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Anna Foa, Israele, letture incrociate

20241214_160754di Franca Bellucci 

Piccolo e denso, il recente pamphlet di Anna Foa (per Bari Laterza, 2024), il cui titolo, Il suicidio di Israele, personalizza al massimo il luogo – ente statuale, di cui la storia è narrata, con attenzione al percorso fondativo: un percorso “accompagnante”, da parte degli Stati forti e in contesa di potere. È una galassia tuttora protagonista: la si menziona oggi spesso come “Occidente”, evidenziando che le strategie, già illustrate come di civiltà, sono sussunte a quelle del dominio. Ha promosso sistemi per il progresso e la scienza, ma anche le due “guerre mondiali”: guerre ormai da interpretare come prove collegate, tra interessi molteplici, in uno sfondo temporale che ha visto e vede ulteriori poli aspiranti al protagonismo. Il disvelamento comportato dal termine “interpretare”, acquisito solo da poco per il periodo storico indicato, ha risvolti psicologici: è una frontiera tra “sapere/ non sapere/ presumere”, in cui l’esposizione all’imprevisto, come ai mestatori camuffati da governanti, si allarga.

L’instant book di Anna Foa, su uno dei luoghi di guerra attuale più vicini, coglie l’angoscia diffusa di noi lettori italiani. Non coinvolti formalmente, siamo comunque esposti in una proiezione di prossimità, spaziale e culturale. Al momento assistiamo, nel territorio attribuito nel 1948 – senza definitiva, pattuita chiarezza – a Palestina e Israele, a una ulteriore guerra, dopo quelle già esposte nei libri di storia [1].

È la guerra dell’oggi, quella che si è innestata quando il gruppo armato Hamas ha scatenato un attacco terroristico, il 7 ottobre 2023, contro gli israeliani occupanti la Cisgiordania, e, dall’8 ottobre è stata guerra d’armi sofisticate, portata nelle strade di Gaza, zona palestinese dal 2007 amministrata da Hamas: portata dal governo d’Israele, tramite il suo esercito. Il bilancio distruttivo è impari: il pesante passivo pende sui civili palestinesi e sulle loro strutture, estendendosi ai gruppi delle strutture internazionali d’aiuto e di comunicazione.

Il coinvolgimento, dalla nostra sponda così prossima nello spazio, collegata in storie determinanti, recenti e antiche, è palese, seppure i passi ufficiali, marginali, delle nostre autorità sono cauti, complementari. Per altro, non si sono finora incontrati mediatori efficaci: anzi, la vicenda sta espandendosi ora nei territori confinanti, e “quisling”, la parola antonomastica, è il termine che la perplessità può incentivare di fronte ai riposizionamenti, anche troppo rapidi. Sulla nostra sponda, si esprime la sollecitudine umana verso le popolazioni coinvolte, ma anche si moltiplicano illazioni, impressioni a ogni livello: le “interpretazioni” si moltiplicano, allegando anche quelle affini alle meditazioni che la comunità, e specialmente le scuole, fanno ogni 27 gennaio, dal 2006, “giorno della memoria”, in riferimento a quando, nel 1945, abbattute le porte di Auschwitz a opera delle truppe dell’Armata Rossa, i prigionieri di Auschwitz furono liberati.

31aoazxukrl-_ac_uf10001000_ql80_Lo studio della storia d’Italia implica la memoria della comunità ebraica, parte del tessuto civile, che è connesso con le molteplici comunità etnico – linguistiche presenti sul suolo. Subito, dal 1861, con la proclamazione dello Stato – Italia, la cultura ebraica fu riconosciuta come “nazionale”: fu assunta subito, infatti, l’“emancipazione” degli ebrei, già in vigore nello Stato di Sardegna.

