Stampa Articolo

Perché la torsione militare della democrazia israeliana ci coinvolge tutti

keystone, elaborazione RSI

keystone, elaborazione RSI

di Giuseppe Savagnone 

La svolta del 7 ottobre

Una vicenda regionale, che per decenni era rimasta pressoché sommersa – per emergere solo a sprazzi, ma sempre temporaneamente, in occasione di ogni nuova crisi, a sua volta presto dimenticata –, si è trasformata in un dramma di portata storica, in cui è rimesso in discussione non soltanto il carattere democratico dello Stato che ne è protagonista – Israele –, ma il senso stesso del concetto di “democrazia” e il diritto delle democrazie occidentali di fregiarsi di questo titolo.

Da questo punto di vista, il 7 ottobre 2023 è una data che segna uno spartiacque non solo nella storia travagliata del rapporto tra ebrei e palestinesi, ma anche in quella mondiale. E non per quello che è accaduto quel giorno, che non costituisce un’assoluta novità, bensì per ciò che ha significato e prodotto.

In realtà, contrariamente a quanto oggi spesso si sente ripetere, l’attacco di Hamas non è stato il punto di partenza di questa storia, e neppure “la madre di tutte le violenze”. La terra palestinese di tragedie ne aveva viste parecchie e non meno gravi. Perché, per quanto atroce sia stata l’aggressione nei confronti dei 1.400 israeliani uccisi o rapiti, essa non può far dimenticare quella esercitata da Israele – all’atto della sua costituzione come Stato, nel 1948 – con la cosiddetta Nakba (in arabo, “catastrofe”), l’espulsione dalle loro terre e dalle loro case di 700 mila palestinesi. Un fatto ostinatamente negato dalle fonti ufficiali israeliane, che fino ad oggi insistono a parlare di una emigrazione “volontaria”, ma, con varie sfumature, sostanzialmente riconosciuto da tutti gli storici (anche se qualcuno, come Benny Morris, ritiene che solo una parte, comunque molto consistente, dei palestinesi siano stati costretti a lasciare le loro terre e le loro case direttamente dall’esercito israeliano).

Né si possono dimenticare, sul fronte opposto, i numerosi attentati terroristici contro inermi civili da parte di gruppi armati, come l’OLP e lo stesso Hamas, il cui fine dichiarato era l’annientamento dello Stato ebraico (solo nel 1998 l’OLP ha rinunciato a questo obiettivo, Hamas non lo ha mai fatto).

Ma tutto questo, fino al 7 ottobre 2023, era rimasto sepolto nei libri o nelle pagine dei giornali d’epoca e nessuno ne parlava più. Ormai anche il Paese arabo più rappresentativo, l’Arabia Saudita, aveva abbandonato – come già l’Egitto, la Giordania, gli Emirati Arabi – la tradizionale ostilità nei confronti di Israele, anzi era sul punto di aderire al cosiddetto “patto di Abramo”, fortemente voluto dagli Stati Uniti, che avrebbe realizzato con lo Stato ebraico una intesa in cui si sapeva già che i diritti dei palestinesi sarebbero stati menzionati molto marginalmente.

L’incursione spettacolare e volutamente disumana di Hamas è stata fatta, non a caso, alla vigilia di questa svolta, che avrebbe chiuso ogni prospettiva di un futuro Stato palestinese. Ma non tanto, ovviamente, contando sul suo effetto militare, in sé del tutto irrilevante, quanto per quello psicologico. I terroristi volevano provocare una reazione che, per la sua violenza, riaprisse la distanza tra Israele e il mondo arabo e riportasse alla ribalta internazionale la causa palestinese.

E ci sono riusciti. È del novembre scorso la dichiarazione solenne del principe saudita Salman in cui condanna duramente il «genocidio» di Gaza e ribadisce che l’Arabia Saudita non aderirà al patto di Abramo se l’esercito israeliano non abbandonerà la Striscia, dando spazio alla costituzione dello Stato palestinese. La trappola di Hamas ha funzionato. Anche troppo, perché i capi del gruppo terroristico avevano sicuramente e cinicamente messo in conto l’alto costo che la risposta israeliana avrebbe comportato, tra i palestinesi, in termini di vite umane innocenti e di devastazioni, ma probabilmente non avevano previsto l’apocalisse che si è verificata e che è costata a loro stessi la vita.

