di Leo Di Simone
Benché nei 30 articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani che gli Stati membri delle neonate Nazioni unite promulgarono il 10 dicembre 1948 non ci sia un articolo che richiami esplicitamente ad uno jus pacis, tale diritto lo si può tuttavia ritenere implicito al n. 3 che recita: «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona». Ma in ogni caso, se si leggono attentamente, non sono pochi gli articoli disattesi e i cui moniti suonano oggi alquanto retorici e privi di consistenza. A partire dal primo: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù» recita il quarto, mentre il quinto afferma che «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti». E si potrebbe continuare passando al quattordicesimo che afferma come «Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni».
Percorrendoli ad uno ad uno ci si accorge che si tratta dell’enunciazione di principi nobilissimi, di profonda consistenza etica, ma ormai dimenticati e di difficile attuazione. Sono stati redatti per auspicare che non si ripetessero gli orrori della Seconda guerra mondiale, ma la loro inefficacia è sotto gli occhi di tutti e il pericolo del ritorno a quegli orrori non è stato mai scongiurato, ed anzi si è ripetuto e moltiplicato fino ai nostri giorni, per cui si può affermare che:
«Il mondo è in agonia. Questa agonia è così incombente e pervasiva che noi ci sentiamo spinti a indicarne le forme di manifestazione così da poter mettere in chiaro la profondità della nostra inquietudine.
La pace ci sfugge – il pianeta viene distrutto – i vicini vivono nella paura – le donne e gli uomini sono reciprocamente estranei – i bambini muoiono.
Tutto ciò è orribile.
Noi condanniamo l’abuso dell’ecosistema della nostra terra.
Noi condanniamo la miseria che soffoca la possibilità di vita; la fame che mina i corpi; le disuguaglianze economiche che minacciano di rovina tante famiglie.
Noi condanniamo il disordine sociale delle nazioni; il disprezzo della giustizia, che emargina i cittadini; l’anarchia che invade le nostre comunità; e la morte assurda dei bambini provocata dalla violenza. In particolare condanniamo l’aggressione e l’odio in nome della religione.
Questa agonia deve cessare.
Essa deve cessare perché già esiste il fondamento di un’etica. Quest’etica offre la possibilità di un migliore ordine individuale e globale e allontana gli uomini dalla disperazione e le società dal caos.
Noi siamo donne e uomini che aderiscono ai precetti e alle pratiche delle religioni del mondo.
Noi confermiamo che nelle dottrine delle religioni si trova un comune patrimonio di valori fondamentali, che costituiscono il fondamento di un ‘etica mondiale.
Noi confermiamo che questa verità è già nota, ma deve essere ancora vissuta con il cuore e nei fatti.
Noi affermiamo che esiste una norma incontestabile e incondizionata per tutti gli ambiti della vita, per le famiglie e le comunità, per le razze, le nazioni e le religioni. Esistono già antichissime linee direttrici per il comportamento umano, che possono essere trovate nelle dottrine delle religioni del mondo e sono la condizione di un duraturo ordine mondiale».
Non è un proclama umanitario dei nostri tristi e drammatici giorni; è l’incipit del “Manifesto per un’etica planetaria” che il Parlamento delle religioni del mondo, riunito a Chicago, emanò il 4 settembre 1993. Erano presenti i rappresentanti di tutte le religioni del mondo, ciascuno titolare di una sovraetica, di peculiari convinzioni e costumi, e tuttavia tutti concordi circa la necessità di iniziare una ricerca del “fondamentale” da rintracciare nel complesso della dinamica della credenza religiosa quale anteriorità di Parola che fonda, che supera e conduce come regola donata, trovata e affidata per il bene comune. Regola di vita insita nel monito “non uccidere” e nell’altro collaterale “non fare all’altro ciò che non vuoi sia fatto a te”, ma anzitutto scaturente dal “silenzio” di ciò che non può essere detto perché atto del ritorno a sé del cuore. Alla fine del manifesto si legge infatti:
«Noi sosteniamo l’evoluzione individuale e collettiva della coscienza, per il risveglio delle nostre forze spirituali, per la riflessione, la meditazione, la preghiera e un pensiero positivo, per un ritorno a sé dei cuori».
