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L’arte della musica nel cinema muto italiano: “Histoire d’un Pierrot”

histoire-768x937di Lucia Cassarà

Il suono del silenzio

La musica ha da sempre svolto un ruolo fondamentale nel cinema, affermandosi fin dagli esordi come un elemento imprescindibile dell’esperienza cinematografica. Dalle prime proiezioni mute, accompagnate dal vivo da pianoforti, ensemble o orchestre, fino alle moderne colonne sonore realizzate con tecnologie avanzate e nuovi sistemi di diffusione del suono, la musica ha contribuito a dare profondità emotiva, a rafforzare la narrazione e a coinvolgere lo spettatore. Questo legame, nato con l’idea di unire l’elemento visivo con quello sonoro, si è evoluto nel tempo, mantenendo intatta la sua funzione narrativa e immersiva.

Basti pensare che fin dall’esordio dei fratelli Lumière, avvenuto a Parigi il 28 dicembre del 1895, presso il Grand Café del Boulevard des Capucines, il pianista Émile Maraval ebbe il compito di improvvisare dei motivetti orecchiabili e gradevoli, dando così un suono a quelle prime immagini in movimento. 

Durante l’epoca del cinema muto, gli accompagnamenti musicali venivano, dunque, eseguiti rigorosamente dal vivo, affidati a un pianista solista, a formazioni da camera o, in alcuni casi, a intere orchestre. La musica non si limitava a intrattenere il pubblico: il suo ruolo era più specifico e funzionale, serviva a coprire il rumore del proiettore e il silenzio degli attori sullo schermo.

Il melodramma, tra i generi musicali più popolari alla fine dell’Ottocento, si inserì con naturalezza nei repertori utilizzati per l’accompagnamento delle proiezioni cinematografiche. Le sue arie più celebri, già radicate nell’immaginario collettivo, divennero parte integrante dell’esperienza visiva, contribuendo non solo a sottolineare i momenti di maggiore pathos sullo schermo, ma anche a creare un ponte tra il mondo del teatro e quello del cinema nascente.

Questa contaminazione musicale permise al pubblico di riconoscere melodie familiari, rafforzando il coinvolgimento emotivo e consolidando l’uso del repertorio lirico nel linguaggio cinematografico dell’epoca. Attingere al vasto patrimonio delle opere liriche rappresentava per i musicisti una scelta strategica e sicura. Questo genere godeva di un’ampia popolarità tra il pubblico, che lo apprezzava per la sua capacità di evocare emozioni intense e raccontare storie universali. La musica da repertorio, infatti, non solo offriva un terreno conosciuto e collaudato, ma garantiva anche un’immediata connessione con gli spettatori, che vi ritrovavano melodie e atmosfere già amate e riconosciute.
E se nei primi tempi molta libertà era lasciata al pianista nella scelta dei brani, con il passare del tempo si puntò ad avere un accompagnamento più omologato ed erano le stesse case di produzione a dare dei suggerimenti musicali ben precisi.

51n2v-memvl-_ac_uf10001000_ql80_Nei primi anni del Novecento, le pellicole non erano concepite per narrare una storia strutturata, ma si limitavano a mostrare azioni o scene di vita quotidiana. Di conseguenza, la musica veniva scelta e adattata senza particolare cura o coerenza narrativa. Con l’affermarsi dei generi cinematografici, negli anni Dieci dello scorso secolo, il ruolo della musica acquisì crescente importanza, diventando uno strumento fondamentale per sottolineare le emozioni degli attori, il cui linguaggio, limitato al gesto, trovava nel commento musicale un potente alleato espressivo.

Nel settore cinematografico emersero figure specializzate di esperti musicali, mentre nuove riviste dedicate al cinema iniziarono a includere rubriche specifiche sulla musica per film. Parallelamente, in America, le case editrici avviarono la pubblicazione di raccolte di partiture, i cosiddetti cue sheet, pensati per fornire ai musicisti riferimenti utili per le loro esecuzioni durante le proiezioni. Questi strumenti contribuirono a professionalizzare l’accompagnamento musicale alle immagini e a uniformare l’esperienza sonora nelle sale. The Moving Picture World dedicò una rubrica alla musica da film e nel corso degli anni divenne più dettagliata, arricchendosi sempre più con titoli tratti dal repertorio classico.

moving_picture_world_cover_january_4_1913La stessa rivista esortava i pianisti a far buon uso dell’accompagnamento musicale, cercando di adattare la musica allo spirito delle immagini mostrate: «Ogni emozione, ogni sentimento, ogni movimento, ogni mood illustrato sullo schermo deve essere riprodotto sul pianoforte».

