ventennio fatale offre. 

6Perché, infine, fra i tanti pittori disponibili, proprio Friedrich e Goya? Perché presentano delle similarità e delle differenze interessanti e costruttive rispetto all’obiettivo che mi sono proposto. Cominciando dalle similarità, qui quelle che mi sembrano decisive: 

a) entrambi, come ho già osservato, sono liberali e convinti sostenitori dell’Illuminismo e della Scienza.

b) Nessuno dei due rappresenta Napoleone in persona (a differenza p.e. di Turner o David),

c)  né celebra battaglie (come, p.e., Gros): persino le celebri tele del maggio madrileno che Goya produsse su commissione regia mancano del tutto di trionfalismo. 

7d) Entrambi sembrano vedere la guerra esattamente per com’è, al di là di personalismi al limite dell’idolatria (e qui la differenza di prospettiva rispetto a Hegel o Goethe mi è parsa molto significativa).

e) Entrambi hanno prodotto molto di più e su ben altre tematiche nel corso della loro vita artistica che queste opere di tema bellico (ovvero, come capita oggi alla maggioranza di noi, si sono occupati della guerra, quando se la sono trovata davanti, percependola come realtà non come soggetto artistico, genere pittorico o topos letterario). 

Le differenze, persino limitandosi a quelle più evidenti (visibili cioè anche prima dell’analisi delle opere che seguirà), non mi sono sembrate meno promettenti: 

8a) Goya, strenuamente dedicato all’ascesa sociale ed economica, a giudicare dalla produzione e dal lascito epistolare, aveva un temperamento probabilmente tanto focoso quanto ossessivo. Lo schivo Friedrich, socialmente marginale, era sicuramente più meditativo; se non ascetico nello stile di vita certamente più asciutto in generale dello spagnolo (impossibile immaginarlo a dipingere majas, feste popolari o sabba infernali).

b) L’uno, orgogliosamente patriota di una Germania liberale che inizierà a esistere soltanto molto dopo la sua morte, l’altro grande appassionato di corridas ma fortemente critico verso la sua stessa identità politico-nazionale, inquadrata in uno degli Stati etnico-religiosi più antichi d’Europa.

c) Friedrich, fervente luterano. Goya cattolico ateo (stando all’ipotesi di Werner Hofmann [8]).

9d) Goya, pittore di corte, perito in ogni genere pittorico meno che nei paesaggi, disinteressato alla fedeltà formale alla natura, attirato dai volumi e dal contrasto [9], libero soltanto quando incide (invece di dipingere, cosa fa per conto del re o di committenti aristocratici); Friedrich essenzialmente paesaggista, discepolo della natura (come si diceva all’epoca) che organizza le sue tele sempre secondo un chiaro ordine geometrico, artista autonomo, sempre vicino all’accademia ma mai veramente integratovi del tutto (e sarà uno dei crucci della sua vita). 

Senza alcuna intenzione di ridurre la questione a un banale confronto, l’analisi delle opere fornirà altre similarità e differenze rilevanti rispetto alla questione di fondo. Chiude l’articolo una considerazione riassuntiva finale.

  1. 1.  Los desastres de la guerra

1.1 Presentazione dell’opera 

Prima di iniziare con le osservazioni più inerenti al tema della guerra, mi sembra opportuno presentare brevemente la raccolta nella sua interezza [10]. È noto che la prima pubblicazione in senso proprio avvenne, molto dopo la morte di Goya, nel 1863 ad opera dell’Accademia di San Fernando. Il titolo Los desastres de la guerra risale a questa pubblicazione (non è quindi di Goya stesso) e si deve probabilmente all’intenzione dell’editore di rimandare a un’altra serie di incisioni, di tema affine: Les misères et les malheurs de la guerre di Jacques Callot (1633). Questa serie di incisioni risaliva alla Guerra dei Trent’anni ed era percepita come una denuncia degli orrori legati alla guerra, come una sorta di appello a evitarla. Segno che gli accademici di San Fernando intesero il lascito di Goya in questo senso. 

Non si sbagliarono ma rispetto all’opera stessa e alle probabili intenzioni di Goya lasciarono la metà di quanto effettivamente pubblicarono fuori dal titolo. Nel 1823 Goya stesso aveva infatti regalato una sorta di esemplare completo di 85 fogli (provvisti dei sottotitoli autografi che oggi conosciamo) all’amico Agustín Ceán Bermúdez, intitolandolo Fatales consecuencias de la sangrienta guerra en España con Bonaparte y otros caprichos enfáticos [11]. Questo titolo indica chiaramente che la raccolta, nelle intenzioni dell’autore, si divide in due parti fondamentali. Nel titolo della pubblicazione accademica è solo la prima parte a comparire, determinando un’interpretazione dell’intera opera che estrapola la vicenda cui essa allude dalla sua cornice storica iniziale universalizzandola. La parte indicata da Goya a Ceán Bermudez con l’espressione otros caprichos enfáticos manca del tutto dal titolo della pubblicazione del ‘63. Non è un’assenza di poco conto, se si considera che Goya, sull’esterno della copertina dell’esemplare regalato all’amico, aveva ridotto il titolo alla semplice indicazione Capricho, come a voler dare un’indicazione di genere per l’intera opera. Com’è noto Goya aveva pubblicato fra il 1797 e 1799 un altro gruppo di incisioni proprio con questo titolo, ma al plurale: i Caprichos si volevano componimenti leggeri, di fantasia, al di fuori dei canoni tradizionali della pittura [12], e tuttavia legati a questioni serie di attualità. Si trattava insomma di componimenti di fantasia ma con una forte pretesa di verità. È molto probabile, dunque, che nelle intenzioni dell’autore i Disastri dovessero contenere sia la verità storica che la sua allegoria. 