Si è cercato con questo “Manifesto”, inequivocabilmente, di indicare il cammino di ogni religione, la direzione verso questo fondo comune, piuttosto che di riunire comuni convinzioni morali ciascuna delle quali può essersi radicata, per motivi di contingenza storica, in un fondamento “penultimo” fossilizzato e assolutizzato poi in “fondamentalismo”; ossia nell’atteggiamento fanatico di chi non tollera le diversità e magari con la violenza vorrebbe condurre tutti alla sua “perfezione”, secondo il criterio ideologico chiuso nel proprio piccolo recinto culturale. Da qui, con una contraddizione tragica, si arriva al punto di odiare l’uomo credendo che ciò sia per amore dell’uomo, si ricorre alla guerra come strumento di sterile omologazione.
È accaduto e continua ad accadere; ce lo raccontano la storia che non sempre conosciamo per intero o che spesso dimentichiamo e le insanguinate cronache di cui siamo anche noi “testimoni colpevoli” per usare la celebre espressione di Thomas Merton che a metà del secolo scorso, nella sua confessione pubblica di “testimone colpevole” – confessione quasi di ispirazione agostiniana – denunciava la “morale dell’utilità e dell’efficienza” al servizio della tecnologia e dimentica della dignità dell’essere umano:
«Tutto ciò che si può fare in modo efficiente, dev’essere fatto nel modo più efficiente possibile, anche se si tratta, per esempio, di un genocidio o della devastazione di un paese mediante la guerra totale. Perfino gli interessi economici a lunga scadenza della società, o le necessità essenziali dell’uomo non vengono considerati quando intralciano il cammino della tecnologia» [1].
Anche noi, dunque, siamo “testimoni colpevoli” di guerre che uccidono e sterminano popoli in maniera chirurgica con armi sempre più sofisticate e tecnologicamente affilate, così come testimoni e vittime di un mostro finanziario che ingrassa a dismisura ingoiando in maniera non meno cinica e crudele, con le armi della fame e dell’ingiustizia, popoli di continenti interi. Che fine hanno fatto il diritto e la giustizia che ormai suonano come parole vuote nel linguaggio corrente della presente orgogliosa età tecnologica e tecnocratica? Quale sistema di leggi coerenti col fine ultimo del benessere e della felicità degli esseri umani può garantire, nella globalità del “sistema mondo”, la difesa dalle usurpazioni e dalla brutalità di forti strutture che minacciano di distruggerli e di renderli schiavi? Da che parte pende la bilancia ormai squilibrata della giustizia la cui inclinazione sembra assecondare il peso preponderante dei ricchi e dei potenti che soverchia prepotentemente quello dei poveri e dei diseredati?
È giunto il momento di un confronto serio e costruttivo tra le culture e le religioni per ricercare i fondamenti di una pace planetaria che non sia soltanto assenza di guerre ma il risultato della cooperazione dell’intelligenza umana che ha dato prova di risultati eccellenti in ambito filosofico e scientifico ma non altrettanto in campo sociopolitico ed etico, e le fedi religiose dei popoli che hanno plasmato le culture e continuano ad influenzarle, nel bene e nel male. Tale interazione si può sintetizzare in un possibile e necessario percorso: “Dialogo interreligioso, dinamiche interculturali e diritti”, il tema del Summer Course Frutto dell’interazione tra il Centro Operatori di Pace di Mazara del Vallo e il Dipartimento di giurisprudenza del Polo Universitario di Trapani [2]; per raggiungere l’obiettivo della ricerca di uno jus pacis che possa costituire il risultato più alto conseguito dall’homo sapiens nei 156.000 anni della sua storia [3], tutti caratterizzati da lotte per la conquista degli spazi vitali e il predominio sui propri simili.
