Stampa Articolo

Quando in Italia c’erano gli arabi: le prime incursioni

Omar al

Omar ibn al Khattab

di Ahmed Somai 

Ai tempi del secondo califfo Omar ibn al Khattab [1], la Sicilia e una parte del Sud Italia erano province bizantine. Le prime conquiste islamiche riguardarono l’Asia Anteriore e la Persia e molti territori vennero strappati ai Sassanidi e ai Bizantini. Il conflitto con Bisanzio era destinato ad allargarsi, coinvolgendo i territori del bacino orientale del Mediterraneo e le sue isole che erano in mano bizantina. Con la conquista dell’Egitto e di Tripoli, la minaccia delle incursioni bizantine si fece sentire con più forza, insieme agli atti di pirateria dei Veneziani. La superiorità in mare era evidente.

Gli arabi avevano poca dimestichezza con la navigazione e non possedevano flotte capaci di far fronte ai Bizantini e ai Veneziani. E nonostante le sollecitazioni dei suoi capi militari, il califfo Omar rifiutò di intraprendere azioni in mare. Anzi, quando uno dei suoi generali prese il mare per un’incursione in India e ne tornò con un consistente bottino, il califfo lo rimproverò aspramente, dicendogli che aveva messo a rischio la vita dei suoi uomini caricandoli sopra un “legno come bachi”, proprio così, come se fossero vermi attaccati a un pezzo di legno. L’espressione, a quanto pare, proviene da un eminente personaggio, Amru ibn al-Ass [2], il conquistatore dell’Egitto, al quale il califfo chiese il parere riguardo alle imprese in mare. Nella sua risposta, Amru ibn al ’Ass usò quest’immagine dei vermi attaccati al legno, in balia delle onde. Eppure non era pensabile che il califfo Omar non sapesse che le popolazioni della penisola arabica che vivevano sulle rive del Mar Rosso o del Golfo Persico praticassero il mare e si spostassero per vari motivi come il commercio o la pirateria. La preoccupazione del Califfo era un’altra. Che l’espansione incontrollata delle conquiste, dopo quelle dell’Asia anteriore e della Persia, mettesse a rischio il nascente Stato Islamico che non disponeva ancora di mezzi e di esperienze nelle guerre in mare. Finché era in vita la sua volontà venne rispettata, e non ci furono grandi imprese belliche in mare.

Dopo l’assassinio di Omar per mano di un ribelle, il suo successore Othman ibn ‘Affen [3] (644-656), adottò una politica tutt’altro che remissiva. Infatti, aveva capito che per proteggere le città costiere nei territori recentemente conquistati in Siria e in Egitto dalle incursioni bizantine e dagli attacchi di pirateria, bisognava dotarsi di una flotta capace di far fronte alla marina bizantina. Iniziò così l’avventura degli arabi in mare. In poco tempo, non solo diventarono i padroni del bacino orientale, ma più tardi con la conquista del Nord Africa e della Spagna, estesero il loro controllo sul bacino occidentale. Ormai erano i padroni di tutto il Mediterraneo e l’avversario più temibile di Bisanzio.

omar

Abd Allah ibn Saad

Il nuovo califfo, Othman, adottò una politica opposta a quella del suo predecessore riguardo l’espansione ad oltranza dell’impero e il controllo dei mari. Espresse le sue idee al suo luogotenente in Siria, Mu ‘awiya ibn ‘Abi Sufyān [4], il quale non aspettava altro. Iniziò da subito la costruzione di una flotta. In Egitto, Abd Allāh ibn Saad [5], seguì le sue orme e fece di Alessandria una base della flotta militare. Ben presto gli Arabi presero il mare non solo per difendere le città costiere islamiche ma per attaccare le navi da guerra bizantine e strappare loro isole e zone costiere, come l’isola di Creta. E nell’anno 652 si ebbe la prima incursione araba in Sicilia con l’invio da parte di Mu‘awiya ibn abi Sufien di una flotta, guidata da Mu’awiya ibn Hudeij, con lo scopo di conquistare l’Isola. L’impresa non ebbe i risultati auspicati, in parte per la insufficiente preparazione e in parte per la resistenza dei bizantini di Sicilia.