I capitoli di tale partecipazione civile riguarda la nostra comunità: questa presenza sostenne, direi anzi che nutrì, una prospettiva di civiltà cosmopolitica fino al Primo grande conflitto. Ci sono riferimenti storici precisi sulla consistenza di questa prospettiva: specificamente, mi risalta il Congresso internazionale di filosofia di Bologna del 1911. Preparato in contatto con gli intellettuali più attivi, fu evento di massima incisività, in un contesto che ancora aspirava al cosmopolitismo delle culture: ne fu l’organizzatore Federigo Enriques (1871 – 1946), il matematico, appunto di cultura ebraica. Era, questa autentica festa internazionale e bolognese, la celebrazione del 1911 come civiltà mirata all’approfondimento del sapere. Poteva anche essere, questo appuntamento, una polemica con la contemporanea celebrazione di Roma? Quell’appuntamento era già inteso come feticcio di dominio: anche presso i sociologi-rivoluzionari ebrei che promovevano il “focolare nazionale”: intendendo comporre, svoltando dalle antiche tradizioni, che costituivano comunità – galassie, sparse in molte direzioni nelle varie epoche: non, dunque, “nazione” come il soggetto politico, oggi designato. Con un tale sguardo Moses Hess aveva pubblicato nel 1862 Roma e Gerusalemme (in tedesco: Rom und Jerusalem, die Letze Nationallitätsfrage), evidenzia Anna Foa a p. 14: ed è uno dei dettagli che, prima del suo intervento, largamente sfuggono, se si mette a fuoco lo Stato d’Israele a partire dal 1948.

Il tema del pamphlet è tanto storico quanto morale – e a questo aspetto è dedicata in particolare l’ultima parte del libro – intorno alla realtà che, menzionata come “Israele”, si sottolinea che tale nome non si riferisce a “accordi di pace”, ma a “accordi armistiziali” in base all’azione ONU tra 29 novembre 1947, in cui fu approvata una spartizione territoriale, e agli accordi armistiziali raggiunti dopo la guerra in loco seguita alla proclamazione del nome il 14 maggio 1948. “Accordi armistiziali”, dunque, legittimano quella entità. È in questo quadro che sono da assumere tratti imprescindibili: l’ambiguità con cui si usano i due riferimenti, “palestinese” e “ebraico”, indicativa della incompiutezza dell’idea di Stato, e, a seguire, della relazione corretta, conforme, da praticare nei confronti della popolazione, nelle sue componenti. Prolificano ambiguità e speculazioni: come, conclude Foa a p. 85, lo slogan «Dal fiume al mare, Palestina libera», antico detto ma via via riusato, giustificando nella contingenza ottiche diverse – da riferire a un popolamento composito; ovvero a una sola delle componenti, quella palestinese o quella israeliana.  

Credo che dopo la lettura del pamphlet, alcuni dettagli già memorizzati lungo la storia d’Italia assumano sfaccettature diverse: si ridispongono come in un reimpiego, fino a un patchwork mentale inusitato, ma che pure si poteva forse presumere, facendo leva sui connettivi nelle pagine conosciute: presenze evidenti, eppure ignorate. Ecco: il testo di Foa ha l’effetto di “evidenziare”, oltre che di “informare”, con una ridisposizione di dati che nel lettore chiama in causa il “coraggio di conoscersi”. Il lettore segue l’esposizione, partecipando e reinterpretando con nuovi esiti paragrafi già noti: deve dunque chiamarsi in causa, riordinare i capitoli che sembravano ordinati. È la riscoperta del socratico – e delfico – gnōthi sautòn, “conosci te stesso”, un’operazione che deve attivarsi subito, nel primo capitolo del libro, dedicato alla Storia, considerando le formulazioni precoci che, rintracciate presso intellettuali di cultura ebraica, propongono l’ideale innovativo, “moderno”: di comporre, dalle molte comunità, quel nuovo soggetto politico che è la “nazione”: una visione che è “uno stacco netto con passato e tradizione”, una “rottura”, una “ridefinizione” identitaria.

img-20241216-wa0024La condanna dello storico sterminio degli ebrei è tenuto ben vivo nella società italiana, per altro in quanto vige la celebrazione memoriale che ne ribadisce la condanna: una ricorrenza cui partecipa anche tutto il mondo scolastico. Già preparata in Italia dalla legge 20 luglio 2000, n. 211, per delibera dell’ONU (60/7 del 1° novembre 2005) essa è fissata per il 27 gennaio. La responsabilità di aver pianificato lo sterminio fu di Hitler; tuttavia lo incoraggiò il governo fascista dell’Italia: con le leggi speciali del 1938, che estromisero i cittadini di religione ebraica dalla vita pubblica; sovraccaricando per altro il concetto di separatezza, rispetto alla comunità pubblica, con la menzione della parola “razza” – richiamando così codici di comportamento già prescritti per le relazioni con le comunità “conquistate” nelle “guerre coloniali”.