10In effetti Goya aveva cominciato a lavorare alle incisioni a Saragozza, durante l’assedio francese del 1810, rispondendo all’invito del generale Palafox a documentare quella che sembrava ancora una difesa vittoriosa. Si stima che Goya lavorò circa un mese a Saragozza: i fogli 2-47, composti tra il 1810 e il 1814, senza essere un proto-reportage di guerra (la letteratura più autorevole è concorde al riguardo), si riferiscono proprio a questa vicenda. Un esempio significativo è il foglio numero 7, dal titolo Que valor!, che si riferisce a un evento specifico dell’assedio: la famosa Augustina de Aragón, vi si arrampica su alcuni cadaveri per azionare un cannone. Improbabile che l’Augustina storica lo abbia fatto veramente. L’immagine ha un che di cinematografico: è come se Goya avesse voluto dare al suo “lettore” (le incisioni corrispondevano a una serie di immagini da leggere in sequenza e non vanno dunque guardate come si guarda una tela) l’impressione di trovarsi sulla scena. La testa di Augustina — nera, probabilmente, come la palla del cannone che sta orientando — sovrasta l’intera scena. 

La guerra incalza e Saragozza finisce per capitolare. Goya lascia Saragozza per Madrid ma non abbandona il progetto, probabilmente incoraggiato dalle notizie che nel 1810 giungevano da Cadice e dal suo parlamento a sostegno della libertà di stampa. I fogli dal 48 al 64 si riferiscono alla carestia di Madrid del 1811-1812. 

Il ritorno di Ferdinando VII nel 1814 sembra aver posto però fine al progetto di pubblicazione di Goya. Sicuramente per la sua parte pseudo-documentaria. In ogni caso nell’ultimo gruppo di fogli, i cosiddetti caprichos enfáticos (vi lavorò fino al 1820), la pseudo-documentazione cede del tutto il passo all’allegoria. Goya libera la sua fantasia visionaria ma, nell’insieme, sembra perdere un po’ la trebisonda. Come se la libera pubblicazione di un testo seminale per una nuova Spagna liberale, via via che le vicende politiche peggioravano, gli apparisse sempre meno realistica e l’intero progetto, ormai privo di traguardo, smarrisse progressivamente il cammino.

11La Pace, la Verità, il Lavoro (tutte figure umane) sembrano caldeggiare il vecchio programma fisiocratico dell’illuminato Jovellanos per la riforma della Spagna. Ma è come se già nemmeno lo stesso Goya ci credesse più tanto. Nel complesso, l’opera di Goya appare come una composizione non finita, schubertianamente incompiuta come la Spagna liberale e ugualitaria cui il suo testo preludeva ma che non riuscì a nascere. Se fosse nata, sembrano suggerire i Disastri, sarebbe nata sulle ceneri della sua stessa sofferenza, del suo stesso oscurantismo e della sua stessa ingiustizia. Non ho il tempo di verificare seriamente quest’ipotesi (al di là di una rapida ricognizione bibliografica) ma scambiando i Francesi per gli Austriaci i Disastri — trama più asciutta, linguaggio più esplicito e ideologia chiaramente anticlericale nonostante — mi sembrano stare alla Spagna come I Promessi sposi all’Italia. 

121.2 I disastri e la guerra come fenomeno universale 

Secondo Werner Hofmann — con una tesi che qui riformulo e amplio pesantemente, spero, senza tradirla del tutto [13]— nei Disastri Goya mentre commenta il passato comune e mette in guardia il pubblico a cui si rivolge (potenziale cittadino/-a di un nuovo Stato liberale) non può fare a meno di constatare con amarezza il fatto che l’essere umano è preda irredimibile delle forze distruttive dei suoi stessi istinti. L’origine dell’orrore, della sofferenza (hobbesianamente) sarebbe la lotta per la sopravvivenza, che conduciamo anche con l’arma della nostra stessa immaginazione fin troppo efficacemente. Considerando oltre ai Disastri anche le cosiddette Pinturas negras della Quinta del sordo, conclude Hofmann, la violenza sfrenata diventa la marca distintiva della condizione umana. 

13Difficile dargli torto di fronte a queste immagini sul piano dell’analisi. Ma, dalla prospettiva di questo articolo, nella situazione che stiamo vivendo, se la constatazione di ciò di cui è capace l’essere umano è certamente la parte più amara e sconfortante dell’elaborazione di Goya dell’invasione napoleonica, mi sembra che nello specchio distante della sua opera sia possibile scorgere anche dell’altro.