Bisogna dire inoltre che l’impero bizantino, dopo la perdita dei suoi territori in Asia Minore, conquistati sotto il califfato di Abu Bakr e di Omar, compagni del profeta Maometto, guardava con apprensione all’espansione islamica in Egitto e nell’Africa del Nord. Quindi, per non rimanere accerchiato e per salvaguardare la sua presenza in Mediterraneo, soprattutto dopo la presa di Creta da parte dei musulmani, considerò la Sicilia e il Sud Italia vitali per la sua sopravvivenza militare ed economica. Si affrettò quindi a rafforzare le difese dell’isola, della Calabria e della Puglia, dotando le alture di rocche ben protette, e mandando uomini e membri della nobiltà al comando delle azioni militari contro gli arabi. Questo rafforzamento della sua presenza non mancò di suscitare scontento nella popolazione di rito cattolico, diversa per indole e per tradizioni religiose dagli ortodossi bizantini, senza parlare del suo attaccamento tenace alla propria autonomia. Sarà questo uno dei fattori di instabilità e di lotte intestine che favoriranno la conquista dell’isola e le successive incursioni in Calabria e in Puglia.

Mu'awiya ibn Abi Sufien

Mu’awiya ibn Abi Sufien

Anche la scena musulmana dopo i due primi califfi cambiò. Innanzitutto, i compagni del Profeta scomparvero, e con loro scomparve il prestigio religioso e politico che costituiva la fonte del loro potere. Arrivò gente nuova, con nuove visioni e nuovi progetti. La tradizione che tramandava oralmente le gesta e le sentenze di Maometto, la cosiddetta “Sunna” che costituiva la seconda fonte della giurisdizione islamica dopo il Corano, veniva mano a mano sostituita dalle interpretazioni del testo sacro e della Sunna da parte di autorevoli imam. Sono loro che diventeranno in seguito i detentori del reale potere e dell’instaurazione dello Stato teocratico. I nuovi califfi e emiri erano ormai circondati da Ulema o “faqih” che assumevano il ruolo di consiglieri. Una sorta di parlamento costituito da condottieri militari, da membri della nobiltà e da ulema, diventa l’organo che consiglia il sovrano in modo da far corrispondere le sue azioni con i dettami della legge islamica.

Su un altro versante, l’espansione dell’impero islamico verso l’Egitto, il Nord Africa e la Spagna, creò non pochi problemi sul piano istituzionale e sociale. Le popolazioni ivi presenti prima della conquista, berberi, cristiani, ebrei, e pagani, dettero filo da torcere ai nuovi conquistatori, soprattutto nel Nord Africa popolato da berberi gelosi della loro indipendenza e poco propensi ad abbandonare le loro credenze e tradizioni. Lo vediamo nelle tante insurrezioni sanguinose come quella di al Kahena [6] che costrinse i primi conquistatori della Sicilia ad abbandonare l’impresa e tornare in fretta in Ifriqia [7] per domare la rivolta e restaurare il potere centrale. D’altra parte, assistiamo ad un graduale distacco dal potere centrale di Damasco o di Bagdad, divenute le nuove sedi del califfato.

Ormai i governatori investiti dai califfi godono di un’autonomia sempre più grande e il califfo ha solo un’autorità formale di investitura. Per il resto, l’emiro è libero di agire nel proprio territorio salvo mandare al califfo il quinto dei proventi delle razzie stabilito dal Profeta, per alimentare il Tesoro dello Stato “Beit mel al muslimin”. Troviamo tante testimonianze nei testi dei cronisti, dove viene evocato il quinto del bottino da inviare al califfo, mentre il resto veniva distribuito ai soldati secondo il loro rango. Ciò provocava spesso delle tensioni fra gli elementi dell’esercito musulmano costituito da gente di varie etnie, i quali contestavano il privilegio di cui godevano gli elementi di stirpe araba nella distribuzione delle parti.