Nella mia esperienza, da cittadina, oltre che da insegnante, citare le leggi speciali ottiene di ravvivare riferimenti a personaggi che ne furono vittime, da tenere ben presenti: Margherita Sarfatti, per esempio, importante critica d’arte autrice del best seller Dux, sulla vita di Mussolini, che diede buona fama al politico nel mondo, ma che, estromessa dai circoli culturali di fatto dal 1932, visse nei continenti americani, fino al nuovo corso, nel 1947. Decisamente pregnante, si delinea la memoria di Angelo Formiggini (1878 – 1938), prolifico editore modenese, stimatore del fascismo, ma presto criticato e isolato dagli intellettuali che crescevano d’autorità e andavano isolandolo. Con le disposizioni del 1938 si constatò senza vie d’uscita, finché si suicidò: pure sul suo progetto del 1925, la «Fondazione Leonardo per la Cultura Italiana», era fiorito il progetto di Giovanni Treccani per l’«Enciclopedia italiana di scienze, lettere e arti». Su questo tragico sfondo, quando, deflagrato il Secondo grande conflitto, la guerra trovò terreno in Italia, fu guerra civile: allora i rastrellamenti accomunarono alle discriminazioni degli ebrei i cittadini, se definiti “nemici”, e allo stesso modo avviati ai campi di concentramento e anche di sterminio.

In Israele dal 1959 la memoria fissa giorni celebrativi diversi: un giorno, variabile a seconda del calendario, intorno al 27 di aprile, celebra la rivolta degli ebrei del ghetto di Varsavia nel 1943, e precede di otto giorni la celebrazione dell’indipendenza di Israele. In Italia l’impegno celebrativo nelle scuole dà spazio anche all’attualità: si raccolgono, per esempio, reportage giornalistici e dati presentati da Amnesty International. È cioè occasione per coltivare una morale di larga tolleranza universale, distinguendo l’incontro in società dall’ambito economico, in cui la competizione è caratteristica. In ordine alle idee si ammette la tolleranza e in particolare si rispettano le religioni, a prescindere dallo stile messo in pratica da ogni soggetto. Entro la più ampia cornice, si attivano quindi i giovani verso ricerche specifiche, possibilmente documentali, così da allargare la conoscenza ai movimenti culturali, certo anche ai sionismi, interpretati e difesi di fatto. «I sionismi»: meglio al plurale, appunto – suggerisce Anna Foa a pag. 14. La connessione che ci riguarda da vicino giunge almeno a livello dell’Yishuv, cioè l’insediamento intorno ai luoghi, ora denominati Israele, spontanea al tempo in cui vigeva l’amministrazione ottomana, non rilevata da particolari caratteristiche. Ma lo stesso termine vale per la fase che, a fine 1917, si apre con il documento del ministro inglese Balfour destinato a Lord Rothschild, e ancora fino al 1948, in cui si ufficializza lo Stato d’Israele. La storia italiana mostra come l’impero ottomano era ben osservato: nel luglio 1912 alcune torpediniere forzarono i Dardanelli, essenzialmente per dimostrare alle potenze occidentali maggiori come quell’impero non era affatto inviolabile: come nei suoi territori europei, così anche in quelli arabi.

Stimolati dalla lettura del pamphlet, noi lettori ci rendiamo conto che, mentre preferiamo un’ottica limitata al circoscritto territorio della penisola, siamo stati anche protagonisti di ambizioni imperiali. Leggiamo ora della storia dell’Yishuv, degli “accordi armistiziali” del 14 maggio 1948, e quasi stupiamo. Dobbiamo invece prendere atto che le dinamiche in corso non ci sono sconosciute: sono quelle procedute tra le guerre mondiali, tra scommesse di lunga prospettiva – come aggiudicarsi zone di materie prime e per gli idrocarburi, quella che si stende tra India e Africa. Tra le due guerre si era sgretolato l’impero Ottomano, ora limitato alla penisola turca. Avevano una preponderanza, ora, gli USA, dopo l’esordio con gli Alleati nell’ultima parte della Prima grande guerra.