L’ organigramma programmatico delle lezioni è stato pensato in ordine alle dinamiche interculturali ed interreligiose insistenti sul bacino del Mediterraneo, con una focalizzazione speciale sull’Islam, che al giorno d’oggi suscita riserve e paure; la logica complessiva degli argomenti svolti ha voluto mostrare, casomai ce ne fosse stato bisogno, che il problema della pace esige oggi priorità assoluta di soluzione, per cui siamo obbligati a collocarlo in un panorama culturale universale e risolverlo servendoci di ipotesi di lavoro che orientino verso una sempre più chiara fondazione di uno jus pacis.
Siamo immersi in un ritardo epocale della ragione, delle culture, delle religioni, e bisogna capire se c’è un rapporto fra questa “civiltà” che avvelena i mari, le piante, i fiori, che uccide gli innocenti considerandoli “danni collaterali” di una volontà di potenza e di morte, e l’avvelenamento interiore, la piattezza dello spirito che non riesce a battere le ali, che si dibatte dentro il sensibile e non riesce più a superarlo. Bisogna scientificamente appurare quanto le religioni abbiano contribuito e ancora contribuiscano a fomentare la strategia di guerra e di morte. La moderna antropologia critica può aiutarci ad alzare i veli su ciò che sembrava “religioso”, attinente allo “spirito” mentre invece si manifesta come cedimento all’istinto di morte.
Occorre demistificare l’istinto di morte che assume forme religiose e sicurezze istituzionali. Si tratta di verificare fenomenologicamente tutti i passaggi che hanno occultato, nelle religioni, il “punto vergine” della loro fonte spirituale, trasformandole in strumenti di dominio e di prevaricazione. Le strutture che nel corso della storia la fede si dà, sia quelle razionali che quelle istituzionali, sono ambigue anche se necessarie. Quando la fede viene meno, rimangono le sue strutture, come vuote crisalidi che custodiscono il nulla, strutture senz’anima costruite con logiche contrarie a quelle dello spirito.
C’è un difetto epocale della ragione di cui siamo i protagonisti e le vittime. Non sono molte le voci che esternano riserve nei confronti di una cultura ormai globalizzata che si presume adulta, soltanto perché ha raggiunto grandi conquiste nel dominio dell’utile, ma non ha un messaggio vitale da lanciare alle coscienze, perché i suoi segni esteriori sono solo di morte. Sono i segni tangibili della morte fisica collettiva, ormai accettati con rassegnazione dalle culture e validati dagli organismi internazionali del potere reale, preoccupato soltanto del mantenimento delle proprie prerogative e della propria sopravvivenza secondo il classico adagio mors tua vita mea. Il fatto più inquietante è che non ci si vergogna neanche di tale inumano cinismo, epilogo conseguente del regresso delle facoltà razionali e spirituali dell’essere umano. Con l’eclissi del pensiero non si può dunque pensare la demistificazione dell’istinto di morte che prende forme religiose e sicurezze istituzionali per sottrarsi ad una critica radicale che la ragione, non più “pura”, non è in grado di elaborare, inquinata com’è dalla doxa popolar-populista che ottunde le menti e gli spiriti. Anche questo è un dejavu che non ci turba più di tanto.
Ci vorrebbe una novità, ma non la desideriamo perché siamo incapaci di ricordarla e di ripensarla. La cultura planetaria assoggettata alla dittatura tecnologica, batte continuamente le mani a tutte le innovazioni del suo dittatore; ma si tratta dell’innovazione delle cose, di ciò che distrae una umanità tenuta allo stato infantile con sempre nuovi giocattoli che provocano gioie effimere ed illusorie perché non vengono da noi, dal nostro “centro spirituale”, ma dalla materia che si è arresa a noi e noi a lei. Viviamo in una cultura globalizzata che cerca di tenerci euforisticamente storditi in una nuvola brillante costellata di slogan ammalianti quanto irreali che cercano di convincerci che tutti noi abbiamo il diritto alla felicità, mentre l’umanità versa in uno stato di disperazione universale minacciata dalla possibilità della sua totale distruzione. Le contraddizioni della ricchezza materialistica, unite ad un attivismo sempre più frenetico e inutile, possono dare una buona spiegazione dell’inconscio desiderio di morte della nostra economia, della nostra politica e della nostra cultura di guerra.
