Stampa Articolo

Franco Ferrarotti: narratore della modernità e sociologo delle identità locali

s-l1200di Giovanni Gugg 

Franco Ferrarotti: il custode delle trasformazioni sociali del Novecento

Franco Ferrarotti è stato il pioniere della sociologia italiana, un visionario che ha trasformato il modo in cui guardiamo al mondo sociale. Con la sua morte, avvenuta il 13 novembre 2024, all’età di 98 anni, si chiude una stagione luminosa del pensiero italiano, ma rimane una scia duratura, un’eredità culturale e scientifica che continua a vibrare attraverso le sue opere e il ricordo di chi ha avuto il privilegio di conoscerlo.

Nato il 7 aprile 1926 a Palazzolo Vercellese, nelle terre del Piemonte solcate dal fiume Po, Ferrarotti ebbe un’infanzia segnata dalla fragilità fisica, che lo spinse verso un’intensa esplorazione del mondo intellettuale. In età adolescenziale, infatti, si trasferì a Sanremo per motivi di salute e qui sviluppò una passione per la lettura, frequentando la biblioteca locale. Come lui stesso avrebbe ricordato in seguito (Colella 2016), durante quel periodo compì frequenti viaggi verso Nizza a bordo di una vecchia Gilera 250, dove, presso la biblioteca comunale scoprì i “Cahiers de Sociologie” di Émile Durkheim. Questo incontro segnò una svolta nella sua vita intellettuale, ispirandogli i “Quaderni di Sociologia”, che fondò nel 1951 insieme a Nicola Abbagnano, immaginando la rivista come uno spazio di confronto e innovazione che portava la disciplina fuori dagli schemi accademici tradizionali. Come Ferrarotti stesso ha raccontato, la sociologia rappresentava per lui una scienza concreta, capace di unire osservazione sul campo e concetti legati all’esperienza umana diretta, superando l’astrazione della filosofia e l’aridità dell’economia politica.

Laureatosi in filosofia all’università di Torino con una tesi dedicata alla sociologia di Thorstein Veblen, Ferrarotti visse il suo momento più simbolico nel 1961, quando divenne il primo docente ufficiale di sociologia in Italia, presso l’università La Sapienza di Roma.

71mrpd-fydl-_ac_uf10001000_ql80_Non era solo un accademico, ma un esploratore della realtà umana. Credeva nel metodo qualitativo, un approccio che rifiutava l’astrazione sterile delle statistiche per privilegiare l’incontro diretto con le persone, con le loro vite, con le loro storie. La sociologia, per lui, non era un esercizio teorico, ma una lente per cogliere le tensioni, i cambiamenti e le contraddizioni del mondo. In opere quali La sociologia come partecipazione (1961a) e Roma da capitale a periferia (1970), ha saputo intrecciare il rigore scientifico con un’intensa partecipazione emotiva, raccontando non solo i fatti ma anche le sensazioni, le aspirazioni, i conflitti di chi viveva il cambiamento.

La sua vita fu segnata anche da un profondo impegno politico. Deputato per il Movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti, Ferrarotti fu un interprete di quella visione utopica che vedeva nella comunità e nella solidarietà una via d’uscita dalle alienazioni della modernità. Promotore di politiche sociali innovative, partecipò al dibattito europeo e internazionale, collaborando con istituzioni come il Consiglio dei Comuni d’Europa e l’OECE (oggi OCSE).

imagesFerrarotti ha lasciato un corpus vastissimo di opere, in cui ogni pagina sembra tessere un dialogo con il lettore, un invito a riflettere sul nostro ruolo nella storia. Libri come Sindacati e potere (1961b), La sociologia del potere (1972) e le sue analisi urbane rimangono pietre miliari, capaci di illuminare questioni ancora attuali.

Alla fine, Franco Ferrarotti era molto più di un sociologo: era un narratore della modernità, un “passeggiatore” tra le città e le persone, un testimone e un custode delle trasformazioni del nostro tempo. La sua voce ci richiama a un’etica dello studio che non si chiude nelle biblioteche, ma che vive nelle strade, tra le relazioni, dove il sociale si fa vivo e pulsante. La sua lezione non è solo nei suoi libri, ma nell’immagine che lascia: quella di un intellettuale che non ha mai smesso di cercare, di interrogare, di partecipare.

Castellammare di Stabia: un microcosmo dell’Italia che si trasforma

Tra gli innumerevoli percorsi aperti da Franco Ferrarotti che potrebbero essere ricordati ce n’è uno che a me pare lo collochi al di là della figura dello scienziato sociale, ovvero come un osservatore poetico e instancabile delle identità locali, quella di un intellettuale capace di scrutare la trama nascosta delle comunità e dei territori. Lo spunto viene da una delle tante testimonianze di cordoglio, che si è distinta per la sua commozione: quella di Luigi Vicinanza, sindaco di Castellammare di Stabia (Napoli), città che Ferrarotti aveva esplorato negli anni Cinquanta e raccontato come un simbolo vivido delle trasformazioni sociali dell’Italia.