Nel 1909, la Edison Company compì un significativo passo verso l’integrazione della musica nel cinema pubblicando, sul settimanale Kinetograph, una serie di suggerimenti musicali. Questo materiale comprendeva schede dettagliate con appunti sulle musiche più adatte per accompagnare specifiche pellicole, fornendo ai musicisti linee guida per migliorare l’esperienza degli spettatori.

In Italia, invece, non vi furono tali suggerimenti musicali per i musicisti ma dei fogli destinati agli spettatori simili ai programmi di sala che ritroviamo oggi nei concerti di musica classica. Nonostante la popolarità delle musiche di repertorio, non sempre esse si rivelavano adatte ad accompagnare le proiezioni cinematografiche in modo efficace. Con il rapido progresso della tecnologia e l’evoluzione delle esigenze artistiche del cinema, la situazione cambiò a partire dalla seconda metà degli anni Venti. In quel periodo, gli accompagnamenti musicali dal vivo, che fino a quel momento erano stati essenziali per l’atmosfera delle proiezioni, cominciarono a essere gradualmente sostituiti dalle incisioni fonografiche, le quali si adattavano meglio alle necessità delle sale cinematografiche e offrivano un controllo preciso sul suono, segnando l’inizio di una nuova era per l’accompagnamento musicale nel cinema. 

itala_film_torinoIl cinema muto italiano e il melodramma

La nascita del cinema in Italia avvenne con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi. Gli studiosi fissano il 1905 come l’anno di inizio del cinema muto italiano, il che implica uno scarto di ben dieci anni rispetto al 1895, anno in cui i Lumière presentarono per la prima volta il loro cinématographe. Questo ritardo riflette le difficoltà iniziali nell’adottare la nuova tecnologia e la lentezza con cui l’industria cinematografica si sviluppò nel contesto italiano.

Tra i nomi del panorama cinematografico italiano spiccavano alcune case di produzione di grande rilevanza, tra cui l’Ambrosio e l’Itala Film a Torino, la Celio Film, che si consociò con la Cines a Roma, e la Milano Films. La cinematografia italiana di quell’epoca si contraddistingueva per un forte legame con la tradizione storica e culturale del paese, come dimostrano alcuni dei titoli più celebri dell’epoca. Tra questi, La presa di Roma (1905), prodotto dalla Cines di Filoteo Alberini, Gli ultimi giorni di Pompei (1908), realizzato dalla Ambrosio, e La caduta di Troia (1910), prodotto dalla Milano Films, che rappresentavano non solo una riflessione sulla storia nazionale, ma anche una riscoperta e una celebrazione delle radici storiche e mitologiche italiane, che influenzarono fortemente la narrativa e la produzione cinematografica dell’epoca.

In questo contesto, accanto al filone storico, nella patria del bel canto, nacque il film operistico, una forma primitiva del film opera, privo di montaggio e più simile a una ripresa teatrale che a un vero e proprio film. Questo genere, caratterizzato da una struttura statica si inseriva perfettamente nella tradizione musicale italiana, offrendo una versione visiva delle opere liriche senza la complessità narrativa.

Tale genere cinematografico si era già affermato in Germania con i cosiddetti Tonbilder, girati da Oskar Messter e in Francia con le phono-scènes, girate dalla Gaumont. Tra queste ultime non mancavano arie verdiane dalle opere Ernani e I due Foscari del 1906, Otello, Il trovatore e La traviata del 1908. Di questi film è sopravvissuta una piccolissima traccia rappresentata da tre film del 1908 di produzione tedesca, tutti tratti dall’opera Rigoletto: il quartetto e il finale prodotti dalla Deutsche Bioskop e l’aria «Caro nome» prodotta dalla Deutsche Mutoskop und Biograph.