Nei confronti di questo stato di cose raramente oggi lo “spirito delle religioni” proferisce parole critiche e profetiche coerenti con la loro missione salvifica; gli accorati e reiterati appelli di papa Francesco sono l’eccezione che conferma la regola. È in cerca di condivisione la sua affermazione che «ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità», come scrisse nell’enciclica ‘Fratelli tutti’. Di tale situazione di degrado spirituale dovrà occuparsi il dialogo interreligioso e interculturale: del riorientamento, della conversione del pensiero e della vita spirituale. Questa, davvero, sarebbe una novità capace di fornire le basi spirituali per la fondazione dello jus pacis.
Tutte le manovre diplomatiche che, lo vediamo ogni giorno, sono incapaci di ristabilire la pace, sono figlie della visione materialistica e imperialistica che prevale fra le nazioni. Nessuna attenzione agli esseri umani, considerati pedine in movimento tra centri di potere e di sfruttamento. Residenti o migranti che siano, sono visti come parte di un ingranaggio, enti anonimi e coefficienti numerici utili a foraggiare le grandi aziende della finanza internazionale. Quale jus pacis senza riorientamento dei diritti umani vigenti solo in modalità virtuale? Perché
«la pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno. La ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità, e l’assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per la costruzione della pace. In tal modo la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto può apportare la semplice giustizia» [4].
Il “Manifesto per un’etica planetaria” che il Parlamento delle religioni del mondo ha redatto più di trent’anni fa altro non ha voluto rappresentare che il richiamo al coinvolgimento delle religioni per la “questione umana”, negletta o solo incidentalmente considerata dalle teologie impegnate ad occuparsi più dell’ordine ontologico-metafisico che del rapporto relazionale tra la divinità e l’umanità; anche questo è un processo di riflessione non concluso del tutto, ed anzi solo timidamente iniziato, non tenendo conto che proprio tale rapporto fonda il diritto sulla terra e che da esso scaturisce la giustizia della fraternità umana, il godimento pieno di tutte le ricchezze della creazione, lo scambio fecondo e inesauribile del rapporto di amore fra gli uomini che conduce alla pace totale. Non esclusivamente, dunque, ricerca di garanzia offerta ai diritti individuali, o eliminazione di tutte le fonti di oppressione – anche questo evidentemente – ma soprattutto avvertenza di un rapporto senza il quale non ha senso Dio e non ha senso l’uomo; ontologia di relazione che fonda l’Essere che è Dio e l’esserci dell’uomo, perché Dio non esiste senza l’uomo e questo c’è solo per l’eterna consistenza e sussistenza dell’Essere.
La comprese bene questa focalizzazione antropologica il Concilio ecumenico Vaticano II, nella sua Costituzione pastorale Gaudium et spes, tesa a considerare il relazionarsi della Chiesa con il mondo a partire da una rinnovata antropologia che connotava il “nuovo umanesimo” conciliare segnando una svolta della Chiesa verso una antropologica teologica in grado di leggere senza infingimenti la situazione del mondo in cui si trovava immersa. Ci si rese conto che il viaggio dell’uomo oggi è molto singolare e senza confronti con il passato, perché le testimonianze che ci vengono dal passato sembrano mute, senza soluzioni di fronte a situazioni completamente nuove. Il Concilio ha constatato che l’uomo contemporaneo appare sempre più incerto, come diviso tra la speranza e l’angoscia, artefice di un mondo segnato da contraddizioni e antinomie:
«Mentre l’uomo tanto largamente estende la sua potenza, non sempre riesce però a porla a suo servizio. Si sforza di penetrare nel più intimo del suo essere, ma spesso appare più incerto di se stesso. Scopre man mano più chiaramente le leggi della vita sociale, ma resta poi esitante sulla direzione da imprimervi. Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza economica; e tuttavia una grande parte degli abitanti del globo è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria, e intere moltitudini non sono interamente analfabete.
Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà, e intanto sorgono nuove forme di schiavitù sociale e psichica. E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa» [5].