Castellammare, con il suo intreccio di storia e modernità, divenne per Ferrarotti una lente per leggere l’anima di un’Italia in transizione. Era un laboratorio sociale, un luogo dove le tradizioni millenarie incontravano le sfide della modernità, dove le tensioni della crescita urbana si mescolavano alle radici profonde di una comunità abituata a vivere in dialogo con il mare e con la terra.

2024021719423851Negli anni del dopoguerra, quando il Paese si affacciava al cosiddetto “miracolo economico”, un periodo cruciale per la comprensione della città italiana e delle sue trasformazioni, Ferrarotti fu tra i primi a riconoscere il fenomeno che stava iniziando, capendo che il cuore delle trasformazioni non batteva solo nei grandi centri urbani, ma anche nelle città medio-piccole, luoghi spesso trascurati dalle narrazioni ufficiali, ma fondamentali per comprendere il tessuto sociale italiano. L’opera La piccola città. Dati per l’analisi sociologica di una comunità meridionale (1959), firmata da Franco Ferrarotti, Elio Uccelli e Gianfranco Giorgi-Rossi è considerata un momento di svolta metodologica: il libro utilizza fonti orali (in particolare, storie di vita) raccolte direttamente dai protagonisti per analizzare il passaggio di Castellammare di Stabia da una struttura sociale tradizionale a una moderna. Questa ricerca pionieristica pone le basi per un approccio qualitativo che avrebbe influenzato non solo la sociologia urbana, ma anche l’antropologia e la storia.

In quella città, Ferrarotti vide un microcosmo, uno specchio del Paese, capace di riflettere le contraddizioni, le speranze e le ferite di un’Italia che cercava di trovare una sintesi tra progresso e identità. Il suo approccio andava oltre l’analisi scientifica: era un incontro, un ascolto, un dialogo. Con uno sguardo che univa il rigore del sociologo alla sensibilità dell’umanista, Ferrarotti riuscì a cogliere l’essenza della città, trasformando le strade, le piazze, le voci degli abitanti in tessere di un mosaico più grande. E così Castellammare, nelle sue narrazioni, non era solo un luogo geografico, ma un simbolo dell’Italia che si evolveva, carica di sfide ma ancora ancorata a valori profondi.

Il ricordo commosso dell’attuale sindaco stabiese, dicevo, ha dipinto Ferrarotti come «un interprete profondo e autentico del nostro tempo»; un’immagine che restituisce il senso di questo legame speciale, che ha saputo vedere in Castellammare non solo una città, ma un racconto. E in queste parole si sente l’eco della capacità di Ferrarotti di trasformare luoghi in storie e storie in lezioni universali; un’attitudine preziosa anche per altre discipline, come l’antropologia urbana. Questa, pur essendo una disciplina relativamente giovane rispetto alle tradizioni anglosassoni o francesi, si sviluppa in Italia attraverso un fecondo dialogo proprio con la sociologia urbana e altri approcci interdisciplinari, delineando un panorama caratterizzato da contaminazioni teoriche e specificità culturali. Il saggio “L’antropologia urbana in Italia” di Angela Giglia, pubblicato nell’ottobre 1989 nel numero monografico de “La Ricerca Folklorica” intitolato “Antropologia urbana. Progettare e abitare: le contraddizioni dell’urban planning”, offre preziosi spunti per comprendere le radici di questa disciplina, prendendo spunto proprio da La piccola città di Ferrarotti.

img_20181129_165009L’intensa urbanizzazione innescata dal “miracolo economico” italiano, mette in marcia milioni di persone che lasciano le campagne, soprattutto meridionali, per trasferirsi nelle città del Nord e del Centro in cerca di opportunità legate all’industrializzazione. Sebbene tardivo rispetto a Paesi come la Gran Bretagna o la Francia, questo fenomeno si innesta su una rete urbana storicamente consolidata, composta prevalentemente da città di medie e piccole dimensioni, ciascuna con una propria identità storica, sociale e culturale.

La rapida crescita urbana degli anni Cinquanta e Sessanta si accompagna a criticità quali lo sviluppo caotico delle periferie, la carenza di infrastrutture adeguate, le difficoltà di integrazione per i nuovi arrivati e l’emergere di tensioni sociali. Questo contesto fornisce terreno fertile per gli studi urbani, che si concentrano su temi quali i bisogni abitativi, le nuove forme di relazione sociale, i conflitti legati alla gestione delle città e i processi di partecipazione.