hq720In Italia a lanciare l’idea del film operistico fu il Cine-Fono-Teatro Pineschi. Nel 1908 fu proposta Il trovatore, pellicola basata sulla celebre opera di Giuseppe Verdi del 1853. L’adattamento cinematografico prevedeva una particolare sincronizzazione tra le scene e la riproduzione fonografica: a ogni attore sullo schermo corrispondeva, infatti, un cantante lirico per la registrazione sonora. Sebbene l’opera, oggi perduta, riscosse un buon successo all’epoca, la casa di produzione fu costretta a ritirarla dal mercato a causa di un contenzioso con le case editrici Ricordi e Sonzogno, pilastri dell’editoria musicale italiana di inizio Novecento. Queste rivendicarono i diritti d’autore delle opere dei loro compositori. Mentre Ricordi si mostrò da sempre contrario all’arte cinematografica, la Sonzogno tentò un’altra strada, fondando la Musical-Films con l’intento di realizzare film basati sulle opere dei suoi compositori. Tuttavia, il progetto non andò a buon fine.

La qualità dei film operistici dell’epoca era piuttosto discutibile, poiché si trattava di inquadrature fisse e azioni statiche, focalizzate principalmente sui cantanti e su piccoli movimenti gestuali.

imagesLa musica d’autore

A partire dagli anni Dieci, in Italia, i compositori iniziarono a dedicarsi alla musica per il cinema, superando progressivamente il pregiudizio che, fino ad allora, aveva prevalso tra i musicisti nei confronti della settima arte. Tra i primi a sperimentare la composizione per il grande schermo, spicca Osvaldo Brunetti, noto per il suo lavoro con orchestre da camera. Nel 1910, Brunetti compose le musiche per Lo schiavo di Cartagine, un film storico e un po’ romanzato realizzato da Roberto Omegna, Arturo Ambrosio e Luigi Maggi.

Nel 1913, Carlo Walter Graziani scrisse la partitura per Gli ultimi giorni di Pompei, un film diretto da Eleuterio Radolfi e prodotto dalla Ambrosio. Dopo questa esperienza, Graziani, convinto che il cinema avesse bisogno di musiche appositamente create per accompagnare le immagini, fondò il “cinema musicale”, una sorta di agenzia destinata alla composizione di melodie vocali e strumentali, concepite per arricchire i film. Tuttavia, questo interessante progetto non ebbe seguito, e non si registrano altre composizioni di Graziani per il cinema.

Nonostante ciò, l’iniziativa di Graziani rappresenta un segno evidente di come, in quegli anni, fosse emersa l’esigenza, sia negli ambienti cinematografici italiani che internazionali, di creare musiche in perfetta sintonia con le immagini, gettando così le basi per lo sviluppo delle colonne sonore moderne.

L’idea di adattare musiche già esistenti, presentandole come composizioni originali, rappresentava un compromesso per soddisfare i gusti di tutti gli spettatori. Questo approccio, che mescolava musica da repertorio e composizioni originali, segnò però una tappa fondamentale verso lo sviluppo della musica cinematografica. Nel 1913 Giovanni Pastrone a Torino lavorava a Cabiria come soggettista, sceneggiatore, produttore e regista; a Roma Baldassarre Negroni allestiva Histoire d’un Pierrot. Entrambi i progetti videro il coinvolgimento di due importanti figure della musica italiana: Ildebrando Pizzetti e Mario Costa.

Cabiria, considerato uno dei più grandi successi del cinema muto, fu un progetto curato nei minimi dettagli, dalla messinscena alla musica. Per questo film, furono sperimentate nuove tecniche di ripresa grazie all’operatore spagnolo Segundo de Chomón, mentre Gabriele D’Annunzio collaborò alla stesura delle celebri didascalie. Giovanni Pastrone, regista e produttore del film, si preoccupò di creare una pellicola che unisse la spettacolarità popolare con una raffinata sensibilità culturale, segnando una pietra miliare nella storia del cinema.

da Cabiria

da Cabiria

Particolare attenzione fu riservata anche alla componente musicale, tanto che ancora oggi la colonna sonora di Cabiria è considerata un capolavoro artistico. Per un film di tale portata, non si poteva ricorrere a una musica da repertorio preesistente; era necessario creare una composizione che fosse in perfetta sincronia con le immagini. L’incarico fu affidato a Ildebrando Pizzetti, che scrisse la Sinfonia del Fuoco, destinata a accompagnare la scena del sacrificio a Moloch. Tuttavia, la sinfonia non riuscì a essere perfettamente sincronizzata con la scena e venne quindi utilizzata come ouverture del film.

