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Nello stroma. Estendere per vedere

Elena Santoro, Reality Texture 1; 2023

Elena Santoro, Reality Texture 1; 2023

di Aldo Gerbino 

Toute image est plastique

[Emmanuel Lévinas]

Il cuore ha brividi di freddo / perché nel sangue molecole di suono / temprate nell’ora di ghiaccio / vi han deposto vibrando, / il tremolio della neve.

[Enzo Mainardi]

Si ha l’impressione che l’aumento di estensibilità operata sull’immagine, lo stretching vissuto quale esercizio della misura, allo scopo di consegnare amplificazione del visibile, conduca Elena Santoro nell’oltre di un distinguibile, certamente più intimo, accidentato; un oltre pronto a restituirci ‒ partendo dalla superficie della realtà o almeno da quella porzione che il nostro occhio coglie distrattamente nella sintesi dell’istante, ‒ un esito ancor più globale. Essa orienta, in tal modo, una riflessione dell’occhio e della mente disciolta su di un’ampia pedana basculante tra decostruzione e ricostruzione, quasi un esercizio sartoriale in continua azione sul quaderno visivo.

Tale meccanica agisce nell’alveo di un dinamismo oseremmo dire molecolare, verificabile tra i poli della simmetria e della asimmetria, tra specularità e chiralità, ben votata sui bordi estremi di quei confini percepibili, in similitudine, a quella dichiarata “tensione” entomologica che un naturalista, oltre che scrittore e pensatore di vaglia quale fu Jünger, trascrive come elettivo sistema di avanzamento biologico. Una conquista differenziativa, in altri termini un’evoluzione collocata sin dal preludio del percettibile (dagli organismi agli oggetti) atta a superare l’ostacolo imposto dalla cristallizzazione e dalla stagnazione insite in ogni protratta stazione dell’esistenza.

Vi è, in un certo senso, una disposizione a saggiare i rossi mattoni del corpo, delle organizzazioni naturali, delle architetture vissute soprattutto nella loro proiezione creativa: quindi, rese sensibilmente umane affinché si concretino, in questa ricerca condotta per accenni sensitivi o per riflessi di materia miscelata a pensieri, in curiosità estetiche coinvolte nella qualità di forme altre, da non intendere aliene, in quanto trattano delle naturali piegature della vita.

Non si percorre, da parte dell’artista, un semplicistico ludico approccio alle morfologie qui accolte nel catino delle visual art, piuttosto è un ricordarci, attraverso le immagini del tessuto visivo, in che maniera Elena sia apertamente trascinata dal suo desiderio a registrare un’urgenza poetica. Tale urgenza la spinge al proprio tragitto speculativo in cui lo sguardo si depone sul vettore della scomposizione: poi, attraverso un processo di anastilosi, intende dar vita a un ‘tutto’ che arricchisca la realtà d’un valore ponderale aggiuntivo; un accumulare ogni possibilità di lettura sull’incremento di un sostrato complesso, multi-stratificato, di “realtà celate”, quasi un omaggio agli insiemi di Benoît Mandelbrot per quel suo suggestivo sapore frattalico.

Elena Santoro, Reality Texture 2; 2023.

Elena Santoro, Reality Texture 2; 2023

Ed ecco che tale realtà scomposta e ricostruita in fibrillanti tessere d’un mosaico, si accresce enormemente: è come se potessimo vedere, in simultanea, l’esito generico e indicativo di uno status della visione da cui s’è dato principio al viaggio e, in parallelo, poter toccare con la retina la plurima intersecazione di materialità espanse quasi a far uso ottico di una trasmissione microscopica. Non altro che un riavviare, da ogni singolo mattoncino, la dimensione di un novello discorso iconico, che può originarsi anche da un pixel fino ad approdare sull’altra faccia di cui è composta la natura delle cose, leggerne il loro stato più profondo magnificando la comprensibilità dell’immagine. Un cammino che, col superare l’usura di certe scontate sembianze, riconduce ancora una volta al sondaggio delle più intime rughe della pagina visiva per la quale il senso figurale può capovolgere, chiarificandolo, il dettato originario; ma anche, allo stesso tempo, in tale anatomia del vedere, poter tracciare quanto in essa vi sia d’incompreso pur nella fascinazione del divenire di un tempo-spazio scaldato in ogni nocciolo di materia, nel suo intreccio, nella stessa sinergia che le varie parti stabiliscono tra loro.

Sulla natura delle piegature e del loro svolgersi, partendo fin dalle cordonali pliche d’immagini macroscopiche, Elena Santoro scompone e dilacera svelando quel lavoro che  accompagna, una volta depurato, il senso del processo evolutivo: figure che la fotografia, essa stessa ‘atto iconico’, accoglie e maltratta per meglio conoscere, quasi a memoria dell’antico suggerimento illuministico praticato da Aristarco Scannabue (alias Giuseppe Baretti) per cui la lingua dev’esser strapazzata affinché sia compresa e assorbita in tutta la sua interezza e, soprattutto, sospinta al  mutamento. Modalità, queste, che pertengono ad ogni registro linguistico: dalla letteratura alla pittura, dalla scultura alla scrittura fotografica, la quale è parte integrante d’ogni cammino creativo e conoscitivo.