La prima cosa che va detta è che Goya elimina ogni velleità celebrativa dal discorso sulla guerra. Basterebbe il primo foglio a chiarire come, con che taglio Goya voleva che il suo pubblico considerasse le cose tristissime che stava per mostrargli: perché altrimenti mettere il suo personaggio nella posizione di un supplice [14]? 

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Si trattava di celebrare una vittoria o di tornare in sé? Il foglio 7 su Augustina de Aragón potrebbe suggerire il contrario ma ampliando la prospettiva si vede subito che la celebrazione del coraggio delle donne (3 fogli in totale) è quantitativamente surclassata dal resto di soggetti chiaramente incelebrabili e non celebrati (esecuzioni, torture e stupro incluso).

16Più che per distribuire medaglie al valore mi sembra che Goya ricorresse al dato di fatto che anche le donne dovettero battersi per dire che la nuova guerra napoleonica con la sua esplosione di violenza è talmente antiumana (non in-umana) da cancellare anche la distinzione di genere sociale e biologico. Stessa fine dell’identità di genere fanno, nei Disastri, tutte le identità con cui siamo soliti affrontare l’esistenza. Già il foglio 2 e il foglio 3 negano ogni validità di corso al concetto stesso di amico e nemico, ovvero di torto e ragione o giusta retribuzione. L’unica identità possibile (l’unico tempo possibile[15]) resta quella di cadavere o non-ancora-cadavere, come si vede nel foglio 12, dove l’unico discorso umano ancora praticabile in quel contesto si riassume nel gesto del personaggio non-ancora-cadavere: vomitare. 

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Ma se le celebrazioni delle gesta belliche vanno bandite, che discorso può fare una comunità di persone che, passata la bufera, voglia tornare a vivere? Se ha ragione Hofmann, nessuno: basta un sorriso amaro, o crudele, a seconda dei punti di vista. Che Goya alla fine della sua vita la pensasse così non lo posso né affermare né negare ma di certo l’autore dei Disastri non sarebbe stato d’accordo [16]. Il foglio 46 mostra due figure indifferenti all’ennesimo omicidio che si sta compiendo sotto i loro occhi. Il sottotitolo recita, del tutto banalmente: Esto es malo.

19Nei commenti a quest’immagine ci si concentra in genere sul fatto che la vittima è un monaco. Goya si limiterebbe qui, in sintesi, a condannare l’omicidio sacrilego. Ma se le identità non esistono più, che importanza ha l’abito o l’uniforme di chi non è ancora un cadavere e di chi lo è già? A mio modo di vedere la condanna di Goya qui è preventiva, ed è diretta a chi osserva la scena indifferente. Ed è ovvio che non si tratta delle figure sullo sfondo ma di chi queste, al di fuori dello specchio distante dell’immagine, guardano: il pubblico.

L’unico essere ancora umano vivo, uomo, donna, religioso, laico o di qualsiasi identità nuovamente possibile, chi guarda questa immagine riceve insieme allo sguardo speculare delle figure indifferenti sullo sfondo anche quel terribile avvertimento: Esto es malo. Chi viene dopo l’apocalisse, sembra suggerirci Goya, piuttosto che intestardirsi sul proprio cinismo e lasciarsi tentare dalla propria capacità di violenza, se vuole costruire uno Stato liberale, può, anzi kantiamamente deve fare proprie quelle parole e meditarle in tutta loro apparente banalità [17]. 

2. Friedrich e la guerra 

Soltanto quattro opere di Caspar David Friedrich sono legate in modo esplicito al fenomeno guerra: Gräber gefallener Freiheitskrieger (Tombe dei caduti per la libertà), Arminiusgrab (La tomba di Arminio), Der Chasseur im Walde (Il soldato nel bosco) e Huttens Grab (La tomba di Hutten[18]. Costretto, per motivi di spazio, a fare una selezione fra queste quattro tele discuterò soltanto quelle che mi sembrano fornire le risposte più chiare e rilevanti alla domanda cui questo articolo risponde. Sulle altre due mi limiterò a qualche cenno indispensabile.

202.1 Tombe dei caduti per la libertà 

Friedrich presenta la tela Gräber gefallener Freiheitskrieger (Tombe dei caduti per la libertà [19]) (49 × 70 cm) all’Accademia di Berlino nel 1812, autonomamente, non rispondendo cioè ad alcun incarico. Il momento politico è drammatico: la Prussia deve fornire a Napoleone ben 20.000 soldati per la campagna di Russia, oltre al libero passaggio e al diritto di confisca sui propri territori. Prussia a parte, circa un terzo dei 600.000 uomini che compongono la Grande Armée è composto da tedeschi. Friedrich presenta dunque un’opera a Berlino assumendosi qualche rischio: sebbene, molto probabilmente, l’artista intercettasse il sentire generale, ben oltre i circoli cosiddetti patriottici che frequentava, la tela avrebbe potuto essere intesa come una critica tanto al governo francese che a quello prussiano. A salvarla dalla censura fu probabilmente la sua ambiguità. 