Il resto della colonna sonora fu scritto da Manlio Mazza, allievo di Pizzetti, che si occupò di una partitura complessiva di ben 624 pagine. Mazza prestò particolare attenzione all’aspetto estetico-musicale, cercando di evitare stacchi improvvisi che avrebbero interrotto la continuità musicale e visiva del film, mantenendo una fluida armonia tra le immagini e la musica. La sua cura per il dettaglio permise a Cabiria di elevarsi non solo come un’opera cinematografica, ma anche come un esempio di perfetta integrazione tra musica e immagini.

Pietro Mascagni, celebre compositore operistico, si confrontò con la sfida della sincronizzazione tra musica e immagini nei primi anni del cinema muto. Affascinato dalle potenzialità del nuovo medium, decise di musicare il film Rapsodia satanica di Nino Oxilia, pellicola completata nella primavera del 1915 e proiettata per la prima volta nelle sale due anni dopo. Mascagni si dedicò al suo compito con una serietà straordinaria, cercando di ottenere una sincronia perfetta tra la sua musica e le immagini sullo schermo. Il compositore raccontava di come, per riuscire nell’impresa, dovesse prendere appunti minuziosi, indicando anche la durata in secondi di ogni singola scena. «Un lavoro terribile, scriveva alla moglie, perché devo segnare fino al millesimo di secondo, altrimenti non posso dare il giusto sentimento alla musica». Per ottenere un risultato soddisfacente, la proiezione doveva essere ripetuta centinaia di volte, annotando ogni cambiamento di scena per allineare la musica in modo preciso.

rapsodia-satanica-1917-bisSpesso, i temi musicali venivano sviluppati, modificati, tagliati o allungati per farli coincidere con le immagini in modo ottimale. Mascagni fu il primo a mettere a punto un metodo che in seguito sarebbe stato adottato da altri compositori di musica per il cinema. La sincronizzazione a quell’epoca, però, non era ancora effettuata con la precisione che sarebbe stata raggiunta negli anni successivi. La durata media dei brani musicali era di circa tre minuti, e questo portava spesso a situazioni in cui un singolo brano copriva più scene, a differenza dei cue sheets statunitensi, che prevedevano un brano diverso per ogni cambio di scena, con una durata media di un minuto. Questo approccio non solo evidenziava la differenza di stili nella composizione per film, ma anche le difficoltà tecniche e artistiche nel cercare di unire la musica alla narrazione cinematografica in modo fluido e armonioso. 

Un caso di film: Histoire d’un Pierrot

Nel 1913, a Roma, il conte Baldassare Negroni avviò le riprese del film Histoire d’un Pierrot nello stabilimento della Celio Film, per la casa di produzione Italica Ars. Il film era un adattamento cinematografico della pantomima musicale Histoire d’un Pierrot di Fernand Beisser, realizzata nel 1892, e fu musicato dal compositore italiano Mario Costa.

Negroni, noto per i cortometraggi con Celio Film, puntò a creare un capolavoro con Histoire d’un Pierrot. La musica di Costa, ispirata alla pantomima, fu essenziale per esaltare la natura visiva del film, in un’epoca in cui il cinema muto esprimeva emozioni senza parole. Francesca Bertini raccontò, a distanza di tempo, l’emozione che ebbe Costa quando gli fu data notizia dell’avvio del progetto cinematografico.

da "Il romanzo di Pierrot"

da “Il romanzo di Pierrot”

Il progetto filmico si poneva come una sfida in quanto già prima del conte Negroni anche altri avevano tentato l’adattamento della pantomima di Beissier, ma il film non aveva mai raggiunto le sale cinematografiche. Si trattava di una pellicola realizzata nel 1906 dalla casa di produzione Alberini&Santoni, interpretata da Mario Caserini e le sorelle Visconti. Al film fu dato il titolo Il romanzo di un Pierrot, ma fu un lavoro pionieristico che si imbatté in difficoltà di vario genere: la mancanza di un personale tecnico, di un direttore artistico, di attori abituati alle riprese filmiche. 