Peraltro, ai calcoli di Hamas la dirigenza di Tel Aviv ha contrapposto i suoi, approfittando della tragedia di cui Israele era stato vittima per operare quella che in termini tecnici si chiama “pulizia etnica”, cacciando dalla zona di Gaza Nord – con incessanti bombardamenti che hanno ucciso 45 mila civili, di cui il 70% donne e bambini, e con un embargo sui generi di prima necessità – le centinaia di migliaia di palestinesi che vi abitavano.

La motivazione ufficiale era ovviamente la caccia ai terroristi, ma tutti gli osservatori indipendenti hanno parlato di un’azione volta a costringere la popolazione a fuggire al sud. L’operazione è stata completata distruggendo poi intenzionalmente e sistematicamente – secondo il resoconto degli inviati del giornale israeliano Haretz – tutte le abitazioni e le infrastrutture civili che potrebbero consentire alla gente di ritornare alla propria terra.

In corrispondenza a questa espulsione – che anche in questo caso gli israeliani definiscono una migrazione “volontaria” (come ai tempi della Nakba) – gli ebrei ultra-ortodossi stanno incitando i coloni a prepararsi a occupare, dopo le terre strappate ai palestinesi della West Bank (Cisgiordania), anche quelle di Gaza, ricordando che le une e le altre fanno parte della “terra promessa” direttamente da Dio al suo popolo eletto tremila anni fa.

Netanyahu e Gallant

Netanyahu e Gallant

Una situazione surreale

Di fronte a tutto questo i governi occidentali  – dopo un’iniziale piena giustificazione delle operazioni militari dell’esercito di Tel Aviv, all’insegna del motto «Israele ha il diritto di difendersi» – hanno dovuto prendere atto della sproporzione di questa reazione e – anche perché pressati dall’opinione pubblica dei loro rispettivi Paesi  – si sono più volte detti «preoccupati» e «dispiaciuti» del numero delle vittime civili e hanno moltiplicato le raccomandazioni al governo israeliano di garantire sempre il diritto internazionale e quelli delle persone.

Chiudendo così gli occhi sul fato evidente che questi diritti, stando alle quotidiane cronache dei media e ai rapporti di tutte le organizzazioni umanitarie internazionali, sono stati da tempo ampiamente violati e continuano ad esserlo, in spregio a tutte le assicurazioni contrarie di Netaniahiu.

Così – per limitarci all’Italia –, quando nel luglio scorso il presidente israeliano Herzog è venuto in visita a Roma, la nostra premier ha rinnovato la sua solidarietà per la tragedia del 7 ottobre e la ferma condanna di Hamas, ma, per quanto riguarda i palestinesi, si è limitata a esprimere la sua «forte preoccupazione per la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza», senza neppure un cenno alle responsabilità di Israele.

E, quando la Corte penale internazionale dell’Aja, dopo molti mesi di accurate indagini, ha deciso di emettere un mandato di arresto, sia nei confronti del capo militare di Hamas che del primo ministro israeliano Benjamin Netaniahu e del ministro della guerra Ioav Gallant, «per crimini di guerra e crimini contro l’umanità» – aggirando con questa formula l’elegante disputa filologica se si possa o no parlare di “genocidio” –, la risposta della maggior parte dei governi europei, che pure avevano aderito al trattato costitutivo della Corte, riconoscendone la giurisdizione, è stata un netto rifiuto di accettare la sentenza.

In testa il leader ungherese Orbán, che ha reagito addirittura invitando Netaniahu a Budapest. Più impressionanti, però, sono state le reazioni di quelle democrazie occidentali che da due anni e mezzo, in nome del diritto internazionale e dei diritti umani, si battono strenuamente per sostenere l’Ucraina. A cominciare da quello italiano: «Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza» ha commentato la nostra presidente del Consiglio. «Motivazioni», ha tenuto ad aggiungere, «che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica». Dove è stata chiara l’insinuazione che la sentenza dell’Aja sia stata motivata da ragioni politiche, come sono, secondo il nostro governo, quelle dei giudici italiani sui migranti. In ogni caso – ha assicurato la nostra premier – «un punto resta fermo per questo governo: non ci può essere una equivalenza tra le responsabilità dello Stato di Israele e l’organizzazione terroristica Hamas». Ignorando il fatto che la Corte ha dato un giudizio non sui soggetti che hanno messo in atto i comportamenti condannati, bensì sul loro carattere criminoso.