Questo è dunque lo scenario in cui si svolgono i primi tentativi di conquista della Sicilia e del Sud Italia. Incursioni a scopo di bottino o atti di pirateria sono esistiti da sempre: da una riva all’altra partono imbarcazioni, sia per il commercio, sia per catturare schiavi e depredare imbarcazioni in mare o località vicine alla costa. Ma qui stiamo parlando dell’irruzione di un nuovo protagonista, l’impero musulmano, ormai padrone di buona parte del Mediterraneo, in contrasto permanente con l’altra potenza mediterranea, l’impero bizantino, e seppure vengano stipulate tregue per consentire all’uno e all’altro di fare commercio, erano spesso infrante per varie ragioni.

In questa nuova realtà creatasi dall’espansione islamica le incursioni hanno spesso un obiettivo ambiguo che oscilla tra depredare e tornare in patria con il bottino e i prigionieri da vendere sulle varie piazze del Mediterraneo, e l’intenzione di conquista permanente animata dallo spirito del “Jihad”. Inizialmente, non sembrava che ci fosse una reale intenzione o un progetto deciso dalla suprema autorità islamica, il califfo, o gli emiri da lui nominati nelle varie province dell’impero islamico. Le prime incursioni di cui abbiamo notizia nelle fonti arabe tendevano a essere atti di depredazione, azioni rapide che potevano garantire un ricco bottino. Spesso gli stessi emiri apprestavano l’incursione con navi e uomini, senza un progetto di conquista stabile. Il bottino, frutto di queste spedizioni, costituiva una vera fonte di ricchezza per i vari sovrani e uno dei principali modi per riempire le casse dello Stato Islamico centrale: attraverso la riscossione della quinta parte del bottino, la Camera del Tesoro (Beit al Mel), accumulava denaro e beni per sovvenzionare guerre, opere pubbliche, pagamento di soldati e amministratori, pensioni per le vedove dei martiri del “Jihad”, ecc. Dai tempi del Profeta e dei primi califfi il “fei’’” (bottino) assunse un significato sacro. Trasgredirlo, rubarlo alla Comunità dei fedeli, poteva scatenare l’ira di Allah come nell’episodio dell’incursione contro la Sardegna e Genova narrata da Ibn al Athir [8]: 

«Quando Mussa conquistò l’Andalusia lanciò una schiera di soldati in mare contro quest’isola (la Sardegna) nell’anno 92 dell’Egira (710). I cristiani si affrettarono a buttare tutto ciò che avevano di stoviglie in argento e in oro nelle acque del porto, e nascosero il loro denaro nel doppio soffitto della cattedrale. I musulmani depredarono quanto più poterono, fino all’eccesso. Capitò così che uno di loro si tuffò nelle acque del porto per lavarsi ed inciampò in qualcosa: lo tirò fuori dall’acqua e vide che era un vassoio in argento, e tutti si misero a raccogliere gli oggetti dal fondale. Capitò che uno di loro, entrato nella cattedrale, vide un piccione e gli scagliò una freccia che non colpì l’uccello ma il soffitto rompendo una tavola ed ecco che dal soffitto piovve denaro in quantità e tutti si precipitarono a raccoglierlo smaniosi di accaparrarselo: c’era chi afferrava un gatto, lo uccideva e lo svuotava dalle interiora per riempirlo di monete e cucendone la pelle lo gettava fuori dalla finestra e uscendo lo recuperava e lo nascondeva. Un altro sfoderava la sua spada per riempire il fodero di monete in oro. Quando presero il mare sentirono una voce che diceva: O Allah! Annegali tutti! E Allah li annegò e gli si trovarono i denari attaccati alle cinture» [9]. 

ibn-al-athirNelle cronache, sia dei musulmani che dei cristiani, vengono spesso evocate forze soprannaturali, Allah o i Santi, che intervenivano talvolta per aiutare i propri fedeli o per castigarli. In questa vicenda, Allah è intervenuto per punire i soldati che con il loro gesto rubavano il denaro dovuto al califfo e al Tesoro della comunità islamica: Il terzo del bottino (il fei’), era sacro, come se fosse la parte dovuta ad Allah e destinata al suo popolo.