Anni dopo, la Celio Film accettò la proposta di Negroni di portare sulla scena cinematografica la pantomima di Beissier, considerandola un’operazione commerciale sia vantaggiosa che prestigiosa. La trama drammatica, con sfumature umoristiche tipiche della Belle Époque, si adattava perfettamente ai gusti dell’epoca. La musica di Mario Costa, coinvolgente e suggestiva, venne perfezionata per l’occasione, con alcuni adattamenti necessari per estendere certe scene, l’aggiunta di un entr’acte e l’introduzione di nuovi strumenti.

La buona riuscita del film dipendeva molto dalla scelta degli attori e Negroni preferì scegliere personaggi che vantavano una certa esperienza in questo campo e con cui lui stesso aveva già lavorato. Per il ruolo di Pierrot scelse Francesca Bertini. La scelta di un’attrice per un ruolo maschile apparve sin dall’inizio come singolare e piuttosto moderna. In teatro si era avvezzi a vedere attori che impersonavano personaggi femminili, ma un cambio del gioco delle parti era una cosa del tutto nuova.

Bertini accettò il ruolo maschile, forse divertita dalla novità e grazie a trucco e costume si rese poco riconoscibile, rinunciando al fascino che la contraddistingueva. Il travestimento venne visto anche come trasgressivo per l’epoca: un gesto che non sarebbe passato inosservato e che avrebbe dimostrato la versatilità dell’interpretazione dell’artista. L’attrice, però, non volle rinunciare a una comparsa in tutto il suo splendore. I primi fotogrammi del film mostrano l’attrice abbigliata con i suoi sfarzosi abiti femminili e adagiato su una sedia accanto a lei vi è l’abito di Pierrot.

Questa scena è un coup de théâtre della Bertini la quale volle simboleggiare in quei brevi fotogrammi proprio questo passaggio dalla realtà alla finzione. Per il ruolo di Pochinet venne scelto Emilio Ghione. Il suggerimento venne proprio da Francesca Bertini, compagna di scena in varie pellicole dirette dallo stesso Negroni. Nell’ambito del cinema muto Ghione affiancò all’attività di attore anche quella di regista; dell’Histoire d’un Pierrot, apprezzò molto l’idea di far parte del gruppo degli attori di questo film che come lui stesso ebbe a dire «quasi un film sonoro prima del sonoro».

Pare che le ultime scene del film siano state girate direttamente da Ghione, a causa di dissapori tra Negroni e i dirigenti della Celio Film, che portarono all’allontanamento del regista dalla casa di produzione. Il 15 gennaio 1914, su invito del presidente barone Irolli di Robbiata, Negroni si trasferì alla Milano Film, segnando un nuovo capitolo della sua carriera.

Leda Gys

Leda Gys

Per il ruolo della sartina Louisette, protagonista femminile di Histoire d’un Pierrot, venne scelta Leda Gys, al secolo Giselda Lombardo, una giovane attrice ventenne che si era da poco affacciata al mondo del cinema. La sua carriera ebbe una svolta grazie al poeta Trilussa, che non solo anagrammò il suo nome dandole quello che sarebbe diventato il suo pseudonimo artistico, ma la introdusse anche alla Celio Film. Dopo alcune comparsate, Leda venne scelta per il ruolo di Louisette, che segnò il suo trampolino di lancio. Negli anni successivi, la sua popolarità la portò a collaborare con importanti case di produzione come Caserini Film, Polifilms e Lombardo Film.

Nel ruolo di Fifine, venne invece scritturata Elvira Radaelli e per Julot fu scritturato Amedeo Ciaffi. Con il cast ormai definito, le riprese del film ebbero inizio, affidandosi alla competenza di Giorgio Ricci come operatore. La prima presentazione ufficiale del film si tenne l’11 febbraio 1914 al Teatro Argentina di Roma, seguita poco dopo da una proiezione al Teatro Lirico di Milano, due luoghi emblematici per il cinema e il teatro italiani.