Questa analisi compiuta sessant’anni fa non ha perso la sua acutezza né la sua attualità. La condizione singolare in cui ci troviamo è che il mondo che abbiamo creato con le nostre mani è un mondo che ci impaurisce; ed è proprio per questa nostra condizione storica che siamo chiamati a ritrovare le parole essenziali e attribuire loro il significato originario alla luce di quella Parola anteriore che è sia la radice dell’umano sia l’essenza del messaggio rivelato che per chi ha una fede è la Parola di Dio che dà risposta agli interrogativi più cogenti dell’uomo:
«Cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?» [6].
E se Dio non esistesse, o fosse distratto, o morto, che senso hanno il diritto, la giustizia, la pace, l’anelito alla felicità nonostante la certezza della morte? Che senso hanno l’anelito al vero, al bello, al buono di gran parte dell’umanità, il desiderio e l’impegno di superare l’istinto di aggressività, questo residuo persistente della preistoria umana che invece fa ancora storia, se non quello dell’emergere di un bisogno di autotrascendimento e di ricerca di un principio superiore che scaturisce dalla consapevolezza più profonda dello spirito umano per cui l’uomo vuole essere in pace con sé, con gli altri, con l’universo intero? Per cui l’essere umano vuole trovare il “fondamento” di sé in quella vasta zona della sua dimensione spirituale senza il quale non hanno senso concetti come “vita”, “libertà”, “vero”, “buono”, “giustizia”, “pace”; e senza il quale si manifestano i sintomi di una alienazione che si concretizza con la contraddizione dell’essere, ossia della vita. Tutto ciò che “mortifica” la vita, che la elimina dal proprio orizzonte sostituendola con la morte non è che alienazione umana, violazione della dignità umana.
C’è anche una cultura laica, non credente che bisogna coinvolgere nel processo interculturale e interreligioso per il rinvenimento dello jus pacis. C’è una laicità pensante, religiosa nel senso più puro del termine, che ha cioè svincolato la Parola significativa udita dalla cultura di appartenenza da tutti gli involucri sacrali e istituzionali e senza saperlo teme Dio poiché “pratica la giustizia”, come ebbe ad insegnare il primo Papa nel discorso interculturale che inaugurava il suo ministero tra i popoli: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10, 34-35). Si tratta di una indicazione importante per chi crede in Dio e crede con ciò di avere verità da proclamare e nessuna verità da accogliere.
Anche dalle “regioni” atee della storia sono venute e ancora vengono suggestioni della volontà di Dio, del suo progetto salvifico sull’umanità intera; il Concilio ha invitato ad un «prudente e sincero dialogo» anche con l’ateismo, annoverando tale posizione corrispondente ai «diritti fondamentali della persona umana», ma riconoscendo altresì che alla genesi dell’ateismo «possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» [7]. E questo vale sia per il cristianesimo che per tutte le religioni.
La fenomenologia della religione dimostra, insieme alla storia delle religioni, che la violenza non ha rappresentato una manifestazione marginale del loro essere nella storia. Le radici del rapporto tra religione e violenza sono state indagate a fondo da René Girard, sullo sfondo di questioni di grande rilevanza e attualità come il terrorismo religioso e la stigmatizzazione del diverso, per farle poi confluire nel quadro della sua “antropologia fondamentale”: il desiderio mimetico, la violenza contro le vittime, il meccanismo del capro espiatorio, l’apocalisse e le divergenze nelle pratiche rituali e nei dogmi religiosi, per giungere ad una conclusione incredibile: che
«le religioni arcaiche avevano il compito di mantenere la pace. Per raggiungere questo scopo hanno dovuto fare ricorso a mezzi violenti, che in realtà non erano veramente una loro invenzione, ma erano stati messi a disposizione, più o meno pronti all’uso, dall’evoluzione spontanea delle relazioni umane. Non possiamo considerare queste religioni estranee rispetto alla moderna natura umana […] La violenza che vorremmo attribuire alla religione è in realtà la nostra violenza e dobbiamo affrontarla direttamente. Trasformare le religioni in capri espiatori della nostra violenza può, alla fine, avere solo l’effetto opposto» [8].