Oltre a questa incursione, Ibn al Athir nella stessa pagina (282), enumera le altre incursioni musulmane in Sardegna avvenute in altri periodi anche lontani nel tempo, con questa giustificazione: «Abbiamo riunito qui le notizie che riguardano la Sardegna a causa del loro limitato numero, perché a disperderle nel tempo non ne avremmo avuto una chiara percezione»: 

«Nell’anno 135 dell’Egira, la espugnò (la Sardegna) Abd Arrahmen ibn Habib ibn Abi Ubeida al Fihri, fece strage dei suoi abitanti, i quali stipularono con lui un patto pagando un tributo (la Gezia). Il tributo fu pagato e non la espugnò più nessuno e vi si stabilirono i “Rum” (i cristiani).
Nell’anno 323, Al Mansur al Alwi, Emiro di Ifriqia (l’attuale Tunisia), inviò una flotta contro la Sardegna, partita da Mahdia. Passando vicino a Genova, i musulmani invasero la città e fecero strage della sua gente, presero come schiave molte donne, bruciarono varie imbarcazioni, depredarono Genova e fecero bottino di quanto vi si trovava.
Nel 406, ci fu la spedizione di Mujahid al Amri di Denia, che prese il mare con centoventi imbarcazioni, la espugnò, fece strage di molti uomini e prese come schiavi donne e bambini. I re dei “Rum” saputo il fatto, si unirono e gli andarono incontro dalla “terra grande” (il continente) con un grande esercito e gli mossero battaglia. I musulmani furono sconfitti e cacciati fuori dalla Sardegna. Alcune loro imbarcazioni furono prese e furono catturati il fratello di Mujahid e suo figlio Ali ibn Mujahid, gli altri se ne tornarono a Denia, e non ci furono più incursioni musulmane in Sardegna» (Athir, IV: 282).      

Dopo quest’ultima incursione non ci sono più stati altri tentativi di conquista o depredazione della Sardegna. La sua natura impervia e la resistenza accanita dei suoi abitanti come anche la potenza della flotta genovese hanno dissuaso i musulmani da ogni progetto di invasione o di colonizzazione stabile. 

Il discorso è diverso per quanto riguarda la Sicilia. Non si contano le scaramucce tra siciliani e bizantini da una parte, e arabi, andalusi e berberi dell’Ifriqia dall’altra. La ragione più ovvia è la vicinanza geografica e l’intensa attività di scambi commerciali e di spostamenti di uomini e merci di ogni tipo da una riva all’altra del Mediterraneo. Quest’attività intensa favoriva attacchi alle imbarcazioni degli uni e degli altri a scopo di bottino, ma siamo ancora lontani da progetti più ambiziosi di conquista finché l’esperienza in mare degli arabi era insufficiente e le loro flotte ancora rudimentali. Ma ben presto, sotto il califfato di Othman, il suo luogotenente in Siria, Mu’awiya, si dotò di una flotta da guerra che comprendeva anche bastimenti provenienti da Alessandria d’Egitto, e la lanciò contro Cipro nel 648, e quattro anni dopo, nel 652, ormai sicuro delle sue capacità belliche in mare, prese di mira la Sicilia.

ibn Ala Tahir

ibn al Athir

L’attacco del 652 è documentato anche nelle fonti europee e in testimonianze contemporanee riguardanti il famoso processo contro Papa Martino, e anche nelle cronache di Teofano dell’anno 662, dove si legge che una parte della Sicilia fu assalita dai musulmani, e alcuni prigionieri, alla loro domanda, furono mandati a Damasco. Abbiamo anche conferma di questi fatti nelle fonti arabe. Baladhuri narra che Muawia ibn Hudeij guidò una spedizione contro la Sicilia ai tempi di Mu ‘awiya ibn Abi Sufien, governatore della Siria. Fu il primo a iniziare una guerra contro l’Isola, a da quel momento in poi non cessarono i tentativi di conquistarla, finché gli Aglabiti di Kairuan non riuscirono a conquistarne più di venti città. Un altro storico arabo, Waqidi, racconta che Abd Allah ibn Qais, vi fece gran bottino di prigionieri e di statue in argento e oro tempestate di pietre preziose che mandò al califfo Mu ‘awiya, il quale le inviò a Bassora per portarle in India dove si sarebbero vendute a miglior prezzo (ciò è giustificato anche dal fatto che l’Islam non ammette l’idolatria e non è possibile fare commercio di statue nei Paesi musulmani).