L’unica cosa che si vede chiaramente, infatti, è l’uniforme dei due personaggi umani, vicini al centro del quadro: i loro copricapi li identificano come soldati francesi del corpo dei Cacciatori. Le due figure si trovano nel punto di confluenza di almeno tre linee: la linea discendente da sinistra (dove è ubicato l’obelisco), quella di destra che parte dall’albero in alto a sinistra e infine una terza linea che dalle due figure risale verso la grossa tomba al centro in basso. Le tre linee, la posizione leggermente decentrata e la stazza relativamente piccola delle due figure mi sembrano dare a chi guarda la tela una sorta di indicazione formale: per comprenderla deve avvicinarsi e guardare bene [20]. Con un certo sforzo è possibile, in effetti, notare che il personaggio di sinistra è di profilo rispetto a quello di destra, che invece dà le spalle a chi osserva la tela. È come se i due, sostando in quel punto, stessero decidendo sul da farsi. Di cosa discutano non è dato saperlo ma, vista l’ambientazione della scena proposta, non deve trattarsi di nulla di piacevole. La natura del paesaggio è invero molto inquietante: non solo le due figure si trovano in un cimitero ma addirittura questo cimitero è immerso in quella che potrebbe essere una valle, talmente profonda che, Dante mi perdoni, le due figure sembrano aver perduto ogni speranza dell’altezza: la parete rocciosa occupa tutta la superficie della tela; non è visibile neanche un centimetro di cielo. Il cammino che le figure sembrano dover percorrere e lo sguardo di chi osserva la tela appaiono diretti dall’autore verso il basso, verso quella sorta di bocca d’antro, coperto da un lembo di roccia ma perfettamente (inevitabilmente) intuibile, il cui fondo invisibile corrisponde al focus semantico della tela. 

21Fatto qualche passo indietro è facile, conoscendo un po’ la tradizione pittorica europea e la pittura di Friedrich, rendersi conto che si tratta di un paesaggio ossianico, romanticamente sublime, che probabilmente combina a) elementi del paesaggio naturale (concretamente una caverna presso Wernigerode, nell’Harz, che Friedrich ha ritratto in diverse opere, fra le quali anche La tomba di Arminio, tela veramente molto simile a questa che sto discutendo, in cui — pur se veramente difficile da scorgere — un soldato francese osserva una tomba in un antro) b) con la moda del tempo e c) con l’ispirazione formale di tele olandesi di atmosfera simile che Friedrich aveva avuto modo di conoscere nella galleria di Dresda (in particolare Il cimitero giudeo di Jacob von Ruisdael). Bisogna dunque prestare attenzione alle tombe per comprendere il senso della tela e scoprire cosa c’è da vedere nell’antro. 

22I monumenti funebri visibili sulla tela di Friedrich suggeriscono che, come per La tomba di Arminio, anche l’antro vicino al quale si trovano i soldati di questa tela sia o contenga una tomba, tanto che Helmut Börsch-Supan ha potuto affermare che i soldati, evangelicamente, stanno facendo la guardia a una tomba vuota. Il quadro alluderebbe insomma alla resurrezione della Germania dopo l’invasione napoleonica. E visto che Napoleone nel 1812 non è ancora caduto, si tratterebbe di una sorta di buon auspicio. Interpretazione possibile ma non certo l’unica e che contrasta con l’indicazione formale strutturalmente imposta dal quadro: allontana chi osserva dal testo (ovvero dalla lettera del quadro) piuttosto che avvicinarlo (o avvicinarla). 

Se si prosegue, infatti, con l’osservazione dettagliata della tela (oggi con una lente di ingrandimento, forse un po’ più facilmente allora) si possono leggere alcune iscrizioni sui monumenti funebri ai lati: Friede deiner Gruft / Retter in der Noth (ovvero Pace alla tua tomba / Salvatore nel momento del bisogno) a sinistra e Des edel Gefallenen für Freiheit und Recht. F. A. K. (Del nobile martire della libertà e della giustizia. F. A. K.) a destra [21]. Sull’obelisco, l’elemento cromaticamente più chiaro e architettonicamente più nuovo di tutto il quadro, quasi un dito puntato all’attualità, si legge: Edler Jungling Vaterlandsretter (Il nobile giovane salvatore della patria). Ora: se Friedrich erige un monumento funebre ai giovani caduti per la patria pensando ai 20.000 prussiani partiti per la Russia, sta facendo una profezia che solo con ironia, se non addirittura sarcasmo, può chiamarsi “buona”. Se così fosse (o se così fosse e basta) il quadro sarebbe una sorta di caustico epitaffio preventivo. 

A suggerire un’altra interpretazione (che ha il pregio di non negare i corretti richiami intertestuali indicati da Börsch-Supan inserendoli in un contesto più vasto) è però la tomba divelta in basso, idealmente la più vicina allo spettatore. Oggi è difficile scorgerli ma a osservarla bene si scoprono due particolari importanti. Il primo è l’iscrizione Arminius (il riferimento è all’eroe cherusco che contribuì in modo decisivo alla sconfitta dei Romani a Teutoburgo nel primo secolo d.C. e alla formazione dell’identità nazionale tedesca [22]); il secondo è un serpente che si arrampica sulla tomba ed esibisce i colori della Francia [23]. La tela suggerirebbe, allora, che la storia della Germania (fin dalla Creazione visto il serpente) è costellata di tombe: da Arminio fino ad oggi tanta gente si è sacrificata per la patria. Queste morti, allora, sono soltanto apparenti: dalla tomba di Arminio (ovvero grazie al suo sacrificio) nascono fiori, per lo più bianchi (come l’obelisco) e molta vegetazione. La patria, a conti fatti, grazie al sacrificio di molte vite risorgerà. Fra gli interpreti di Friedrich Peter Märker (2007) ha illustrato molto bene questa concezione della storia umana come progresso verso la liberazione, nonché il ruolo che sia la Religione (in particolare la Riforma) che la Natura col suo tempo ciclico ricoprono (nella sostanza e nella forma) nel modo in cui il pittore espone questa filosofia [24]. 