Ma ancora più esplicita in difesa di Israele è stata la successiva dichiarazione congiunta dei ministri degli Esteri di Germania, Francia e Regno Unito, in cui si afferma che non vi è alcuna giustificazione per cui la Corte penale internazionale debba adottare misure contro i leader israeliani e si esprime preoccupazione per le implicazioni della sentenza sulla stabilità regionale.

La Francia, peraltro, aveva già fatto sapere, con un comunicato del ministero degli Esteri, che, secondo Parigi, Netanyahu – in quanto capo del governo di un Paese non firmatario del trattato istitutivo della Corte penale – gode in ogni caso di immunità. Interpretazione discutibile, e che comunque, stranamente, non è stata mai avanzata quando si è trattato del mandato di arresto contro Putin, anche lui capo di uno Stato che non ha firmato quel trattato.

Agli occhi chiusi dei governi democratici occidentali sui «crimini di guerra e contro l’umanità» di Israele ha fatto riscontro, dal 7 ottobre ad oggi, il loro sostegno militare allo Stato ebraico. Anche l’Italia ha continuato a fornire armi all’esercito di Tel Aviv, pur in misura molto inferiore alle forniture date dagli Stati Uniti, a cui, secondo indagini del «New York Times» e della CNN, si deve la maggior parte delle bombe ad alto potenziale sganciate sulle case di Gaza. Per non parlare del sostegno politico: tutti a parole caldeggiano il progetto dei due Stati, ma in questi mesi solo la Spagna, l’Irlanda e la Slovenia hanno riconosciuto lo Stato palestinese, sfidando le ire di Netaniahu.

Si è creata, così, una situazione surreale, paragonabile solo al negazionismo di chi contesta la realtà storica della Shoah, con la differenza che in quel caso si nega l’evidenza di un fatto accaduto nel passato, anche se attestato da testimonianze irrefutabili, mentre qui si fa finta che non esista una tragedia che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Avallando così le esplicite negazioni di Netaniahu, che non perde occasione per smentire drasticamente le notizie sulle stragi di Gaza, attribuendole ad un rigurgito di «antisemitismo». Anche se, proprio ultimamente, a confermarle pienamente è stato un ebreo israeliano di spicco, l’ex ministro della Difesa Moshe Yaalon, che ha accusato esplicitamente il governo di Tel Aviv di «occupare, annettere e fare pulizia etnica» nella zona Nord di Gaza. Riferendosi a cittadine palestinesi di quel territorio, Yaalon ha detto: «Beit Lahia non c’è più. Beit Hanoun non c’è più. Ora stanno operando a Jabalia. Stanno di fatto ripulendo il territorio dagli arabi». Come era accaduto nel 1948 e come sta accadendo nella West Bank.

Noemi Di Segni

Noemi Di Segni

E gli ebrei della diaspora?

Come ha reagito, al 7 ottobre e a ciò che ne è seguito, il mondo ebraico al di fuori dei confini di Israele, quelli che rimangono gli ebrei “della diaspora”? Pur con delle significative eccezioni, si sono allineati senza riserve alle scelte del governo di Netaniahu, facendo propria l’equazione tra antisionismo e antisemitismo. Emblematica la lettera pubblicata da Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei), a un mese dal trauma del 7 ottobre: «Non abbiamo ancora trovato un nome univoco per far comprendere l’orrore che si è abbattuto su tutto il popolo ebraico», ha scritto la Di Segni. «Il 7 mattina è cambiato il nostro destino, è cambiato il mondo, e nulla può tornare come prima».

Impressionava, nella lettera, vedere ripetuta l’accusa – più volte rivolta al mondo civile e religioso anche dal governo israeliano, e assolutamente ingiusta – di non avere mai condannato l’attacco di Hamas: «Silenzio dell’Onu per le sevizie contro bambini e neonati, violenze e torture sulle donne, rapimento di civili e la lista è lunga. Silenzio della Croce Rossa che non lamenta o non prova a visitare ed accertare la situazione degli ostaggi. Silenzio di tutte le Ong di difesa dei diritti umani per quanto avvenuto il 7 ottobre e per quanto sta accadendo in questi giorni in molte nostre comunità in tutto il mondo. In parallelo al silenzio assordante, ci sono gli slogan urlati da chi difende in modo superficiale e demagogico il popolo palestinese e attacca gli interventi di difesa dell’esercito israeliano». Seguiva una accorata difesa di Israele, «un Paese che agisce secondo morale e non si è sottratto alle norme internazionali». Infine, l’identificazione tra gli atteggiamenti critici verso questi «interventi di difesa» dello Stato ebraico e l’antisemitismo: «L’antisemitismo è tutto questo. Non è mai sopito e si è presentato in questi trenta giorni con il volto del terrorismo radicale e l’abbraccio europeo dell’ignoranza e l’ottusità dilagante».