Ripensiamo a questo, mentre proseguiamo nella esposizione di Anna Foa. Il territorio di cui parla è collegato profondamente all’ampio scenario orientale, investito da mire di potenze, e comporta risvolti umani di infinita tragicità: la storica ha presente quello scenario, pur acquisendo il tono pacato di un bilancio. Questo livello storico, ci dice l’autrice, fu un’altra fase. Qui si pose il protagonismo dell’Yishuv, in un inusitato esperimento: che non era la Palestina come terra di raccolta di tutti gli ebrei, ma quello di «un nuovo modo di essere ebrei». Mentre si scopriva lo sterminio organizzato da Hitler sul continente, proclamarsi nel «nuovo ordine internazionale democratico» era affermare l’identità nello Stato ebraica, non “binazionale”. In parallelo, liquidata la “potenza mandataria”, era subentrata al suo posto l’“Agenzia ebraica”. Il lungo corso di eventi successivi – che l’autrice passa in rassegna – verifica fratture, a carico piuttosto delle relazioni entro la compagine araba. Presso la parte israeliana, cresce l’idea di una superiore civiltà e prende campo un tipo di israeliano aggressivo, «ispirato da Dio a colonizzare tutta la terra».

E proprio a come è cambiata l’identità degli ebrei, Anna Foa dedica la seconda parte del libro, cogliendo le differenze tra la postura tra i cittadini di Israele e quelli della diaspora: che appare attardata, per un certo periodo. Dal 1969, però, con il processo Eichmann, la diaspora è stata “assimilata”. Le critiche si sono rarefatte: dagli anni ’80 è evidente l’appiattimento su Israele, a partire dal rabbinato. Qui una annotazione dell’autrice deve essere rilevata: dopo il ’48, i mondi ebraici si sono ridotti, rimanendo ora l’“israeliano e l’americano”. È un’annotazione rilevante, tanto più procedendo alla terza parte del libro, il cui tema è “Verso/contro la pace”, e in cui i fallimenti di risoluzione, dal 1977 all’attualità, si moltiplicano: se è Hamas l’obiettivo, comunque la guerra «sta distruggendo la Striscia e non solo Hamas». Lapidario il titolo della quarta parte, che è quello stesso del libro: “Il suicidio di Israele”: un esito su cui l’autrice accende un vero allarme, constatando l’affermarsi di «un’ideologia che prevede la ricostruzione dell’Israele biblica», piuttosto che uno Stato che, se democratico, dà pari cittadinanza a tutti i suoi cittadini: risarcendo gli espropri compiuti. È questa la parte, delicatissima, in cui si enumerano le frasi più controverse che si reperiscono nelle manifestazioni partecipi (o faziose?) ora in atto, cui l’autrice non si sottrae.

Esamina dunque le accuse di antisemitismo rivolte a chi, nelle cronache odierne, condanna la guerra di Gaza. Il momento attuale in Italia non è paragonabile alle azioni dello Stato nel 1938: ma se criticando la politica israeliana si attaccano anche «gli ebrei in quanto tali», questo è antisemitismo, da contrastare discutendo. Il massacro in atto a Gaza è grave, meglio definibile, secondo il parere di Foa, anziché “genocidio”, come “crimine contro l’umanità”. Gli slogan diffusi hanno aspetti di ambiguità. L’autrice aveva pur rilevato che, nel primo sionismo, la presenza di popolazione araba in Palestina era ben nota, e autoillusione non credibile la frase “Un popolo senza terra, per una terra senza popolo”.

