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Tra abbandono, nostalgia e restanza di paesi spaesati, la resistenza alla fine di un mondo

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di Giulia Panfili 

Eventi estremi come alluvioni, frane e siccità colpiscono sempre più spesso il territorio italiano (e non solo). Nell’introduzione al rapporto Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) del 2021 sul dissesto idrogeologico in Italia si legge che

«il dissesto idrogeologico costituisce un tema di particolare rilevanza per l’Italia a causa degli impatti su popolazione, ambiente, beni culturali, infrastrutture lineari di comunicazione e sul tessuto economico e produttivo. Alla naturale propensione del territorio al dissesto, legata alle sue caratteristiche meteo-climatiche, topografiche, morfologiche e geologiche, si aggiunge il fatto che l’Italia è un Paese fortemente antropizzato. L’incremento delle aree urbanizzate, verificatosi a partire dal secondo dopoguerra, spesso in assenza di una corretta pianificazione territoriale, ha portato a un considerevole aumento degli elementi esposti a rischio, ovvero di beni e persone presenti in aree soggette a pericolosità per frane e alluvioni; (…) nel contempo l’abbandono delle aree rurali montane e collinari ha determinato un mancato presidio e manutenzione del territorio. I cambiamenti climatici in atto stanno inoltre determinando un aumento della frequenza degli eventi pluviometrici intensi e, come conseguenza, un aumento della frequenza delle frane superficiali, delle colate detritiche e delle piene rapide e improvvise»

(https://www.isprambiente.gov.it/files2022/pubblicazioni/rapporti/rapporto_dissesto_idrogeologico_italia_ispra_356_2021_finale_web.pdf  p. 3).

E ancora, in seguito all’evento alluvionale che ha colpito l’Emilia-Romagna il 16-17 maggio 2023, nella nota Ispra al quadro di sintesi dissesto frane è ribadito che

«ogni anno sono circa un migliaio le frane che si attivano o riattivano sul territorio nazionale e qualche centinaio gli eventi principali che causano impatti significativi sulla popolazione, sui centri abitati e sulla rete stradale e ferroviaria. Le cause del dissesto vanno ricercate, in primo luogo, nelle condizioni fisiche del territorio italiano: geologicamente giovane e tettonicamente attivo, costituito per il 75% da colline e montagne. Alle cause naturali, quali precipitazioni e terremoti, si aggiungono sempre più di frequente quelle antropiche legate a tagli stradali, scavi, costruzioni, perdite da acquedotti e reti fognarie. Gli impatti dei cambiamenti climatici sui fenomeni franosi, oltre all’incremento dei fenomeni di instabilità dei versanti legati alla degradazione del permafrost in alta quota, riguardano l’incremento della frequenza dei fenomeni franosi superficiali e delle colate di fango e detrito, legati a piogge (eventi pluviometrici) brevi e intense»  (https://www.isprambiente.gov.it/files2023/notizie/pdf24_merged.pdf p. 3).

Si delinea così un quadro di come l’Italia sia un territorio fortemente soggetto al dissesto idrogeologico, per cui complessivamente il 93,9% dei comuni italiani (7.423) è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera. 1,3 milioni di abitanti sono a elevato rischio frane, 6,8 milioni di abitanti a rischio alluvioni, 841 km di litorali in erosione pari al 17,9% delle coste basse italiane. In che modo sia percepito e quanto consapevole tale rischio, soprattutto dagli abitanti maggiormente coinvolti, non so dire. Esiste una piattaforma nazionale dal nome IdroGEO  (https://idrogeo.isprambiente.it/app/) che consente la gestione e la consultazione di dati, mappe, report, foto, video e documenti dell’inventario dei fenomeni franosi in Italia (iffi), ideata proprio come strumento di comunicazione e diffusione delle informazioni. Si prefigge infatti di informare i cittadini e le imprese sui rischi che interessano il proprio territorio contribuendo a una maggiore consapevolezza e a decisioni informate. Fatto è che le decisioni nell’ambito delle politiche nazionali di mitigazione del rischio, non sembrano supportare la contezza di queste informazioni.