Non è mancata una critica alla posizione della Chiesa cattolica. In un altro intervento, la stessa Di Segni si è rivolta a papa Francesco – che aveva espresso il suo dolore per le vittime dell’una e dell’altra parte – chiedendogli di «non mettere tutti sullo stesso piano», perché «lequidistanza e lequivicinanza non aiutano a cogliere il vero problema». Riprendendo così la dura nota in cui il Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia accusava Bergoglio di aver fatto seguire al suo incontro con i parenti degli ostaggi rapiti da Hamas quello con i parenti di palestinesi prigionieri in Israele e di avere «pubblicamente accusato entrambe le parti di terrorismo». Col risultato che, «in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito».

La posta in gioco, secondo i rabbini, non è solo politica, ma religiosa. A che cosa sono serviti, si chiedevano nel loro documento, «decenni di dialogo ebraico-cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminare gli ebrei, invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa»?

IL SUICIDIO DI ISRAELELe trasformazioni del sionismo

A fronte di questo tipo di risposta, si registrano, anche se più rare, delle voci alternative provenienti dal mondo ebraico. Significativo è, da questo punto di vista, il recente libro di una seria studiosa ebrea, Anna Foa, intitolato Il suicidio di Israele (Laterza, 2024).

Fin dall’inizio, l’autrice mette a fuoco quello che per un ebreo è decisivo, in questa crisi, al di là delle polemiche contingenti: «Quando e se le armi smetteranno infine di sparare, dovremo (…) ripensare il nostro rapporto (…) con la nostra stessa identità ebraica e con il suo modo di rapportarsi al mondo».

E dà il suo contributo cercando di ricostruire, alla luce della storia, il rapporto tra l’ebraismo e il sionismo, chiarendo subito che quest’ultimo – nato peraltro solo alla fine dell’Ottocento a fronte alla millenaria tradizione ebraica – «propone un progetto politico, quello statale, che non fa parte e non ha mai fatto parte della costruzione teorica e filosofica del mondo ebraico fino a quella data». Anzi si pone addirittura in una relazione tendenzialmente conflittuale con questo mondo, perché «vuole creare un ebraismo nuovo, cancellare i venti secoli della diaspora, interpretati come oppressione e servitù».

Peraltro, osserva la Foa, «sarebbe più appropriato parlare al plurale, non di sionismo ma di sionismi». Questo appare chiaro già all’inizio, guardando la diversità di proposte che i primi autori sionisti hanno fatto riguardo al luogo dove impiantare lo Stato ebraico, dall’Argentina all’Uganda, fino a puntare, alla fine, sulla Palestina, la terra degli avi. Il problema era che «la Palestina era già abitata. E infatti, secondo i dati più accertati, i suoi abitanti erano, a metà Ottocento, cica 4000.000, oltre il 90% dei quali musulmani». Lo slogan ricorrente: «Un popolo senza terra per una terra senza popolo», era falso e i sionisti lo sapevano bene. Come era falso che le terre non fossero coltivate.

Tuttavia era ancora possibile, in questa fase, sperare in una convivenza pacifica e costruttiva. Nel 1925 un gruppo di personalità ebraiche, fra cui Martin Buber e Gershom Sholem, sostenuti anche da Albert Einstein, fondava il movimento “Patto per la pace”, auspicando la creazione di uno Stato binazionale ebraico ed arabo. Presto però l’inconciliabilità di due culture – quella ebraica era comunque formata sul modello occidentale –, prima ancora che degli interessi materiali, emerse con chiarezza. Le sanguinose rivolte antiebraiche del 1921 e del 1929 segnarono la svolta, dovuta in gran parte allo scontro con la visione moderna del mondo che i nuovi immigrati sionisti portavano, forse con troppa sicurezza, in un ambiente che non la capiva e non la condivideva. La reazione dei nativi fu aspra. Al punto che il Gran Muftì di Gerusalemme, capo spirituale della comunità musulmana della Palestina, dopo il 1933 si avvicinò a Hitler, con cui si alleò durante la guerra. E nel 1936 promosse un’altra rivolta anti-ebraica.