foa-scaraffia-1921Mi accorgo: riduttiva e personalizzata la mia lettura, di fronte a un libro straordinariamente denso di riferimenti, attinenti a una conoscenza dettagliata e documentata della vicenda, ma anche disposta con l’arte di chi, sapendo focalizzarsi sul lettore, dispone i tasselli necessari e sufficienti. Una tecnica che sa di cinema: di montaggio, di sceneggiatura. «Come una Suso D’Amico», mi viene da dire. Ripenso infatti alla splendida copertina, riproducente il quadro Le sorelle (Ditta e Suso), di Leonetta Cecchi Pieraccini, su un libro recente che Anna Foa ha pubblicato, con Lucetta Scaraffia: Anime nere. Due donne e due destini nella Roma nazista, Marsilio, 2021. Nel quadro la grande sceneggiatrice è giovinetta, parata di mussola bianca quasi vela sullo sfondo, ma tutta sguardo, in un affaccio che, dal moto infinito del pensiero, acquista l’esterno, il mondo della società. Tale, appunto, l’acquisizione – disposizione – dono dello/a storico/a a chi legge.

Un trapasso di testimone, da autore a lettore, che accolgo. Così che mi sento autorizzata, a mia volta, a sentirmi nella società, a farmi assertiva, usando il “noi” plurale, in alternanza con l’“io”: è la mia cultura fatta di retorica, ben diversa dalla risoluzione della storica: essa lascia nel retroterra il suo viaggio tra i documenti, per una narrazione organizzata, asciutta, senza orpelli. Uno stile che, come sa scorciare, sa far passare l’indagine sugli eventi dalla chiarezza alla responsabilità. È questa operazione che prevale nell’ultima parte del libro, dove l’attualità condensata nelle semplificazioni degli slogan è misurata con l’equilibrio di una maturità morale, ma, come accade nella migliore giurisprudenza, confrontata con la lunga serie di fatti: nel caso, davvero uno spazio relativamente piccolo ha interrelazioni gravissime e amplissime.

img-20241216-wa0026La mia lettura sa della mia retorica, delle mie predilezioni, del modo personale in cui ho acquisito il rispetto della memoria, infine come insegnante, ma prima come cittadina, anzi, ancor prima, come bambina in una famiglia che aveva voluto costituirsi nel passaggio della guerra, al rientro del marito, sbandato e malandato, dall’Emilia – Romagna alla Toscana: nell’inverno 1943 – 44, quello dello Stato disciolto e non ancora ricomposto. I miei genitori ebbero l’Emilia nel cuore: la solidarietà diffusa aveva consentito la salvezza.

Nella mia formazione, tramite i genitori, in quanto testimoni dell’ultima follia della guerra, la vicenda delle deportazioni aveva riferimenti precisi: Fossoli, il luogo del concentramento, Mauthausen, la risiera di San Sabba, furono mete di visita, per la mia famiglia e per me bambina. A Mauthausen i genitori presumevano che fossero finiti i loro coetanei compagni di lavoro: rastrellati nelle fabbriche – avendo certo funzione di guida certi locali “zelanti”, delatori contro professioni politiche, piuttosto che religiose; memorie precise, per cui in famiglia avevamo imparato a difendere ogni opzione ideale. Ritrovo facilmente, invecchiati con la loro carta povera, pamphlet su quei campi: specialmente, appunto, su Mauthausen. Ecco, con la presentazione di Furio Colombo, in riedizione del 1991 per l’editrice Giuntina di Firenze, a firma di Bruno Vasari, Mauthausen bivacco della morte: è un succinto verbale testimoniale. L’autore, è spiegato, era allora presidente dell’Aned di Torino. L’impaginato era prima uscito nel 1945: «forse il primo apparso in Italia sull’esperienza dei Lager», requisitoria senza appelli «contro ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo».