In quegli anni, gli studi di Franco Ferrarotti o di Paolo Guidicini innovano la metodologia di ricerca, adottando approcci microanalitici che si avvicinano alla prospettiva antropologica per l’attenzione ai contesti locali e alle esperienze vissute. Lontani da un’analisi puramente macrostrutturale, tali studiosi indagano le dimensioni quotidiane dell’abitare urbano, svelando le complesse interazioni tra individui, comunità e ambiente. Si tratta di contributi pionieristici, ricorda Angela Giglia, che gettano le basi per un’analisi critica delle città come spazi densi di significati e tensioni, dove le trasformazioni economiche, sociali e culturali si intrecciano con i vissuti personali e collettivi.

In questo, Castellammare di Stabia è una città emblematica e Franco Ferrarotti la scelse come un laboratorio unico per comprendere i mutamenti in corso. La città stabiese rappresentava un microcosmo complesso, intrecciando tre anime economiche principali: l’industria, il turismo e l’agricoltura. I cantieri navali della Navalmeccanica dominavano il paesaggio economico e sociale, fungendo da perno attorno al quale ruotava la vita della comunità, trasformando pescatori e contadini in operai e scandendo i ritmi del quotidiano. Parallelamente, il turismo, alimentato dalla bellezza paesaggistica e dalla posizione strategica della città, aggiungeva vitalità e apertura, mentre l’agricoltura, radicata nella tradizione, forniva un contrappeso alla crescente industrializzazione, preservando valori e ritmi legati al mondo rurale.

Questo equilibrio, però, non era privo di tensioni. La ricostruzione post-bellica e i piani di modernizzazione industriale promossi dall’IRI, tra cui le ristrutturazioni tecniche dei cantieri navali, si scontrarono con le resistenze culturali e sociali locali. Commissionata dalla Navalmeccanica, la ricerca di Ferrarotti non si limitò ad analizzare i fallimenti produttivi, ma esplorò profondamente l’impatto umano di tali trasformazioni. Attraverso un approccio interdisciplinare, che integrava sociologia, psicologia e metodi qualitativi come l’osservazione partecipante e la raccolta di biografie, Ferrarotti e colleghi rilevarono un quadro ricco e sfaccettato.

Le narrazioni personali degli operai rivelavano una doppia prospettiva sul cambiamento: da un lato, la speranza di un futuro migliore, dall’altro, il timore di smarrire identità e valori radicati. La modernizzazione industriale incontrava ostacoli come la resistenza culturale dei lavoratori, i conflitti organizzativi all’interno dei cantieri e la disgregazione delle reti di solidarietà tradizionali. Questi fenomeni riflettevano un contrasto tra il vecchio tessuto culturale contadino-operaio e una nascente cultura industriale, che, seppur portatrice di progresso, minacciava la coesione sociale.

«Questo ricorso alla storia è comune a quasi tutti gli abitanti del luogo: comune all’operaio che vanterà la data di fondazione e la straordinaria attività dei Cantieri Navali nel secolo scorso; al commerciante che rimpiange i maggiori guadagni di quando la città era l’unico sfogo dell’ampio retroterra; all’intellettuale locale che ritrova nella storia passata una vitalità che la gente e la città hanno persa; e infine al sottoproletariato che ora, con l’accresciuta differenziazione sociale, sente più intensamente il distacco e il disagio della sua posizione di escluso. La storia qui pesa, il passato è per ciascuno un preciso, o forse l’unico, punto di riferimento […]. La storia è il canale attraverso cui fluiscono i rancori, le nostalgie, le incomprensioni dell’oggi: un flusso che non conosce la strada del futuro, ma si proietta di continuo nel passato» (Ferrarotti 1959: 44).

L’indagine di Ferrarotti evidenziò come Castellammare fosse una città sospesa tra tradizione e modernità, paradigmatica delle contraddizioni che attraversavano l’Italia del dopoguerra. Industria, turismo e agricoltura, lungi dall’essere compartimenti stagni, si influenzavano reciprocamente, modellando una complessa identità collettiva. I risultati della ricerca non solo permisero di comprendere le dinamiche locali, ma posero le basi per riflessioni più ampie sui processi di modernizzazione, enfatizzando l’importanza di un’analisi centrata sull’esperienza umana e sulle interazioni quotidiane.

Franco Ferrarotti

Franco Ferrarotti

La città come laboratorio umano tra memoria e trasformazione

Nell’esperienza di Franco Ferrarotti, Castellammare di Stabia emerge non solo come luogo fisico, ma come un sistema complesso di relazioni, simboli e tensioni, dove convivono diverse visioni del mondo e dove il passato industriale continua a influenzare il presente. I quartieri, con la loro coesione sociale e il senso di solidarietà, raccontano storie di continuità, ma anche di fratture profonde: la chiusura della fabbrica ha lasciato un vuoto economico, culturale e sociale che si riflette nelle difficoltà delle nuove generazioni.