La versione “dialogica” del sionismo perdeva credibilità. Nel 1942, nella dichiarazione di Biltmore, i dirigenti sionisti indicavano come obiettivo non più uno Stato in cui ebrei e arabi potessero convivere, ma semplicemente uno Stato ebraico. Ma a cancellare definitivamente la prospettiva dello Stato binazionale è stata la guerra del 1948 che, nota l’autrice, ha portato alla trasformazione del sionismo da progetto volto a dare agli ebrei una patria, in una impresa «di tipo coloniale». Decisiva fu la Nakba, che, come lei ribadisce, vide «l’espulsione dalle loro terre e dalle loro case di oltre 700 mila profughi».

Un particolare valore simbolico, in questa tragedia, ebbe il massacro degli abitanti inermi di un villaggio arabo da parte di forze paramilitari israeliane. Un massacro negato (come sempre) dalle autorità israeliane, ma confermato da una lettera al «New York Times» di ventotto intellettuali ebrei, tra cui Albert Einstein e Hannah Arendt.

A rafforzare l’interpretazione colonialista del sionismo, secondo la Foa, venne poi «lo sciagurato episodio della guerra del 1956, la prima dopo quella del 1948, che vide Israele schierata con le ultime velleità colonialiste francesi e inglesi». Israele pagò a caro prezzo il suo intervento. «Fino ad allora, infatti, come scrive Benny Morris, gli Stati arabi non avevano avuto realmente come obiettivo la distruzione di Israele, ma lo ebbero dopo il 1956 vedendo ormai in Israele il braccio armato dell’imperialismo occidentale».

Anche in questa guerra, ad avvelenare ulteriormente il clima ci fu un’altra strage gratuita, perpetrata dall’esercito di Tel Aviv nel villaggio di Kfar Kassem. Questa volta il crimine fu riconosciuto. In Israele – racconta l’autrice – «l’episodio fu paragonato dalla stampa ai crimini nazisti. “Diventeremo come i nazisti”, si scrisse, e si parlò de “la bestia nazista che si è risvegliata dentro di noi”. Gli ufficiali responsabili furono condannati a pene severe ma rilasciati dopo tre anni».

Un’ulteriore accentuazione e una determinazione in senso religioso della interpretazione colonialista del sionismo, secondo la Foa, è stata determinata, nel 1967, dalla folgorante vittoria di Israele nella guerra dei sei giorni. Dopo questo strepitoso successo, che sanciva il mito dell’invincibilità dello Stato ebraico, «il sionismo subiva una vera e propria metamorfosi e si diffondeva un diverso tipo di israeliano, un sionista religioso aggressivo e ispirato da Dio a colonizzare tutta la terra di Israele».

È stato a partire dal 1967 che, sebbene al governo ci fossero i laburisti, è iniziato nella West Bank occupata il fenomeno degli insediamenti da parte di coloni ultraortodossi e fanatici, ai danni dei palestinesi, in spregio delle condanne dell’Onu, che ha sempre visto in queste occupazioni una violazione della risoluzione del 1947, in cui si assegnavano questi territori al futuro Stato palestinese.

Sabra Chatila, banner (ph. Dia al Azzawi Flickr

Sabra Chatila, banner (ph. Dia al Azzawi Flickr

Israele, gli altri ebrei e la nascita di uno Stato ebraico

Una trattazione specifica Anna Foa dedica nel suo libro ai rapporti tra Israele e gli ebrei che vivono in Europa e negli Stati Uniti. «Nei primi anni dopo la nascita di Israele, effettivamente il nuovo Stato e la diaspora europea sono entità ben distinte». Infatti, «nonostante l’emigrazione, la storia dell’Yishuv [denominazione degli ebrei insediati in Palestina prima del 1948] aveva dietro di sé percorsi troppo diversi da quelli degli ebrei d’Europa sterminati nella Shoah (. . . ). L’incontro fra i due mondi non fu così facile».

A permetterlo fu un evento che attirò l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, ma che, soprattutto, costituì per tutti gli ebrei l’occasione per rivivere la tragica storia che avevano in comune. «La vera e propria ricomposizione (. . .) fra Israele e diaspora, magistralmente ideata da Ben Gurion, avvenne nel 1961 con il processo ad Eichmann (. . .). Fu un ponte che consentì a Israele di assimilare la diaspora, di farne parte integrante della sua storia (. . .). La memoria della Shoah diventa parte integrante e fondante dello Stato».