Cavallerizzo franata

Cavallerizzo franata (ph. Alfonso Bombini)

Nella sintesi Ispra del rapporto 2024 sul consumo di suolo (https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2024/12/Sintesi-rapporto-consumo-di-suolo-2024-ISPRA-SNPA.pdf ) i dati raccolti confermano che il consumo di suolo continua a trasformare il territorio italiano con velocità elevate. Consumo del suolo e cambiamento climatico sono fortemente correlati tra di loro: il suolo è un grande serbatoio di carbonio e quando viene trasformato non solo rilascia carbonio nell’atmosfera, ma non è in grado di assorbire le piogge aumentando così la pericolosità dei territori. Nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 72,5 km2, ovvero, in media, circa 20 ettari al giorno. Per dare un’idea tutti gli edifici messi insieme di Torino, Bologna e Firenze coprono 72,5 km2 circa, quindi è come se in un anno venissero ricostruiti gli edifici di tre grandi città e questo in un periodo in cui la popolazione continua a diminuire. Si assiste a una crescita delle superfici artificiali anche in presenza di decrescita della popolazione residente. Paesi in abbandono sono spesso paesi in ricostruzione altrove, che sia a valle, in città o semplicemente un po’ più in là.

Rarefatti, a rischio desertificazione, coinvolti tanto nella cementificazione, quanto nella ricostruzione dell’incolto e rammendatura delle relazioni, in una sorta di azioni quotidiane di “appaesamento”, i paesi sono realtà complesse che necessitano sguardi e sentire attenti e duraturi, ancor più quando colpiti da eventi estremi. Questo tra molto altro emerge dal libro Il risveglio del drago. Cavallerizzo: un paese mondo, tra abbandono e ricostruzione (2004) di Vito Teti, antropologo calabrese dedicatosi a lungo alla letteratura dei luoghi, tra abbandono, nostalgia e restanza. Con il suo denso, lucido e appassionato lavoro ci accompagna con cura in un paese spaesato e dolente, colpito da una frana. Le ripetute visite ai suoi abitanti e le approfondite ricerche antropologiche si intrecciano con la sensibilità peculiare dello studioso in una ricerca etnografica e una riflessione antropologica che coprono un arco temporale di venti anni.

La notte tra il 6 e il 7 marzo 2005 a Cavallerizzo (Kajverici), nucleo arbëreshë del comune di Cerzeto (Qana) in provincia di Cosenza, si verificò una frana che comportò l’evacuazione dei suoi trecento residenti e l’abbandono del paese. A Cavallerizzo il rischio frana era tutt’altro che inaspettato, «è da secoli una presenza incombente nei discorsi degli abitanti di Cavallerizzo e nelle loro memorie. In questa comunità era forse più forte che in altri luoghi la consapevolezza, tramandata da generazioni, di un’estrema fragilità che incombeva nelle immediate vicinanze del paese».

Cavallerizzo new town

Cavallerizzo new town (ph. Alfonso Bombini)

In quel pazzo marzo di pioggia, «a Cavallerizzo tutti sapevano da dove giungeva il pericolo e cosa bisognava fare per scongiurarlo. Le iniziative prese dalla gente, anche nel disinteresse e nelle inadempienze delle autorità locali ed esterne, miravano a prosciugare, controllare, incanalare le acque che alimentavano la frana e risvegliavano il drago». Vito Teti ne raccoglie e racconta le iniziative, le memorie, finanche i sogni delle persone coinvolte, perché «in quei giorni, gli abitanti di Cavallerizzo non erano stati con le mani in mano, in silenzio. Nell’indifferenza della politica, diversi giovani facevano qualcosa di desueto: si prendevano cura del loro paese».

La cronistoria della notte della frana ha qualcosa di prossimo al realismo magico, per la descrizione meticolosa della realtà nella quale sono compresenti elementi mitici, religiosi, onirici. «Il drago ha lanciato il suo urlo terrificante, la terra si è sollevata, l’acqua ha cercato una via d’uscita. Il drago, però, non ha vinto del tutto. San Giorgio e il suo cavallo, la talpa che era di guardia e i suoi aiutanti non hanno potuto salvare il paese, ma hanno messo in salvo gli abitanti. Non ci sono stati morti, nemmeno feriti. E questo appare il nuovo miracolo di san Giorgio che ha comunque protetto Cavallerizzo».