Come osservano Annalisa Di Nuzzo e Domenico Scafoglio (2008), il declino dei cantieri navali ha generato disoccupazione, precarietà e un progressivo degrado urbano, lasciando dietro di sé aree marginalizzate e periferie caratterizzate da edilizia frammentata e scarse opportunità. Nel contesto postindustriale attuale, gli studi di Ferrarotti mantengono intatta la loro rilevanza, perché le sue metodologie partecipative e il suo focus sull’elemento umano offrono ancora strumenti fondamentali per affrontare le sfide contemporanee. Gli edifici popolari, continuano Di Nuzzo e Scafoglio, progettati per una funzionalità produttiva più che per il benessere sociale, convivono con una forte coesione tra gli abitanti, alimentata dalla vicinanza fisica e dalla condivisione di pratiche simboliche, come il “gioco della breccia nel muro della ferrovia”, che rappresenta una ribellione contro le restrizioni fisiche e simboliche del territorio (gruppi di ragazzi aprono un varco di accesso verso il mare, che le Ferrovie si affrettano a richiudere per ragioni di sicurezza, ma che sistematicamente vengono riaperte dopo poco con la complicità di tutti gli abitanti). Evidentemente, raccogliere la “memoria della fabbrica”, cuore pulsante del passato, è un modo per comprendere come sopravvivano i legami sociali e come si preservi la funzione simbolica di quei luoghi, che oggi diventano laboratorio di identità e trasformazione.

Si tratta di un processo comune alle città post-industriali, dove la perdita del centro produttivo obbliga a ridefinire ruoli e relazioni. La città operaia di Castellammare si è trasformata da spazio produttivo a luogo simbolico, un campo di interpretazione in cui passato e presente dialogano, generando tensioni ma anche opportunità per ripensare il futuro. Questa traiettoria evidenzia come le trasformazioni urbane siano specchio di cambiamenti culturali, sociali e identitari, ponendo al centro la necessità di politiche inclusive e capaci di valorizzare le risorse locali per affrontare la modernità frammentata.

L’approccio partecipativo e umanistico di Ferrarotti ha messo al centro l’esperienza vissuta e le biografie degli abitanti; una scelta metodologica che si rivela oggi più che mai attuale. Di fronte ai fenomeni contemporanei come la gentrificazione e le crescenti disuguaglianze, quell’orientamento ci invita a ripensare le città come spazi inclusivi, radicati nelle storie e nei bisogni delle comunità locali. In questo senso, la “piccola città” di Castellammare di Stabia resta un laboratorio umano dove si intrecciano passato e futuro, ricordandoci che la vera sostenibilità urbana nasce dal riconoscimento del valore umano e dalla capacità di costruire una memoria condivisa per affrontare le sfide del presente.

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Riferimenti bibliografici
Colella, Francesca, 2016, Intervista a Franco Ferrarotti, in «Sociologia italiana», n. 6, 2015/2016; disponibile online: https://sociologiaitaliana.egeaonline.it/it/21/archivio-rivista/rivista/3343150/articolo/3343200
Ferrarotti, Franco, 1961a, La sociologia come partecipazione e altri saggi, Taylor Editore, Torino.
Ferrarotti, Franco, 1961b, Sindacati e potere negli Stati Uniti. Il dilemma dei sindacati americani (or. 1954), Edizioni di Comunità, Milano.
Ferrarotti, Franco, 1970, Roma da capitale a periferia, Laterza, Bari.
Ferrarotti, Franco, 1972, La sociologia del potere, Laterza, Bari.
Ferrarotti, Franco; Uccelli Elio; Giorgi-Rossi, Gianfranco, 1959, La piccola città. Dati per l’analisi sociologica di una comunità meridionale (1959), Edizioni di Comunità, Milano.
Giglia, Angela, 1989, “L’antropologia urbana in Italia”, in Antropologia urbana. Progettare e abitare: le contraddizioni dell’urban planning (a cura di Amalia Signorelli), numero monografico de «La Ricerca Folklorica», n. 20, ottobre.
Scafoglio, Domenico, Di Nuzzo, Annalisa, 2008, La ‘Piccola città’: Castellammare tra letteratura e indagini socio-antropologiche, in «Quaderni del dipartimento di Scienze dell’Educazione», Università di Salerno, Pensa ed., Lecce.
Vicinanza, Luigi, 2024, post su «Facebook» in ricordo di Franco Ferrarotti, 14 novembre: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=122153009372312717&id=61559381513126

 _____________________________________________________________

Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.

_____________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>