In definitiva, allora, tutto è imputabile all’essere umano e tutto da lui dipende. L’essere umano che nel suo processo evolutivo relazionale ha dato prova di saper raggiungere le vette più alte dello spirito dentro e fuori la religione, nonostante questo risultato possa scivolare nel baratro della più bieca carnalità, dentro e fuori la religione. Come affermava Pascal l’uomo non è né angelo né bestia e la disgrazia vuole che chi vuole fare l’angelo finisca col fare la bestia. «Sublimitas et miseria hominis», come papa Francesco ha titolato la sua pressoché sconosciuta lettera apostolica, scritta in occasione del quarto centenario della nascita del filosofo francese. Le religioni, in quanto istituzioni, sono un fenomeno ambiguo; in esse si può manifestare nel grado più alto la dimensione spirituale dell’uomo, il frutto della santità nell’armonia tra l’adesione di fede, la vita etica e quella di relazione sociale; mentre si possono provocare squilibri tra tali componenti, che come affermato dal Concilio «si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» [9].
Ciò impedisce di affrontare in maniera pregiudiziale il dialogo interreligioso così come quello interculturale. Non ci sono religioni violente a priori né società e culture violente a priori. Ci sono individui o gruppi sociali coesi che introducono nelle culture ed anche nelle religioni quell’ancestrale impulso di violenza, quella nietzschiana “volontà di potenza” che camuffano sovente di alta idealità e di zelo religioso, mentre in realtà si tratta di ideologia puramente umana e di violenza fine a se stessa che la religione di riferimento esclude senza riserve. Per questo il Manifesto per un’etica planetaria afferma che «la terra non può essere trasformata in meglio se non cambia prima la coscienza dei singoli» e questo può accadere unicamente ampliando «la nostra capacità di percezione, disciplinando il nostro spirito con la meditazione, la preghiera o il pensiero positivo».
Paul Ricoeur, dialogando con Hans Küng – ispiratore del Manifesto per un’etica planetaria – e interrogandosi sulla tendenza al fondamentalismo delle confessioni religiose, e di tutto ciò che può diventare fonte di violenza, riconduceva la motivazione alla sua personale esperienza: «Per ritrovare in un certo senso la motivazione della non violenza della mia personale convinzione, bisogna dunque che io trovi nel fondo stesso della mia convinzione quella violenza della mia stessa convinzione, che devo condannare ed eliminare, per poi ritrovare nel fondo della mia convinzione ciò che non posso dominare» [10]. Il “Manifesto”, dal suo canto aggiunge:
«La terra non può essere trasformata in meglio se non cambia prima la coscienza dei singoli. Noi promettiamo di ampliare la nostra capacità di percezione, disciplinando il nostro spirito con la meditazione, la preghiera o il pensiero positivo».
Per Ricoeur si tratta di un processo non soltanto e puramente intellettuale, ma «del cuore», paragonabile a ciò che comunemente si chiama «conversione» che è «un movimento di ripiegamento contro la componente violenta di una convinzione» e che «tutte le religioni sono capaci di fare questo cammino contro se stesse e contro il proprio fondamentalismo» [11]. In altri termini, se i confini culturali orizzontali di ogni cultura sono determinati dalla cultura degli altri, i confini verticali non sono stabiliti dagli altri, ma provengono dalla stessa condizione umana. Soltanto riconoscendo i nostri limiti possiamo non assolutizzare le nostre convinzioni e fare spazio all’ascolto e all’eventuale comprensione dell’altro.
Un tale cammino di conversione trova però ostacoli pressoché insormontabili, sia soggettivamente che collettivamente parlando, in tutte le forme di ingiustizia e di repressione che snaturano la dignità dell’essere umano e di popoli interi. La Parola rivelativa delle tre religioni abramitiche, ad esempio, afferma con decisione e lo ripete come un mantra che «la pace è opera della giustizia» [12]. La giustizia e la pace. Le due parole più usate e per il loro uso eccessivo svuotate di contenuto reale, e perciò spiritualizzate a tal punto da diventare insignificanti per l’uomo e ascritte all’ordine dell’inganno religioso. Così chi vuole la giustizia deve cercarla con la violenza e chi cerca la pace deve trovarla senza giustizia.