Delle vicende del tempo, 1943 – 44, parla una pagina densa di Anna Foa, giungendo proprio a una citazione rilevante dell’Emilia – Romagna. La narrazione si inquadra nella vicenda di Hitler, che dopo l’incarico del 1933 costituisce nel 1934 il Terzo Reich, mettendo in atto piani e metodi di supremazia. Gli accordi di Ben Gurion con il Terzo Reich dapprima favoriscono un grande afflusso di ebrei in Palestina, mentre si disattiva l’Inghilterra: il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini era divenuto ostile agli ebrei e all’Inghilterra. Ma dopo la conferenza di Évian del 1938 quasi tutti i paesi chiusero le loro frontiere agli ebrei, in pratica lasciando la questione a Hitler. Ben Gurion allora si schierò contro Hitler. Le azioni in Palestina divennero più efficaci dopo il 1942, quando tedeschi e italiani subirono la sconfitta a El Alamein, in Egitto: fu questa sconfitta che fece da scudo, determinando da allora di fare leva su un ordine ebraico, anziché binazionale. Allora anche delle manovre di Hitler contro gli ebrei europei filtravano le notizie. Gli inglesi risposero negoziando alla richiesta di costituire esercito: per aiutare gli “ebrei europei” fu organizzata, tramite i servizi segreti inglesi, dalla Palestina una missione di paracadutisti ebrei: 32 furono lanciati in aiuti vari: tra questi, Enzo Sereni, che fu catturato, morendo infine a Dachau. In Emilia – Romagna fu poi organizzata, nell’autunno 1944, entro l’esercito inglese, una brigata “palestinese” (o “ebraica”), di uomini rimasti fino a fine guerra.

L’argomento è rilevante: questa presenza, che fu sciolta nel 1946, ha dato poi luogo a conferme memoriali bene organizzate, ma anche a partecipazioni a parate, spesso occasione di risse e disordini che conquistano le cronache. Anna Foa non si pronuncia su tali cronache, ma il suo racconto dà un contributo che dà argini e orientamento: anche su tale argomento, in cui gli eventi della storia controversa hanno code attuali di passioni e pressioni. Storia controversa: tanto più per periodi che si segnalano per le passioni piuttosto che ricostruirli tramite gli archivi: né sempre i narratori hanno la caratura di Anna Foa, in cui impegno, conoscenza, metodo danno luogo a un’interlocuzione pubblica esplicita e calibrata.

img-20241216-wa0022L’Emilia – Romagna, nel periodo 1944 – 1947: un tema che può apparire già ben esplorato. Invece si possono incontrare “strappi” che aprono su storie, rese difficili dall’incrocio di quei mondi evocati con i termini “Oriente”, “Occidente”, in vicende che ancora attendono di essere divulgate. È il poema epico contemporaneo di una raffinata poeta, Rosita Copioli (Le figlie di Gailani e mia madre, Fontanellato, Parma, Franco Maria Ricci/Masone, Parma, 2020), che di quelle vicende ci fa partecipi, cogliendo la testimonianza schiva della madre, Luigia o Luisa, che, a Riccione Misano, parte dei campi di concentramento allestiti sulla costa da Cervia a Cattolica dopo la resa della Germania, e operativi fino al 1947, si era trovata a essere la persona d’aiuto delle tre figlie di Rashid ‘Alì al-Gaylânî (1892 – 1965). Dal corredo esplicativo del libro, ne abbiamo notizie: iracheno, sunnita, provenendo dall’esercito ottomano, aveva militato nel partito nazionalista arabo che contrastava le spartizioni territoriali inglesi. Divenuto influente primo ministro, si era alleato con Hitler, accanto al Gran Muftì di Gerusalemme, scatenando pogrom di ebrei. Le visite a Mussolini, anche con i familiari, portarono a stabilire relazioni in Roma: le figlie infatti poterono soggiornare al Collegio Mariamonte (o Marymount) di Roma, quando l’uomo politico fu estromesso e isolato in patria. Fu accolto in Arabia Saudita, tornando in Iraq solo nel 1958, alla caduta della monarchia. Tentò ancora un colpo di stato. Morì in esilio nel 1965. La letterata, partendo dagli scarni documenti domestici, con la sua caparbietà, e con l’aiuto di ricercatori competenti, non solo ha potuto chiarire i percorsi che coinvolsero in amicizia la madre, ma ha fatto delle vicende trascorse nel luogo un poema intenso, in cui si intersecano, con i personaggi, i luoghi e, peculiari, le soste di meditazione: echi delle letture classiche, impressioni artistiche, e, dolente, la meditazione storica, in una tragica consapevolezza di precarietà. Il sentimento dei luoghi, va detto, è particolare, tutt’altro che calligrafico: è percezione di vita e di respiro. Con la vicenda storica, è stata la Riviera in primis la creatura sfregiata, nella trasformazione impensata, dalla naturalezza del tempo anteriore alla guerra, allo sfregio ambientale, prima ancora che umano, del complesso concentrazionario. 