Un ruolo cruciale fu svolto da Mario Costa, che curò meticolosamente la partitura orchestrale. Nella versione per pianoforte, Costa incluse dettagliate indicazioni di metronomo e precise note sincroniche per accompagnare l’azione cinematografica. Le partiture orchestrali, invece, riportavano richiami numerici collegati alla partitura per pianoforte, garantendo una perfetta coesione tra le diverse sezioni musicali. Questa attenzione al dettaglio contribuì a fare della colonna sonora un elemento fondamentale per il successo del film.

A Roma, l’accompagnamento fu eseguito in diretta da un’orchestra di circa ottanta elementi diretti dallo stesso Costa. Francesca Bertini, che assistette alla prima al teatro Argentina, mantenne vivo il ricordo di quella memorabile serata; anni dopo ne raccontava l’emozione provata da lei e Leda Gys nel vedere la platea così gremita. Rammentava le parole del maestro Costa che si complimentava per la sua interpretazione definendola «il miglior Pierrot che avesse mai avuto», riferendosi ai vari attori che si erano susseguiti nell’interpretazioni della pantomima, e ancora aggiungendo come si presentasse moderna, commovente ed espressiva.

hpSceneggiatura e commento musicale alle immagini

La partitura di Mario Costa per il film si apre con accordi incisivi che catturano l’attenzione, seguiti da una melodia all’unisono in re minore. Dopo un colpo di piatti, il tema si fa giocoso con fiati, triangolo, campanelli e archi che accompagnano. Sullo schermo appare Francesca Bertini, che osserva il costume di Pierrot, mentre la musica si fa sognante con archi in crescendo.

Louisette, interpretata da Leda Gys, entra in scena accompagnata da un dialogo musicale tra archi e fiati, arricchito da glissandi di arpa e colpi di triangolo. La successiva inquadratura, ambientata nella stanza della sarta, mostra dettagli curati come una gabbia per piccioni, un camino con specchio e un tavolo pieno di nastri e cappelli. Louisette accarezza un gatto, si occupa dei piccioni e si siede al tavolo, mentre l’orchestra accompagna i suoi movimenti con una danza leggera.

In un esterno, Pierrot suona il mandolino, evocando una serenata napoletana. Louisette, attratta dalla melodia, manda un bacio dalla finestra, mentre Pierrot continua a suonare. La scena successiva vede Julot comparire nella stanza di Louisette con dei fiori, ma viene accolto con uno schiaffo, reso musicalmente da un glissando di arpa. I due iniziano un dialogo, mentre Pierrot, all’esterno, acquista un mazzo di fiori. La musica segue ogni scena con precisione, enfatizzando i momenti chiave.

La scena si apre nella camera di Louisette, dove lei e Julot parlano seduti al tavolo. Julot tenta di sedurla, ma la musica, con flauto e oboe, esprime la voce esitante della ragazza, mentre il tremolo di violoncelli e contrabbassi riflette l’ira crescente di Julot. Louisette si alza per sfuggire a un nuovo tentativo di abbraccio, ma quando Julot si avvicina alla porta, entra Pierrot, sorpreso e deluso nel trovarlo lì. Louisette e Julot escono insieme, lasciando Pierrot sconfortato, emozione accentuata dalla musica malinconica.

All’esterno, la coppia scende le scale, mentre Pierrot, dopo un momento di esitazione, li osserva dalla porta prima di richiuderla sconsolato. Tornato nella stanza, Pierrot, visibilmente triste, butta il cappello su una sedia, mette i suoi fiori in un vaso e getta dal balcone il mazzo di Julot dopo essersi punto con una spina. Un tema drammatico, prima affidato al fagotto e poi agli archi, accompagna i suoi movimenti, chiudendosi con gli arpeggi dell’arpa mentre Pierrot, sognante e malinconico, si siede.

Pochinet entra con un’andatura vivace, in contrasto con l’umore cupo di Pierrot, e consegna una lettera. Mentre Pierrot racconta disperato l’accaduto, Pochinet cerca di risollevarlo, suggerendo del liquore come rimedio, ma Pierrot rifiuta e scoppia in lacrime. Dopo averlo consolato, Pochinet lo spinge a scrivere una lettera d’amore per Louisette, ma critica le sue parole, giudicandole poco convincenti.