Per quanto mi riguarda non ho ragioni per negare che le cose stiano come Marker aiuta a vederle, sia su un piano generale che nello specifico della tela, e tuttavia mi sembra che visto quel che si vede e, in parte, anche quel che non si vede, il quadro, dal punto di osservazione scelto per questo articolo, permetta ulteriori riflessioni. Ammesso che l’antro sia o contenga una tomba vuota: perché non farla vedere chiaramente? Probabilmente perché si tratta di una tomba futura e forse le due figure si stanno domandando chi vi sarà ospitato cominciando certamente a sospettare che si tratterà o di francesi in Germania o di tedeschi vestiti da francesi. Si tratterà, insomma, visti i precedenti storici, se non fanno nulla per evitarlo, di loro stessi. Forse si sono soffermati per chiedersi: ne varrà la pena? E perché poi? Vista la posizione del serpente (così vicina a chi guarda il quadro), come evitare di domandarsi se questo destino maledetto di dover nascere e morire (e inevitabilmente anche uccidere) per la patria non sia veramente un peccato seminale? Davvero non c’è altra scelta a quella fatale, per riprendere le osservazioni fatte rispetto all’opera di Goya, di “intestardirsi sul proprio cinismo e lasciarsi tentare dalla propria capacità di violenza”? 

So bene che questa chiosa all’interpretazione classica, sfrutta quelle che Wolfgang Iser chiamava le Leerstellen di un testo, cioè i vuoti che contribuiscono a renderlo ambiguo e che lettori e lettrice devono riempire e che le garanzie di farlo correttamente sono notoriamente pochissime. Ma che male c’è a provarci? Perché prendersi la briga, altrimenti, di leggere un romanzo, una poesia, vedere un film o guardare un quadro se non per farcene stimolare e esplorare punti di vista diversi dal nostro? Mi pare fosse Rilke a raccontare che una voce al Louvre gli aveva intimato di cambiare la sua vita. Fra i grandi ermeneuti di Friedrich, Hillmar Frank [25], ispirandosi a Kant e Semler [26], ha proposto come principio poetico e accesso interpretativo all’opera dell’artista il concetto di reverie. Secondo Frank Friedrich, più che prescrivere al proprio pubblico l’interpretazione delle proprie tele, componeva immagini tese a farlo inesorabilmente scivolare in uno stato di concentrazione e meditazione profonde (reverie appunto), dove a produrre le immagini non è più l’artista ma il pubblico stesso trasognando.

23In Der Träumer (Il sognatore), p.e., è chi guarda il quadro a decidere cosa stia sognando la figura, fino a chiedersi se a sognare sia veramente la figura o lui o lei mentre guarda il quadro. 

Il senso delle immagini si palesa in questo modo soltanto grazie al contributo di chi le guarda, guidato nelle proprie divagazioni più o meno fermamente dalla tela stessa. A qualcuno questo genere di ermeneutica risulterà troppo vaga ma tenderei a misurarne la validità soltanto a partire dalla pratica. L’opportunità e l’efficacia di questo metodo diventano, p.e., evidenti (anche rispetto a Tombe dei caduti per la libertà) se si prendono in considerazione e l’altra tela patriottica di Friedrich Der Chasseur im Walde (Il soldato nel bosco) e il contesto in cui fu esposta per la prima volta.

242.2 Il soldato nel bosco

Questa tela (66 × 47 cm), infatti, fu esposta, congiuntamente a Tombe dei caduti per la libertà e all’analoga Tomba di Arminio, a Dresda nel 1814 ovvero dopo la prima disfatta di Napoleone, in occasione di una “mostra di arte patriottica” (“Ausstellung patriotischer Kunst” [27]). Il trittico provocò molta incomprensione. In particolare, Il soldato nel bosco fu inizialmente recepito come un semplice paesaggio (nell’accezione più banale e deludente del termine) più che come un’opera politica. Soltanto nell’autunno del 1814 comparve una recensione su un giornale dell’epoca (per i dettagli rimando a Grave 2022: 134) in cui il senso politico del quadro veniva parzialmente reso esplicito. Il quadro presenta un soldato francese, solo, davanti a un fitto bosco di abeti. Alle sue spalle due monconi d’albero su uno dei quali un corvo (così la recensione) appare pronto a intonare un canto funebre. Non stupisce che Helmut Börsch-Supan, un secolo e passa più tardi, vedesse negli abeti le fitte schiere dei patrioti tedeschi che si apprestano ad annientare il francese. 