Questo contemporaneo poema epico esibisce l’inaffidabilità dell’organizzazione umana, giustapponendo quadri di vita tanto inaspettati, da fare del rovesciamento, pronto dietro ogni angolo, una evidente lezione umana. Ma non di atmosfere si è nutrita la composizione, piuttosto di una ricerca lunga, scrupolosa, metodica. Una cifra che è decisamente diversa dal modo di tante scritture accattivanti, meramente commerciali. La ricerca paziente dà a Copioli l’impronta della autentica storica: come in Anna Foa, l’impegno della scrittura è ultima fase, dopo le ricerche, con uso degli archivi largo e scrupoloso.

Lo storico della contemporaneità: che, per altro, ha di fronte archivi anche indisponibili o in formazione, fonte dunque da implementare e confrontare con altre documentazioni d’attualità. Storia, che aiuta a dare senso alla contingenza. Ma è giudizio a posteriori, che può riserbare sorprese, appunto, a seconda delle documentazioni portate per suffragare. Non di rado la storia contemporanea si definisce in paradigmi che risultano, nella loro provvisorietà, addirittura impositivi: e non di rado capita, incontrando documenti e letture, di mettere in crisi le coordinate già fornite.

img-20241216-wa0025Considero ancora un cantiere di lavori in corso la rappresentazione del Paese da quando prese la strada della Prima grande guerra, al percorso successivo, per certi aspetti una continuazione: la caduta nella soppressione dell’agone politico e sociale era già sperimentata negli anni della guerra. Non di rado medito sulla rivolta antifascista precoce, nel 1931, tutta spettacolare, affidata, come accadde, al volantinaggio aereo su Roma di Lauro De Bosis. Riediti di recente, tengo a portata di mano alcuni suoi scritti, in un elegante libretto, che riporta in appendice le lettere a Benedetto Croce: Lauro De Bosis, La religione della libertà, Editoriale Le Lettere, 2020.  So dell’apertura culturale del giovane, coltivata in una famiglia di particolare versatilità, filologo aperto all’interpretazione dei classici in chiave etnologica, traduttore del The Golden Bough, ovvero il Ramo d’oro di Frazer. Propendo a vederlo, come antifascista, contestatore di prospettive egemoniche: forse, ancora continuatore di quel cosmopolitismo che era un’inclinazione importante tra XIX – XX secolo. Così, ricordandolo, provo anche a concentrarmi sui personaggi della sua cerchia: i/le corrispondenti, i/le parenti. Nell’occasione, mentre con la guida di Anna Foa ricompongo tessere della nostra storia, mi accorgo che qualcuno del nucleo ha operato in Oriente: è la sorella, Virginia De Bosis Vacca. Ricorro alla rapida consultazione di wikipedia: “arabista e islamista”, vissuta a lungo in Egitto. Al suo attivo, e influente nel XX secolo, una lunga esplorazione di testi e civiltà, spesso diffusi sulla rivista «Oriente moderno»; ha dato contributi per l’Istituto Orientale di Napoli e, con altri arabisti, come Francesco Gabrieli, ha tradotto per Einaudi le Mille e una notte.

Storia di lacune: è certo onesto attivarsi a colmare. Non vale consolarsi immaginando la storia in una ciclicità: gli schemi sono forme geometriche utili per la memorizzazione, ma devono sempre considerarsi provvisori: sia perché la stessa definizione di documento cambia, con il raffinarsi delle possibili letture – ne è un esempio l’archeologia – sia perché tutto ciò che di nuovo accade, o viene affermato, in dialogo o con violenza – dispone in altro modo anche gli eventi precedenti. È una meditazione che un articolo letto di recente ha rafforzato: Storia e storie era, sul «Sole 24 ore, Domenica 8 dicembre 2024» l’introduzione che Donald Sassoon stava per fare alla presentazione del 58° Annale Feltrinelli: una riflessione profonda, appunto, su come le prospettive che pur seriamente disegnate e attive in azioni rilevanti – nel caso il tema era la socialdemocrazia, che tra XIX e XX secolo si è proposta come «proporzionale all’ampiezza della classe lavoratrice», in una illusione, che ora, verificata illusoria, porta a quadri ben diversi da quelli già disegnati. Assumo questa consapevolezza, non già prendendo la deriva del disfattismo, ma quello di ampliare l’impegno e insieme l’ascolto delle tesi altrui. Vale, credo, la meditazione di studio, di sofferto impegno, e l’impegno a ordinare nel comune vivere, rendendola concreta, la tolleranza: questo rilevo dal libro, molto più che pamphlet, di Anna Foa.