I poveri, i diseredati, gli emarginati, non sono di “diritto divino”, sono di “diritto umano”. La legge umana li contempla e i documenti umanitari dicono di tutelarli, ma di fatto niente e nessuno li solleva dal baratro dell’ingiustizia planetaria che ne ignora l’esistenza. Si può pretendere da gente ferita a morte e non soccorsa quella «conversione» che in fondo è costitutiva di ogni religione? Può il dialogo interreligioso e interculturale intessersi senza mettere nel conto il sopruso dei colonialismi, tutte le forme di repressione di nazioni su altre, tutte le dittature e le violenze che hanno soffocato ogni tentativo di dialogo giusto sul nascere? Alla violenza dei più forti si pretende la sottomissione dei più deboli, considerando sovversiva, contraria alla legge, ogni forma di rivendicazione e di protesta delle minoranze “sovversive”. Il solo diritto dei diseredati che si ribellano alle oppressioni di sistema è quello di essere arrestati, incarcerati, torturati, eliminati. Nessuna pace potrà crescere nel campo dell’ingiustizia sistematica e legalizzata in maniera unilaterale dai potentati di turno.
Se questo compito di costruire un mondo pacifico è il compito più urgente di questo nostro tempo, esso è anche il più difficile. Richiederà, infatti, molta più disciplina giuridica guidata dalla filosofia del diritto, più studio, più sacrificio, più meditazione, più esercizio delle facoltà spirituali dell’essere umano, più collaborazione tra le religioni e le istituzioni internazionali, più eroismo di quanto la guerra ne abbia mai richiesto.
Se ai leaders politici del mondo fosse possibile decidere di “abolire la guerra” e poi organizzare una forza di polizia internazionale per frenare ogni impulso di aggressività, il problema sarebbe risolto. In realtà nessun sistema politico oggi è intenzionato ad “abolire la guerra” e a rinunciare agli immensi profitti dell’industria bellica. Per cui si fomentano ad arte i contrasti tra le nazioni, all’interno di una stessa nazione, tra le religioni e all’interno di una stessa religione. Le guerre di religione tra cristiani hanno insanguinato l’Europa per secoli come oggi quelle tra i musulmani insanguinano il Medio Oriente con il placet degli ebrei loro fratelli di sangue, semiti gli uni e gli altri. Le accuse di antisemitismo protestate da Israele sono infondate; chi è antisemita deve avere in odio anche i popoli arabi. Gli uni e gli altri infatti sono figli di Abramo.
Ciò che cade quotidianamente sotto i nostri occhi ci fa pensare che la sola strada per la pace sia quella di eliminare il nemico radicitus, o ridurlo all’impotenza privandolo anche dei beni di sostentamento. Il cinismo è diventato ideologia politica, in barba ad ogni etica sia civile che religiosa. Da questi punti di vista le dichiarazioni del “Manifesto” appaiono come utopia, la più pura:
«Noi dobbiamo comportarci con gli altri come vogliamo che gli altri si comportino con noi. Noi ci impegniamo a rispettare la vita e la dignità, l’individualità e la diversità, così che ogni persona venga trattata in maniera umana – senza eccezioni. Dobbiamo praticare la pazienza e l’accettazione. Dobbiamo essere capaci di perdonare, imparando dal passato, senza però mai permettere che noi stessi rimaniamo prigionieri dei ricordi dell’odio. Aprendoci a vicenda il nostro cuore, noi dobbiamo abbandonare, per amore della comunità mondiale, le nostre ostinate controversie e, quindi, praticare una cultura della solidarietà e della reciproca appartenenza».
Possiamo affrontare questa sfida? Abbiamo la forza morale e la fede che sono richieste per fare un cambiamento così drastico prima che il mondo si polverizzi? La prospettiva sembra quasi disperata, perché oggi l’uomo si abbandona alle fantasie e alle ossessioni violente più di quanto abbia mai fatto in passato e perché oggi spendiamo per la guerra cifre tali che potrebbero sfamare l’intero pianeta. Che follia è mai questa? Quella di un mondo incapace di utilizzare le risorse spirituali per disciplinare con giustizia quelle materiali! Di questo sono responsabili le religioni.