Senza voler negare l’evidenza ma considerando ermeneuticamente l’ambiguità del quadro, mi sembra giusto porsi almeno questo interrogativo: se si trattava di far eroicamente scempio del cadavere del nemico perché mettere un solo francese contro un migliaio di avversari? Dov’è l’eroismo? Il quadro manca talmente tanto di celebrazione della forza (vendicatrice) da far sospettare che Friedrich, ancora una volta, più che lanciare un proclama intendesse rivolgere una domanda a chi contemplava il quadro, una domanda che, vista la simbologia di Tombe dei caduti per la libertà non esiterei a chiamare l’enigma del serpente, ovvero: cosa faresti se vedessi un nemico (già battuto) avviarsi verso la propria morte? Fuor di enigmi e allegorie: Friedrich mette chi guarda il quadro nella prospettiva di tornare a scegliere se aiutare la figura o infierire e nuocergli nello stile dei contadini spagnoli nei Disastri di Goya. Cosa, all’interno del quadro, mi legittima a sostenere questa ipotesi? Il fatto che il soldato ha un atteggiamento esitante e sembra provenire non dal sentiero centrale, quello con i due monconi d’albero, in cui credo si trovi chi osservi, ma dalla sinistra. Penso che chi guarda il quadro è invitato (o invitata) come nei Disastri di Goya a mettere in dubbio la propria uniforme, a smettere per un momento la propria identità di nemico e a meditare la scena (ovvero il momento storico in cui si trova) a partire tanto dal proprio punto di vista fisico che da quello mentale della figura, immobile davanti all’oscura ineluttabilità del bosco. Se si considera la nazionalità di chi guarda insieme alla prospettiva centrale cui il quadro lo (o la) obbliga, il suo sguardo incrocia prima i monconi col corvo, poi il francese e quindi il bosco di abeti. Si capisce che chi guarda sta proiettando visivamente oscure intenzioni sulla via di questo francese. E sono proprio quelle intenzioni il vero soggetto da fermare e meditare trasognando a occhi aperti. Il quadro, insomma, può funzionare in linea di principio tanto come poco entusiasta istigazione alla violenza liberatoria (e si tratterebbe, e in fondo si tratta, di premeditazione) che (molto più efficacemente) come interrogazione a se stessi circa la qualità morale delle nostre intenzioni di fronte al nemico. Più che della celebrazione di una vittoria mi sembra trattarsi qui di una profonda messa in discussione dello stile in cui si sceglie di condurla. E c’è il serpente dell’altra tela a ricordarci che anche questa scelta, apparentemente così semplice, ovvia e naturale, potrebbe risultarci fatale, significando, finalmente, nient’altro che l’umana perdizione.   

253. Per concludere 

Al netto delle differenze culturali e contestuali [28], l’essenziale della risposta dei due artisti alla crisi rappresentata dalla terribile violenza della nuova guerra postrivoluzionaria mi sembra, ad analisi ultimata, potersi riassumere in tre punti e qualche osservazione. 

1. Non solo l’esperienza della guerra in sé ma anche e soprattutto la rielaborazione della stessa può costituire un’occasione per affrontare meglio una questione politica sempre urgente: la costruzione di un nuovo Stato più civile. 

2. Gli esseri umani liberi e capaci di riflessione dovrebbero rifiutare per quanto possibile (a Goya lo fu molto meno che a Friedrich) fare della guerra un epos. 

Il rifiuto di celebrare la guerra si manifesta nelle opere analizzate attraverso la scissione dei motivi girardiani del sacrificio e della violenza. Questa scissione è articolata nelle opere dei due pittori in modo differente ma a conti fatti speculare. Nei Disastri la violenza— presentissima anche nel resto dell’opera dell’artista, esplicitamente in quello “privato” in modo più velato ma facilmente intuibile in quello “pubblico” — è talmente evidente che c’è da credere che la nuova guerra napoleonica sia servita all’artista spagnolo a rendersi conto di quanta già ne circolasse nel contesto in cui viveva (propria psiche inclusa) [29].

26Se la guerra l’aveva aiutata a manifestarsi, esprimerla attraverso immagini pubbliche era un modo di rendere giustizia alla società tutta. Ennesima, mortificante, ingiustizia il non averle potute pubblicare. I Disastri, condensando quel che a tutti e a tutte era toccato vivere (ma evitando di celebrarlo), denunciano la mancanza di senso e della violenza e della morte rendendo esplicita la radicale antiumanità della guerra totale. 

In Friedrich, con toni molto meno accesi e veementi ma ugualmente stimolanti, la necessità (motivata anche religiosamente) di mantenere il concetto di sacrificio nella sua filosofia della storia come liberazione progressiva dello Spirito, unita all’assoluta assenza di violenza esplicita nei suoi quadri sulla (nuova) guerra [30], trasforma quelli che per i suoi contemporanei erano dispositivi (implicitamente violenti) di autocelebrazione in occasioni di meditazione e riflessione profonda, potenzialmente, radicalmente autocritica. 