Il compositore Costa traduce il dialogo in musica, con acuti per le affermazioni e staccati dei fiati gravi per le negazioni, arricchiti da percussioni. Infine, Pochinet convince Pierrot a provare una dichiarazione d’amore, mimandola davanti a un busto di legno che rappresenta Louisette, accompagnati da una musica danzante che segue i loro movimenti. Louisette entra con una scatola, scambia uno sguardo con un intimorito Pierrot e, infastidita, si ritira in camera. La musica esprime l’incertezza di Pierrot, ma quando Louisette torna l’accompagnamento diventa una danza gioiosa, i due dialogano e si baciano. Simulano un matrimonio con un busto come sacerdote, accompagnati da una melodia liturgica. L’atto si conclude con il ritorno di Pochinet e una festosa danza orchestrale.

Il secondo atto si apre in un vivace Luna Park, animato da una folla festante. La musica, con tamburelli, piatti e triangolo, accompagna l’allegria della scena mentre i due protagonisti scendono da una giostra in movimento. Di notte, l’atmosfera cambia: Julot saluta Pierrot che entra in casa di fretta. La musica, da incalzante, diventa lenta e malinconica, con il flauto protagonista e gli archi a sottolineare la mestizia. Intanto, in una camera al pianterreno, Louisette attende Pierrot mentre cuce. Sono le sei del mattino, e la ragazza, stanca e delusa, accetta una tazza e del pane da Pochinet prima di addormentarsi. Fuori, Pierrot canta mentre il campanile segna l’alba, scandita in musica dalle percussioni.

Pierrot entra in casa cercando di non svegliare Louisette, ma il rumore di una sedia la desta. Un colpo di timpani accompagna il momento, seguito da una scena di gelosia: Pierrot si inginocchia per chiedere perdono e Louisette, sorridendo, gli mostra una cuffietta e un salvadanaio pieno di monete. La musica, vivace e ritmata, accompagna la scena con campanelli e ottavino. Poco dopo, una vicina passa a prendere Louisette per andare alla stireria, lasciando Pierrot solo in casa. All’alba, Pierrot, pensieroso, osserva dalla finestra e libera un piccione, il cui volo è reso con scale ascendenti dell’ottavino. Fuori, nel cortile, Julot arriva con un gruppo di ragazzi cantando, mentre un valzer in sei ottavi arricchisce l’atmosfera. Intanto, Louisette lavora alla stireria, in contrasto con le giovani che danzano spensierate all’esterno. Julot va da Pierrot e lo convince a seguirlo. La scena si chiude con Julot che presenta Pierrot a Fifine, e i tre si dirigono verso casa di Pierrot, mentre il valzer viennese continua a fare da sottofondo.

75246Nel secondo atto, Pierrot e Fifine ballano nel cortile, osservati da Julot che li segue con un ghigno. Non riuscendo ad abbracciarla, Pierrot le prende la mano e si unisce a un gruppo di giovani danzanti. La scena si anima con coppie che ballano, ma l’allegria è interrotta da Pochinet, che li scaccia con una scopa. Nella stanza di Pierrot, Julot lo invita a giocare a carte. Pochinet sorprende Pierrot abbracciare Fifine e lo rimprovera, mentre la musica, vivace e frenetica, accompagna il momento. Julot convince Pierrot a tentare la fortuna per racimolare il denaro necessario a fuggire con Fifine, ma Pierrot si rifiuta di usare il salvadanaio. La scena si sposta in un’osteria, dove il lancio delle carte è scandito dallo xilofono. Pierrot vince, ma rigioca e perde, cadendo nella disperazione. La musica accelera, riflettendo la tensione, prima di tornare al valzer, mentre Louisette è mostrata al lavoro. 

Nel frattempo, Julot spinge Pierrot a rompere il salvadanaio. Inizialmente riluttante, Pierrot cede quando Fifine entra nella stanza. I due fuggono insieme, mentre Julot si gode la sua vendetta. Pochinet, ignaro, dorme. Louisette, tornata a casa, scopre la fuga e affronta Julot, che tenta di rapirla. Pochinet interviene e Julot viene cacciato. La scena si chiude con Louisette in lacrime e il tema principale suonato dai violini, mentre il sipario cala.