Il paese però se ne è andato, Cavallerizzo si è chiuso veramente: vengono impediti gli accessi, controllate le vie di ingresso, costretti gli abitanti a lasciare le case e trovare rifugio altrove. È un morto non (ancora) morto che la popolazione scorge dal muretto di Cerzeto in un tempo non tempo successivo alla frana, in cui si pensa all’immediato. A questo iniziale spaesamento si affianca già fin dai primi giorni anche la parola “delocalizzazione” che mano a mano si fa più consistente nelle fasi delle decisioni sulla ricostruzione, generando divisioni e contrapposizioni. Fino a che la new town di Cavallerizzo prende forma a Pianette di Cerzeto, secondo la decisione di Guido Bertolaso all’epoca direttore della Protezione civile, una decisione che «venne accolta con pianti, urla di disperazione e di rabbia; e non mancarono invettive. I presenti si abbracciano, cercano di consolarsi, vivono un nuovo lutto collettivo».

Cavallerizzo, Liliana Bianco, unica abitante

Cavallerizzo, Liliana Bianco, unica abitante (ph. Alfonso Bombini)

«Come organizzare la presenza, come uscire da uno stato di spaesamento continuo e perturbante?» si chiede Vito Teti. Nel libro, il racconto delle vicende di cui l’antropologo ha avuto esperienza diretta o ne ha raccolto la testimonianza, è spesso intervallato da esplorazioni del passato, un passato anche di miti e leggende, soprattutto un passato della storia moderna in cui viene rintracciato l’inizio della fine, l’Antropocene. Viene analizzata la storia e l’antropologia della terra in cui gli arbëreshë avevano ricostruito i loro abitati da secoli; vengono approfonditi aspetti della cultura arbëreshë, il culto di san Giorgio e il drago, la struttura urbana e sociale della gjitonia. Lo sguardo attento e duraturo di visite ventennali a Cavallerizzo si integra perciò con uno sguardo ampio e radicato. Come l’autore stesso suggerisce di fare, «bisognerebbe fermarsi, tornare indietro, conoscere meglio il passato, decifrare segni e tracce della natura e delle persone che ci hanno preceduto, degli animali». Così facendo forse si potrebbe intraprendere il “simbiocene”, quella sorta di progetto che possa coinvolgere la specie umana in simbiosi con le altre forme viventi. Certamente l’effetto è di una specie di consapevolezza perturbante, un’angoscia di fronte al noto non ancora noto, uno shock cognitivo paralizzante, per cui può diventare difficile abbandonare un pessimismo generale. Eppure anche qui Vito Teti invita a «continuare a essere lucidi, rigorosi e a bilanciare il pessimismo con una forma di speranza che (…) va costruita giorno per giorno: una disperanza».

Nell’introduzione al libro Vito Teti si chiede «che senso ha o che senso posso dare alla storia di una piccola comunità che frana e si dissolve, in una notte del marzo 2005, e che dà origine a dispersioni, esilî, dolori, fratture, dissidî, forme di resistenza e a qualche speranza?». Poco più avanti, la sua tesi è che «un paese che muore, in un ambito locale e senza incidere in ampi contesti, abbia qualcosa da dirci anche sull’Antropocene, sullo spopolamento, sulla possibile fine di luoghi, possa insegnarci qualcosa su come affrontare il rischio, anche sul piano emotivo, cognitivo, pratico della morte del nostro mondo».

«La vicenda di Cavallerizzo è un esempio, anche con esiti paradossali ed estremi, di una rigenerazione ottenuta attraverso una cultura capace di resistere alla negatività», nonché un pungolo per destarci dalla grande cecità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025

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Giulia Panfili vive attualmente a Roma. Ha studiato antropologia visiva a Lisbona e ha concluso il dottorato in antropologia, politiche e immagini della cultura, museologia con una tesi di ricerca etnografica in Indonesia sul wayang come patrimonio immateriale dell’umanità. Ha partecipato a convegni di antropologia e arte in Portogallo, Brasile, Inghilterra, Indonesia, e a mostre collettive di fotografia, illustrazione e stampa grafica presso gallerie e festival in Italia, Spagna, Portogallo, Indonesia. Tornando in Italia ha frequentato la Scuola Romana del Fumetto, dedicandosi quindi a disegno e illustrazione, con cui ha elaborato parte della tesi di dottorato. Ha approfondito in seguito tecniche e linguaggi della fotografia e del documentario audiovisivo con corsi formativi e progetti vincitori di bandi di concorso. 

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