Non divergente, credo, l’affioramento memoriale, denso di interrogativi, e di rispetto, che Rosita Copioli affida alla poesia. Ne riporto un frammento: «Dopo più de settant’anni di pace / – mentre la distanza dal primo conflitto del secolo/ era stata di venti, ancora meno, contando / le guerre coloniali, l’Etiopia, le invasioni, le guerre civili –/ mi chiedo perché non mi facevo domande / sufficienti, / come se tutto quell’orrore vissuto / dai nostri genitori e dai nonni / che avevano subìto / ancora più guerre / e forse per questo talora / ci sembravano più eroici più umani / dovesse lasciarci immuni / liberati per sempre dal male, / ma forse non è che non ci si chiedesse, / forse era soltanto un’attenzione diversa, / un punto rimasto a mezz’aria / senza andare a fondo, / una domanda sospesa perché / qualcosa ci sarebbe per sempre mancato / a entrare nella vita passata: / nessun insegnamento conoscenza / senza esperienza». 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note
[1] Per breve memoria, verifico gli articoli della Treccani per il XX secolo: 1956, 1967, 1973, 1974, 1978 – che constatò le fratture nel gruppo delle forze arabe –, 1982, “intifada” della popolazione palestinese dal 1987, “indipendenza” proclamata dall’OLP nel 1988, fuori territorio, 1991, patto speciale USA – Israele (<https://www.treccani.it/enciclopedia/guerre-arabo-israeliane_(Dizionario-di-Storia)/>, inoltre https://www.treccani.it/enciclopedia/guerre-arabo-israeliane_res-26b4c417-87ea-11dc-8e9d-0016357eee51_(Enciclopedia-Italiana)/). Ma per il tempo attuale è importante citare il 1993 (accordi di Oslo), la “seconda intifada”, 2000-2005, il dominio, acquisito per via elettorale, di Hamas su Gaza dal 2007 cui segue l’inasprirsi del blocco imposto da Israele sui territori palestinesi e la costruzione a opera di Hamas dei tunnel sotterranei. Da menzionare infine nel 2020, gli “accordi di Abramo” proposti dagli USA agli Emirati Arabi Uniti, con vantaggio di Israele: patrocinati dal presidente Trump, potrebbero indicare la via diplomatica attuale di USA e Israele.   
Riferimenti bibliografici
Copioli, Rosita, Le figlie di Gailani e mia madre, Fontanellato, Parma, Franco Maria Ricci/Masone, Parma, 2020
De Bosis, Lauro (a cura di Rosalia Peluso), La religione della libertà, Editoriale Le Lettere, Bagno a Ripoli – Firenze, 2020.
Foa, Anna, Il suicidio d’Israele, Bari, Laterza, 2024
Foa, Anna, Lucetta Scaraffia: Anime nere. Due donne e due destini nella Roma nazista, Venezia, Marsilio, 2021
Donald Sassoon, Storia e storie in «Sole 24 ore, Domenica 8 dicembre 2024»: VI
Vasari, Bruno (presentazione di Furio Colombo) Mauthausen bivacco della morte, Firenze, Giuntina, 1991. 
Riferimenti sitografici
<https://www.treccani.it/enciclopedia/guerre-arabo-israeliane_(Dizionario-di-Storia)/> (visto 15. 12. 2024)
<https://www.treccani.it/enciclopedia/guerre-arabo-israeliane_res-26b4c417-87ea-11dc-8e9d-0016357eee51_(Enciclopedia-Italiana)/)> (visto 15. 12. 2024)
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).

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