Un mandolino riprende il tema di Pierrot, accompagnato dagli archi e dai fiati, che chiude il secondo atto. La terza parte si apre con una didascalia: “Sei anni dopo.” Una nuova melodia saltellante, influenzata dalla canzone napoletana, introduce l’inquadratura di una fontana e della casa di Louisette. Pochinet, intento a diluire vino con acqua, entra nell’osteria dove riempie bottiglie con il miscuglio. La musica scherzosa sottolinea la furbizia del personaggio.

Pierrot, accompagnato dal tema in tonalità minore, vaga mesto chiedendo l’elemosina senza successo. All’osteria suona una melodia malinconica al mandolino, ma viene cacciato dai clienti. All’esterno, si inginocchia in preghiera e si addormenta su una panchina, immerso nella desolazione. In contrasto, Louisette è in casa con il figlio, che fa colazione vestito da Pierrot. Dopo aver giocato con una palla, il bambino esce con la madre, mentre ritorna il secondo tema musicale del primo atto.

s-l400La scena si sposta al parco, dove un bambino, giocando con la palla, si avvicina a Pierrot, riconoscendolo dagli abiti. Pierrot, una volta svegliato, abbraccia il bambino e segue lui e la madre fino alla chiesa. Le campane, integrate nella partitura di Costa, riprendono il tema con le acciaccature dell’oboe. Rimasto solo all’esterno, Pierrot è sopraffatto dalla tristezza, e il tema dello sconforto, già introdotto nel primo atto, riaffiora. Successivamente, davanti all’osteria, Pierrot cade svenuto sul marciapiede. Pochinette lo riconosce e lo accoglie nella sua osteria, dove Pierrot si rifocilla mentre ascolta racconti su Louisette. I due escono insieme.

La narrazione si sposta nella casa di Louisette, davanti alla gabbia dei piccioni. Pochinette suggerisce a Pierrot di chiedere perdono e gli racconta la storia di due piccioni, uno dei quali, dopo essere fuggito, tornò ferito e fu perdonato. Questo racconto viene accompagnato musicalmente dai trilli del fagotto, xilofono e triangolo, culminando in un nuovo tema orchestrale. In strada, Louisette e il figlio incontrano Pochinette e rientrano insieme in casa. L’amico parla a Louisette mentre il bambino gioca, poi esce di corsa e ritorna con Pierrot. Nell’ultima scena, Pierrot si inginocchia chiedendo perdono. Louisette inizialmente rifiuta, ma quando il figlio unisce le mani dei genitori, lei cede. Pochinette, commosso, piange di gioia. La musica chiude con una variazione del tema del mandolino, affidato all’intera orchestra, arricchita da percussioni e campane, evocando un giorno di festa.

Il film ottenne un buon successo di pubblico, ma suscitò pareri contrastanti tra i critici. Mentre alcuni apprezzarono le innovazioni tecniche e narrative, oltre alla recitazione espressiva di Francesca Bertini e ai gesti decisi di Ghione, altri, come Alfredo Centofanti ed Enrico Bernstein, attribuirono il merito del successo esclusivamente alla musica di Mario Costa, criticando la monotonia dell’ambientazione e della recitazione.

La stampa torinese elogiò l’armonia delle luci e la grazia delle azioni, mentre Umberto Barbaro ne riconobbe la maturità tecnica e l’innovazione recitativa, pur senza considerarla un’opera d’arte. Gian Piero Brunetta definì il film un esempio di “cinema cantato”, lodandone la cura nella messa in scena e la raffinatezza della gestualità, che conferiscono eleganza all’opera. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Tootell George, How to Play the Cinema Organ, W. Paxton, Londra, 1927 

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Lucia Cassarà è pianista e scrittrice, appassionata di musica classica e cinema. Laureata con lode in Pianoforte presso il Conservatorio di Palermo, ha approfondito il rapporto tra musica e immagine con una Laurea Magistrale in Cinema all’Università di Bologna. Ha collaborato con la Cineteca di Bologna e pubblicato il saggio Mozart, Disney & Co. (2023), promuovendo conferenze-concerto. Si è esibita in festival, rassegne e iniziative culturali, esplorando repertori classici e minimalisti, e ha composto musiche originali per cinema e teatro.

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