273. Entrambi gli artisti sembrano suggerire che la violenza è incompatibile con un progetto di civiltà degno di un’umanità da costruire. Secondo Goya il pericolo insito nello scatenarsi della violenza è la cancellazione di ogni identità possibile e la riduzione dell’umanità alla capacità di uccidere prima di essere uccisi (o uccise) [31]. Secondo Friedrich, scatenando la violenza che è in noi, rischiamo di perdere proprio ciò che, invece, dovremmo affannarci a conservare: la capacità, la possibilità di non fare il male. Forse in Goya, vista la Restaurazione, non resta molto altro da conservare se non la Legge morale in noi, laddove Friedrich, probabilmente, rimane fedele fino alla fine della sua vita all’idea di costruire una Germania liberale. E l’aggettivo, per il pittore tedesco, apparenze nonostante, doveva importare più del sostantivo se, fra molti altri indizi della forza delle sue convinzioni [32], fece girare La tomba di Hutten per diverse mostre in Germania avvertendo pubblicamente e per iscritto (con un cartiglio a fianco del quadro) che avrebbe devoluto i soldi dell’eventuale vendita al popolo greco che stava combattendo per la propria indipendenza [33].

28Del resto l’impegno di Friedrich per la costruzione di una Germania liberale va ben al di là di questi anni di guerra. L’uso di vestire i suoi personaggi umani (maschili e femminili) con l’altdeutsche Tracht, cioè il vestito patriottico proibito dalle autorità nel 1819, inizia fra il 1816 e il 1818 e non viene più abbandonato. Qui non posso che limitarmi a questi brevi cenni e a indicare senza alcun commento qualche tela: (Auf dem Segler / Sul veliero 1818/1820; Die Schwestern aut dem Söller am Hafen / Le sorelle sul balcone 1820 / Der Wanderer über dem Nebelmeer / Il viandante sul mare di nebbia 1817/1818). 