In tale procedimento, permeato dalla dilacerazione, si ottengono sub-realtà inserite le une sulle altre, come in una matrioska; tante realtà rivolte all’unicità che accolgono e comprimono impreviste luci, laminari ombre tra gli interstizi d’ogni variabile forma, pronte a sciogliersi, offrendo così una gamma di sapori e toni capaci d’illuminare l’oculare terra di mezzo fertilizzata dalle sinestesie. È un diorama ctonio, vera e propria pars inferior della foto (come in un antico palinsesto romano) a costituire uno “stroma” (termine bio-anatomico che indica un “tappeto” cellulare germinativo, cioè un attivo ambiente equilibratore di quanto su di esso si depositi). Da biologico sollecitatore di variazioni del campo strutturale, qui, sul versante visual, lo ‘stroma’ incrementa la fluidità del piano semantico.

Elena Santoro, Reality Texture 3; 2023.

Elena Santoro, Reality Texture 3; 2023

In tale impegno di ricerca si ottiene, proprio con l’indagare sul tramaglio del ricco skyline iconico, crescita e “tensione” del linguaggio fotografico valorizzando i suoi significati espressivi. Rigenerare, ri-creare e dilatare sembrano allora i termini verbali agenti come linfa creativa: un bagno multi-versatile disposto allo svelamento e al turgore della plasticità pronta a mostrare inaccessibili paesaggi. La miscela tra physis e virtualità consegna ora una bilancia in equilibrio tra ricerche lontanamente incistate in aree delle avanguardie storiche (futurismo/dadaismo) e la visual culture col suo odierno bagaglio di virtualità; per tale motivo troviamo opportuno il rimando ad Anton Giulio Bragaglia proprio per quel respiro d’aria gravida di novità nella quale (allora come oggi) si alimentava anche Alberto Bragaglia, il pictor-philosophus autore della Policromia spaziale astratta e Panplastica (1919) apparsa sul giornale diretto dal fratello Anton Giulio.  Quest’ultimo, allievo di archeologia, ma attivo nel mondo giornalistico, fu precoce amante della cinematografia e che, con l’altro dei quattro fratelli, Arturo (già sollecitatori del “Manifesto del Fotodinamismo”), accolsero la vocazione alla fotografia da cui estrarre il frutto migliore.

La catenaria d’immagini dalla Santoro sviluppata nel piatto della “Reality Texture” e che Carmelo Strano opportunamente richiama come “Realtà Aumentata”, in cui i dittici verticalisti (superior/icona narrativa; inferior/stroma), quasi in rispetto all’ordine biologico per il quale il tutto d’un corpo poggia sul multiforme aspetto (in ordine riduzionale) dal macro al micro, svela la ricchezza nascosta del paesaggio in un comune assembramento di persone (di cui non leggiamo i volti in quanto l’immagine è catturata di spalle) raccolte in un centro urbano. In tale nucleo corporeo e materiale ecco aprirsi: voragini, tessuti policromi, lamine accennate, tracce disposte in ordine geometrico, ricombinazioni dalle quali si può far ritorno al paesaggio originario, al suo tutto germinativo delle unità costitutive.

Un corpus bidimensionale in un respiro che però sollecita la tridimensionalità, la preannuncia nel momento in cui consegna nel suo ritmo d’insieme, una sonorità dai toni geologici (sensazione che ci avvicina all’obliata poesia del pittore futurista Enzo Mainardi con le sue “Molecole del suono”). Elena espande ogni cosa nel cerchio dell’immagine già oggetto di osservazioni critiche filtrabili dagli interventi di Carmelo Strano e Andrea B. Del Guercio (2023) e dal consenso di Gérard-Georges Lemaire sul prudente suo evitare ogni possibile ristagno estetico tra i modernismi.

Elena Santoro, Reality Texture 4; 2023.

Elena Santoro, Reality Texture 4; 2023.

Son queste forme stromali, a guisa di tappeti orientali, ad irradiarsi, dunque, nel fondo pupillare: lame tissutali, corpi avvoltolati elicoidalmente e pronti allo svolgimento di quel gomitolo vitale aperto a nuovi spazi dilatando insperate agibilità dello sguardo, posture di corpi in un territorio aumentato e inoltre ridimensionando e saggiando la nostra adattabilità prossemica tra reticoli e cumuli visivi, tra graticci d’altri corpi e architetture, tra dissipate pavimentazioni e accartocciamenti umani, tra punteggiature di rossi e guizzi del grigio stesi in cromie d’azzurri, tra dissolti umori di animali e cose.

C’è, comunque, un progetto sperimentale che ormai si avvia con l’avanzare del secondo decennio in cui riconosciamo i germi attivi già presenti in lavori ormai ritenuti distanti: noduli filamentosi, aggrovigliamenti fibrillari, segnalavano, infatti, di quanto il senso lirico potesse partecipare alla volontà di ricerca sperimentale e di pensiero. Un pensiero che si mostra partecipe allo scorrere del tempo come già pronunciato dalla tangibilità di certe Trasposizioni (2019) eseguite da Elena in tempi anteriori, e ad altre incontaminate icone che ritroviamo ancor più lontane (2013) nel loro continuo tremito di materie, segni precoci corredati da un loro ritmo oggi diventato più ossessivo, più consistente per una personalità creativa presaga dei futuri approcci del suo mondo rappresentativo.

In cosa consista, ci chiediamo, tutta questa aspersione dello sguardo? soltanto uno scavare nel roccioso limite della visione? o, per Elena, un insistere con la curiosità d’uno sguardo bizzarro, quanto pugnace, rivolto verso quella dimensione ludica e reale alla quale ci ha educato l’ironia pervicace di un Fabrizio Clerici?  Non sappiamo. Certo, i codici figurativi e la lingua dell’occhio che penetra tra le inquietudini e i frammenti poetici dicono comunque del suo fare, del suo essere parte carnale e spirituale del mondo, come una pianta erratica pronta a squadernare le proprie zolle fotografiche; ma, soprattutto, dicono di Elena. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).

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