I due attacchi, quello di Hudeij e quello di ibn Qais, sono separati e non si confondono. Baladhuri, infatti, situa il primo subito dopo l’attacco all’isola di Rodi, i cui fatti sono documentati con sicurezza. La fonte più attendibile di tutte, al Bayen, pur essendo posteriore, fissa il primo attacco nell’anno 34 dell’Egira (= 654-655), mentre il secondo avviene nell’anno 47 Eg. (= 666-667), e dunque il primo quando Mu’awiya ibn Abi Sufien era governatore della Siria (dal 640 al 661) mentre il secondo, quando Mu‘awiya era califfo (661-680). Ed è probabile, secondo Amari, che ibn Qais compì altre incursioni nel 668 o 669, approfittando delle turbolenze seguite all’assassinio di Costantino II a Siracusa nell’anno 668.

Michele Amari

Michele Amari

Racconta Amari che la flotta dei Musulmani si mosse dall’estremo golfo del Mediterraneo orientale, probabilmente da Tripoli di Siria, sicuramente non dalle coste del Nord Africa, da dove si erano ritirati tre anni prima. A quanto pare Mu’awiya aveva maturato l’idea di un impero, e il suo scopo dalla conquista della Sicilia era quello di aggiungere all’impero un’altra provincia (la Sicilia), che avrebbe consolidato l’egemonia musulmana nel Mediterraneo.

I musulmani continuarono le loro razzie e spedizioni in Sicilia e in altre isole minori come Ponza, Ischia, e altre zone del Sud Italia, specie in Calabria. Ma era la Sicilia quella che più interessava agli arabi, ed era quella che pativa di più di questi continui attacchi che si presentavano come il preludio ad una vera e propria conquista definitiva. Bisanzio ne era consapevole come era consapevole che la perdita della Sicilia e la sua caduta nelle mani dei musulmani significava non solo la fine della sua egemonia nel mare Mediterraneo, ma anche la possibilità concreta e a lungo termine ineluttabile di essere accerchiata da ogni parte dal nascente impero islamico. Ciò spiega in parte perché il sovrano di Costantinopoli si sbrigò a mandare in Sicilia 600 navi cariche di guerrieri. Appena seppero dell’arrivo di queste forze superiori alle loro capacità di resistere o di combattere, i musulmani levarono subito le ancore, e nottetempo lasciarono l’isola. Dopo alcuni giorni raggiunsero le coste della Siria, scaricarono tutto ciò che avevano depredato e i prigionieri, e li trasportarono a Damasco, al governatore Mu’awiya che tolse il quinto del bottino per mandarlo al califfo Othman, informandolo delle vicende della Sicilia e in che modo i musulmani ne erano usciti indenni.

D’altra parte, l’arrivo delle forze bizantine in Sicilia e il rafforzamento delle sue difese ne fece la base dalla quale partivano spedizioni contro gli arabi del Nord Africa, in Cirenaica nel 681-682, e contro Cartagine nel 697. Ma era chiaro che Costantinopoli non poteva continuare a mandare navi e uomini nelle sue province italiane ogni qualvolta venivano attaccate da navi musulmane che ormai provenivano da ogni parte: dalle coste della Siria e dell’Egitto, dal Nord Africa e anche dall’Andalusia. Dal canto loro, gli arabi sentivano il progressivo declinare dell’impero bizantino, minato anche da dissidi interni, e la prospettiva di strappare la Sicilia al controllo di Costantinopoli diventava più concreta.

In seguito le incursioni rapide, le razzie per fare bottino e prendere prigionieri da vendere poi come schiavi, lascerà il posto ad una nuova prospettiva tinta di un più evidente colore religioso di guerra santa, di “Jihad”.