Questo avvicinamento, all’inizio, non ha comportato sempre una piena sintonia. Nel 1982, in occasione dell’invasione israeliana del Libano e delle stragi nei campi profughi di Sabra e Chatila – non perpetrate, ma assecondate dall’esercito israeliano –, si erano levate forti voci di dissenso da parte degli ebrei europei. Ma dalla fine del secolo scorso la diaspora ha perso ogni capacità critica, «appiattendosi su Israele». In particolare si è avuta una «sempre maggiore dipendenza del rabbinato europeo rispetto al rabbinato israeliano», specie in Italia. «Oggi l’ebraismo europeo è privo (. . .) di ogni autonomia rispetto ad Israele»,

Abbiamo qui, nella lettura di una persona che conosce dall’interno l’ambiente ebraico in Italia, la chiave di lettura di quello che prima abbiamo visto parlando della posizione di pieno appoggio ad Israele da parte delle Comunità ebraiche italiane e del Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia.

Corinna Kern / Reuters

Corinna Kern / Reuters

Una contraddizione di fondo e la corsa verso il suicidio

I governi occidentali dicono di appoggiare Israele in nome della comune adesione all’ideale democratico. Fingendo di non vedere quella che l’autrice denuncia come la «contraddizione di fondo» fra questa pretesa democrazia e la Legge che nel 2018, per volontà di Netaniahu, lo proclama «Stato ebraico» in cui solo il popolo ebreo può essere il soggetto dell’autodeterminazione e in cui, dunque, i cittadini arabi – un quinto della popolazione – sono marginali rispetto a quelli ebrei. Senza dire che una simile identificazione etnica è una «decisa chiusura non solo verso i palestinesi, ma anche verso il resto del mondo».

Israele, insomma, è prigioniero di un’autoreferenzialità che lo spinge inesorabilmente verso sempre nuovi conflitti e un isolamento sempre più grande, di cui è il riverbero un crescente antisemitismo, in realtà determinato dall’ostilità verso lo Stato ebraico.

Da parte di molti ci si è chiesto se, dopo il terribile colpo del 7 ottobre, poteva fare qualcosa di diverso da quello che ha fatto. La risposta della Foa è affermativa. Si poteva percorrere un’altra strada, aprendo all’Autorità Nazionale Palestinese, che era già dal 2006 in aspro conflitto con Hamas e aveva rinunciato alla pregiudiziale anti-israeliana. All’indomani del trauma subìto, «invece di tirare dalla sua parte i palestinesi della West Bank e di prospettare la creazione dello Stato, mossa che avrebbe potuto dividerli da Hamas, il governo appoggiava le aggressioni contro i palestinesi (…) nei territori dell’Autorità Palestinese» (che con Hamas non c’entravano nulla), e scatenava contro Gaza una guerra che non aveva in realtà come obiettivo i terroristi, ma i palestinesi, nell’intento di cacciarli da ciò che resta loro della Palestina.

Ma perseverare in questa direzione, scrive l’autrice, «è per Israele un vero e proprio suicidio». «Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza tuttavia finora riuscire a fermarlo. E senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora». In questo suicidio, come abbiamo visto, le democrazie occidentali sono pienamente coinvolte. La contraddizione segnalata dalla Foa, per Israele, tra la qualifica di “Stato democratico” e un comportamento che nega i valori fondamentali della democrazia così come era stata intesa finora, coinvolge, inevitabilmente, i Paesi che lo stanno sostenendo incondizionatamente su questa via aberrante. E ci costringe a chiederci se, in questa vicenda, non sia la democrazia come tale che si sta suicidando. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025

_____________________________________________________________ 

Giuseppe Savagnone, dal 1990 al 2019 è stato direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, di cui oggi cura il sito «www.tuttavia.eu, pubblicandovi settimanalmente un editoriale nella rubrica “Chiaroscuri”.  Scrive per quotidiani e periodici e collabora con «Tv2000», «Radio in Blu», «Radio Vaticana» e «Radiospazionoi». Nel 2010 ha ricevuto il premio «Rocco Chinnici» per l’impegno nella lotta contro la mafia. Tra le sue pubblicazioni, Quel che resta dell’uomo. È davvero possibile un nuovo umanesimo?, Cittadella Editrice, Assisi 2015; Il gender spiegato a un marziano, Edizioni Dehoniane,  Bologna 2016; Cercatori di senso. I giovani e la fede in un percorso di libertà, Edizioni Dehoniane, Bologna 2018, Il miracolo e il disincanto. La provvidenza alla prova, Edizioni Dehoniane, Bologna 2021.

_____________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Attualità, Politica. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>