Viviamo dunque una duplice crisi di fede e di ragione, in cui l’uomo è ossessionato dai dubbi e costretto alla confusione della totale insicurezza privo com’è di ogni regola morale e di ogni principio logico. Si va diffondendo come un letale virus pandemico il bisogno di un “uomo forte” cui affidare la soluzione di problemi che in passato altri “uomini forti” non hanno saputo risolvere, creandone invece tali e tanti altri la cui valanga ha raggiunto e travolto questa “bella civiltà” postmoderna. Quando impareremo dalla storia, quando riprenderemo a studiarla, dato che la consideriamo non utile al sistema di calcolo attuale? Di “uomini forti” la storia ha registrato le gesta nefande. Il bene non si delega e la pace si “opera” con l’impegno individuale e collettivo, secondo il monito del “Manifesto”:
«Noi tutti dipendiamo gli uni dagli altri. Ognuno di noi dipende dal benessere della totalità. Perciò dobbiamo avere rispetto per la comunità degli esseri viventi, degli uomini, degli animali e delle piante, e avere cura della salvaguardia della terra, dell’aria, dell’acqua e del suolo.
Noi portiamo la responsabilità individuale di tutto ciò che facciamo. Tutte le nostre decisioni, azioni e omissioni hanno delle conseguenze. Dobbiamo lasciarci alle spalle tutte le forme di dominio o di sfruttamento.
Noi non possiamo rubare. Dobbiamo piuttosto superare il predominio della sete di potere, prestigio, denaro e consumo, al fine di creare un mondo giusto e pacifico.
Noi ci impegniamo in favore di una cultura della non violenza, del rispetto, della giustizia e della pace».
A questo punto, per il raggiungimento del nostro scopo, per gettare le fondamenta di uno jus pacis non si può che lanciare un invito solenne: «Forze intellettuali e spirituali di tutto il mondo unitevi!». È l’invito rivolto a donne e uomini di buona volontà che lavorano onestamente e sinceramente in tutti gli ambiti della cultura per la promozione della vita in tutte le sue forme e misure: da quella non nata a quella nata, a quella che sta per finire; ciascuna bisognosa di diritto, di leggi e misure che ne garantiscano la dignità, la stabilità e la tutela. Perché la vita generi vita! Che le religioni si ravvedano e ritrovino al cuore della loro fondazione quello Spirito che Dio ha loro donato. Queste, poi, incalzino le menti pensanti a rifondare filosofie degne di questo nome, per una “metafisica concreta”, per una nuova considerazione dell’Essere e dell’esserci, dello spirito e dell’intelletto, in pace.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] T Merton, Diario di un testimone colpevole, Garzanti, Milano 1968: 75
[2] Le lezioni si sono tenute tra Trapani e Mazara del Vallo dal 9 al 13 settembre 2024
[3] Cf. F. J. Ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione, Jaca Book, Milano 2009: 148-150.
[4] Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes del Concilio Ecumenico Vaticano II del 7 dicembre 1965, n. 78.
[5] Gaudium et Spes, cit., n. 4.
[6] Id., n.10.
[7] Id., n. 19.
[8] R. Girard, Violenza e religione. Causa o effetto?, Raffaello Cortina ed. Milano 2011: 25.
[9] Gaudium et Spes, cit., n. 19.
[10] H. Küng – P. Ricoeur, Il lato oscuro della fede. Religioni, violenza e pace, Edizioni Medusa, Milano 2021: 45.
[11] Ibid: 45-46.
[12] Is 32,17: L’opera della giustizia sarà la pace e l’azione della giustizia, tranquillità e sicurezza per sempre.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, liturgista, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo, docente e Direttore della Scuola Diocesana di Teologia e della Biblioteca diocesana. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso. Attualmente è anche Referente diocesano per il Sinodo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018). Nel campo dell’innografia liturgica ha pubblicato con le Edizioni Paoline due volumi di inni: O fonte della luce; O Cristo splendore del Padre.
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