Ho aggiunto queste ultime indicazioni per discernere qualche altro riflesso nell’immagine che lo specchio distante delle opere dei due artisti ci restituisce. Certo le loro tele rispondono a una crisi il cui acme di violenza è parzialmente (temporaneamente) superato, laddove a noi, formalmente, resta ancora la scelta e la possibilità di riflettere anche sulle loro osservazioni prima di (contribuire a) scatenare Bellona. Mi sembra tuttavia evidente che il rifiuto della violenza perorato da queste immagini sia già una chiara indicazione per chi cercasse orientamento. Come pure il fatto che rifiutarla, di per sé, non sia incompatibile né con la costruzione di identità (teologico-politiche) umane, né con la concezione dell’esistenza come lotta di liberazione da ogni tirannia e ingiustizia; e neppure – bisogna ammetterlo con onestà – col realismo di chi sa che non ci si libera dalla guerra come pratica politica con due parole e qualche disegno. Ma se ha ragione René Girard e non è realistico pensare di eliminare per sempre tutta la violenza dalla vita sociale, quel che sì si può cominciare subito a rigettare è l’idea che subire qualcosa di innominabile e crudele conferisca la licenza di scatenare tutta la violenza di cui si è capaci. Questo rifiuto della violenza sfrenata è stato, fino a non troppo tempo fa, parte integrante della nostra identità politica. È vero che il mondo oggi è più complesso di ieri e che le identità sono molto più liquide di quel che molti di noi sono disposti e disposte ad ammettere, ma rigettare anche quei discorsi che pretendono di difendere la nostra identità inneggiando a presunti eroismi, alla guerra o alla violenza, continua a sembrarmi il modo più semplice di preservarne la parte migliore. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note
[1] V. Burnham (2020).
[2] (1978).
[3] V. Konisch / Münkler (1999, p. v) e per quanto riguarda Goya Williams (1976).
[4] Cf. al riguardo l’abbondante letteratura indicata in Sikora (1999: 153 n. 1).
[5] Cf. Sikora (1999) e Herberg-Rothe (1999). Scharnhorst è menzionato esplicitamente in Huttens Grab (La tomba di Hutten) una delle tele politiche di Friedrich.
[6] Non ritengo necessario affrontare, visto il focus dell’articolo sulle opere dei due artisti, lo snodo concettuale intorno al quale muovono le proprie critiche il Girard critico di Clausewitz e i critici del Girard critico di Clausewitz, pur ritenendolo fondamentale quando si parla di guerra e violenza. Al riguardo v. (p.e.) Gardner (2011).
[7] Quel che successe in Vietnam all’esercito americano. Sull’asimmetria come tratto fondamentale delle guerre moderne v. Kaldor (2012) e Münkler (2007). Per quanto riguarda la l’elaborazione teorica della guerra partigiana (dunque asimmetrica) in Clausewitz v. Münkler (2012: 75-90).
[8] (1995: 531).
[9] Cf. De Salas (1978: 94).
[10] Per questa breve presentazione dell’opera mi sono orientato fondamentalmente a Busch (2018) e Grazioli (2024). Per i dettagli filologico-editoriali rimando a Lecaldano (1975: 208-216).
[11] Le dimensioni dei fogli sono variabili ma tutte assimilabili a quelle di un foglio A4 che Goya dispone sempre orizzontalmente (esclusi i fogli 83-85, comunque estranei ai Disastri veri e propri).
[12] La pubblicazione dei Caprichos, a differenza della gran parte dell’opera di Goya, non avvenne su commissione ma su iniziativa del pittore. Tzvetan Todorov (2011) parla giustamente di una sorta di sdoppiamento: c’è un Goya ufficiale e abbastanza tradizionale, che dipinge su committenza reale, aristocratica o ecclesiastica e uno, talmente libero da apparire sfrenato, che incide o affresca in modo del tutto autonomo, come un qualunque artista moderno.
[13] V. (1995: 502 ss.) tesi che mi sembra risuonare in Todorov (2011), Williams (1976), nello stesso Hofmann (in un saggio del 1981) e, più debolmente in Tomlinson (1992) e che sempre Hofmann (1995: 562 s.) arricchisce con un riferimento molto convincente sul piano dell’astrazione storica al concetto di Illuminismo come paura mitica radicalizzata di Adorno e Horkheimer.
[14] Per un commento a ogni singolo foglio, questo (con il suo portato di intertestualità religiosa) incluso, v. Lecaldano (1975).
[15] Si consideri la sequenza dei fogli 14-19, che culmina con l’indicazione ya no hay tiempo (ora non c’è tempo).
[16] E l’oscillazione fra il nichilismo e il trionfo della verità nell’ultima parte dei Disastri mi sembra mostrare quanto sofferta, ponderata e umanamente fragile sia stata la sua presa di posizione. Cf. Traeger (2000: 164-167).
[17] V. Il foglio 61 che denuncia chiaramente la mancanza di solidarietà fra le classi sociali.
[18] In questa sezione mi rifaccio fondamentalmente a Grave (2022: 127-141) e Hofmann (2000:85-99).
[19] Tutte le traduzioni dei titoli dei quadri di Friedrich in Italiano sono mie.
[20] Anche in Huttens Grab (La tomba di Hutten) Friedrich spinge chi osserva il quadro a guardare bene spingendolo (o spingendola) a emulare il gesto dell’unica figura umana presente nel quadro: abbassarsi per leggere le iscrizioni su una tomba.
[21] Non si sa a chi o a cosa corrispondano le tre lettere.
[22] Sul tema della ricerca dell’identità nazionale nell’opera di Friedrich, nel contesto del primo romanticismo v. Bach (2023).
[23] L’identificazione di Napoleone col diavolo era molto diffusa in Germania (v. Münkler, 1992: 57 n. 13). Lo stesso Friedrich, in una lettera a Frederick Christian Sibbern dell’aprile del 1814, vi alluderà con questa formula: il nemico di ogni bene (der Feind alles Guten). Il simbolo usato nella tela non era dunque soltanto trasparente di per sé ma anche corrente.
[24] Per una sua interpretazione, convincente e dettagliata, di Huttens Grab (La tomba di Hutten) v. Märker (2007: 63-66).
[25] Per una disamina delle opzioni ermeneutiche fondamentali rispetto all’opera di Friedrich v. Azzarello (2024).
[26] (2004: 143-148).
[27] Cit. da Grave (2022: 134).
[28] La discussione dettagliata delle quali mi sembra esulare dalla prospettiva scelta in questo articolo, nonostante l’indubbio interesse che ci sarebbe nell’affrontarla (si pensi alla sola differenza confessionale o alla presenza esplicita o implicita della violenza nelle opere dei due autori).
[29] Cf. Tomlinson (2008: 87).
[30] In una celebre lettera all’amica Louise Seidler (02.05.1814) scrive di non aver potuto finire un quadro abbastanza esplicito che pure aveva in animo di fare (e che descrive in dettaglio nella lettera) perché gli faceva schifo: « […] das Bild wurde mir doch zu ekelhaft, ich war nicht in Stande es auszuführen.», cit. da Grave et al. (2024: 60).
[31] Cf. Pérez-Reverte (2003, 2006, 2007, 2019). Questo autore, ex reporter di guerra, scrittore di successo e membro della Real Academia Española, ha pubblicato nel 2006 un romanzo molto interessante che allude alle Pinturas negras e alla Quinta del sordo dal titolo El pintor de batallas e nel 2007 una sorta di non-romanzo storico sulla rivolta del popolo di Madrid contro i Francesi che Goya presenta nelle celebri tele incaricategli dalla Corona. Non si tratta di pubblicazioni triviali ma di veri e propri confronti filosofici con i temi della guerra, della violenza e della loro resa mediatica.
[32] Si veda la celebre lettera a Ernst Moritz Arndt del 12.03.1814 che lo rese noto alla polizia e forse gli costò la carriera: «So Lange wir Fürstenknechte bleiben, […]» ovvero fino a quando resteremo servitori di príncipi….
[33] Grave (2022: 138). 
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Francesco Azzarello, è stato segretario della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, ha partecipato a varie attività antimafia collaborando con diverse associazioni palermitane. In Germania dal 1997, ha studiato Filologia romanza e Filosofia a Colonia. Dal 2003 insegna Filologia romanza a Friburgo. Oltre alle pubblicazioni accademiche in linguistica, letteratura e storia della cultura ha scritto di mafia, filosofia, teologia interreligiosa e altro. Dal 2015, con alcuni amici, accompagna diverse famiglie di profughi nel percorso di integrazione in Germania.

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