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] . Secondo califfo, succeduto a Abu Bakr nel 634, sarà “l’Emiro dei fedeli” per 10 anni (644).  Compagno del Profeta, Fa parte dei primi quattro Califfi Guida, i cosiddetti “Rascidin”. Durante il suo regno avvennero le conquiste dell’Iraq e della Persia, la presa di Gerusalemme, e la conquista dell’Egitto. Fu ucciso a pugnalate da uno schiavo zoroastro.
[2] . Amru ibn al Ass, compagno del profeta e uno dei massimi generali dell’esercito musulmano. Ha conquistato l’Egitto nel 640-41. Deceduto nel 664.
[3]. Othman Ibn ‘Affen (574-656): è il terzo califfo dei “Rascidin” dopo Abu Bakr e Omar. Compagno del profeta. Dopo l’assassinio di Omar diventa califfo al posto di Ali che rifiuta l’incarico, non essendo d’accordo con la politica dei suoi predecessori. Durante il suo regno avviene la conquista del Nord Africa e cominciano le prime invasioni musulmane della penisola iberica. Sotto Othman si realizza la versione ufficiale del Corano chiamata “ar-rasm al othmani”. Il suo regno è caratterizzato da conflitti e dissidi culminati nell’assedio dei 49 giorni concluso con l’assassinio di Othman (656): sarà la prima discordia o “Fitna” che dividerà i musulmani tra sunniti e sciiti.       
[4] Mu’awiya ibn abi Sufien (602-680). Governatore della Siria sotto il califfato di Omar. Rifiuta l’elezione di Ali come califfo dopo la morte di Othman. Prima discordia dopo la battaglia di Siffin (657). Diventa primo califfo e re della dinastia degli ommeyadi e sposta la capitale a Damasco.
[5] Abd Allah ibn Sa’d: Governatore d’Egitto dal 645 al 656 (data della sua morte). Fonda insieme a Mu’awiya la prima flotta musulmana per contrastare l’egemonia di Bisanzio nel Mediterraneo.
[6] Al Kahena, in arabo significa la Sacerdotessa, ma il suo vero nome berbero è Dihya. Guerriera berbera che combatté gli Omeyadi durante la conquista del Nord Africa nel VII secolo. Indomabile, ha mobilitato e unificato le tribù berbere e le ha condotte in un’accanita resistenza contro i conquistatori arabi. Dopo varie vittorie muore combattendo nel 703. È diventata una leggenda e un’icona del femminismo.
[7] Ifriqia è il termine geografico usato per il Nord Africa, corrispondente all’attuale Maghreb: cioè Tunisia, Algeria e Marocco.  
[8] Ibn al Athir (1160-1233). Storico arabo. La sua opera al Kamil fit-Tarikh (Totalità della Storia, 1231) è considerata una delle principali fonti per la storia dell’Islam. Inoltre è uno dei principali cronisti arabi delle Crociate essendone stato un testimone oculare poiché ha partecipato al “Jihad” (guerra santa) nella Terza Crociata. Insieme allo storico Ibn Khaldun, è una delle fonti più citate da Michele Amari nella sua Storia dei musulmani di Sicilia.
[9] Ibn al Athir, al Kamil fit Tarikh, IV: 282.

 _____________________________________________________________

Ahmed Somai, italianista e traduttore tunisino. Co-autore dei tre primi manuali per l’insegnamento della lingua italiana in Tunisia (1995-1997). Autore di una Bibliografia italiana sulla Tunisia (ed. Finzi), ha curato per la collana “I Classici” i volumi: G. Verga, Vita dei campi; L. Capuana, Il marchese di Roccaverdina. Dalla metà degli anni ’80 è impegnato in una costante attività di traduzione in arabo di opere e autori italiani: I. Calvino, Fiabe italiane, vol.1, Finzi Ed. Tunisi, 1988; G. Bonaviri, Il sarto della stradalunga, Finzi, Tunisi, 1998; N. Ammaniti, Io non ho paura, Cenatra, Tunisi, 2008; di U. Eco ha tradotto in arabo i romanzi: Il nome della rosa (1991); L’isola del giorno prima (2000); Il cimitero di Praga (2014); Numero zero (2017) e i saggi Semiotica e filosofia del linguaggio (2005); Dire quasi la stessa cosa (2012). Co-traduttore e curatore dell’Antologia di Poeti Tunisini tradotti in italiano, Roma-Tunisi, 2018. Ha tradotto ultimamente per l’editore Madar al Islam, Beirut, 2019, La colonia saracena di Lucera di Pietro Egidi.

______________________________________________________________

 
Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>